Carmelo Bene: l’attore dei tre subjectiles
II.X. La chora tecnologica
È una dialettica cruciale per la lettura della chora attorale, la cui logica verrà estremizzata in alcune pièces della Socìetas Raffaello Sanzio di cui ci occuperemo, sfociando in una rarefazione dell’emissione fonica per il prevalere del polo dell’ingoiamento. Lì la forza che ricaccia la parola nei visceri è sempre in atto, e la spinta contraria all’emissione verbale deve ogni volta vincere la resistenza oppostale endogenicamente, giungendo il più delle volte stremata alla soglia labiale, senza disporre di energia residua, quella necessaria al rendersi udibile. Anche in Bene vi è l’emissione muta, la parola silente, ed è quella che, oltre a quelle di petto, di testa e palatale, egli chiama “emissione di maschera”195
, che costituisce un ulteriore contrappunto alle altre, oltre a quello fornito dall’inghiottimento vero e proprio. L’impostazione di fondo però non può non essere
194 Jacques Derrida, Artaud et ses doubles, cit. pag.
diversa, rispetto a quella della Raffaello Sanzio, in un teatro del personaggio-voce: la dialettica rigurgito-ingoiamento consiste in Bene di un trasferimento della dinamica respiratoria all’interno della fonazione. Come si aspira tanto ossigeno quanto si emette anidride carbonica, così si ingoiano altrettante parole di quante se ne rigurgitino o sputino. Oppure se ne fanno ingurgitare tante allo spazio circostante, quante se ne vomitano nelle proprie viscere.
In ogni caso, la bocca cavernosa gesta l’eco di “innumeri voci inghiottite”196
. Vi è costantemente, coeva alla forza ex-pressiva che mette a repentaglio i suoni espandendoli all’alea dell’aperto – ma non è che voce che si stacca da sé -, una controforza che li sospinge al di qua della loro emorragia, e che non è che “plasma sonoro”197
che si ricongiunge a sé. Questo controrigurgito non ingoia infine – “infinalmente”198
- che l’ex-pressività, parola che, nella provenienza denotata da quell’ex, tradisce la chora. “Premere da”: Bene non vuole esprimere, perché dell’ex-primere vuole mostrare l’ex, ciò da cui lo spremuto e il secreto verbali provengono: il subjectile dell’attore. In quella cavità mostruosa che è la bocca, in quanto viscere spalancato all’esterno, privo di quarta parete, staziona l’eco di “innumeri voci inghiottite”: “la mestizia delle cose che non ebbero mai un cominciamento, disegna sopra il chiuso silenzio delle labbra il sorriso dei morti e canta incomprensibile la voce dell’ascolto”199
. Lo ribadiamo: la chora è la materia non impiegata nella demiurgia dei simulacri. E il soggetto, in quanto subjectile dell’Esserci, è la chora dell’io. Lasciamo ancora la parola a Camille Dumoulié: “Questo resto, la cui potenza spaventa Platone, che diffida di tutto quanto, nella polis, ha un riferimento di “essenza” con Chora (i guerrieri, le donne incinte, i neonati, i sofisti; ma anche l’oro al quale viene paragonata – e ancora, per certi effetti di testo messi in luce da Jacques Derrida, lo stesso Socrate); questo resto, dunque, è l’attoralità dell’attore”200. E cos’è il corps sans organes se non la chora del corpo, dalla cui prospettiva gli organi stessi sono i simulacri della cui materia esso è il resto? Si può certo discutere se ci sia riuscito, o quanto, ma per dare un contributo critico all’opera di un artista bisogna preliminarmente allinearsi correttamente alla posta della sua
196 Carmelo Bene, La voce di Narciso, cit. in Opere, pag. 1001. 197 Dino Villatico, Il dramma n. 6, giugno 1979, pagg.86-87. 198
Carmelo Bene, La voce di Narciso, cit. pag. 1000-1001.
199 Ivi, pagg. 1199.1200.
scommessa: Bene ha usato fin dagli esordi i simulacri del teatro a cui è nato, di cui era, evidentemente, un precoce e onnivoro conoscitore, come Caronte della peccata, per mettersi attraverso di essi sulle tracce dei loro resti. E attorno ai resti si è sempre affaccendato. Attenzione: intorno ai resti di tutti i generi, ai resti di tutti i simulacri. Anche ai resti del simulacro-Artaud, a quelli dello stanislavskismo, del pirandellismo, del terzoteatrismo; ai resti del Verfremdung brechtiano e, perfino, a quelli del simulacro beckettiano in corso d’opera incipiente. Non ha fatto abbastanza, forse, per prevenire il proprio, per essere la chora di se stesso.
La chora è il non-nato, perché non entrato negli stampi dei simulacri dell’essere. Ma la chora è anche, continuamente, creata dal fatto di non entrare nella creazione. Quella di un demiurgo che crea senza sosta a ritmo industriale. Anche microfoni, amplificatori, mixer. Pure delle funzioni per cui questi sono stati pro-gettati se ne vuole disvelare la chora: il subjectile tecnologico. La scommessa sarà questa: svelare la chora tecnologica, il subjectile elettronico, mettendolo al servizio della chora attorale, contribuendo ad esporla, a snudarla, a spremerne l’ex, innanzitutto al cospetto dell’attore stesso. Questo l’estremo delirio beniano: con una sola mossa mettere in luce, heideggerianamente, la chora tecnologica impiegandola per evidenziare il subjectile dell’attore. Ricordiamoci del finale di Pour en finir avec le jugement de dieu: “vous lui réapprenderez à danser à l’envers, comme dans le délire des bals musette et cet envers sera son véritable endroit”201
. E poco prima: “En le faisant passer une fois de plus mais la dernière sur la table d’autopsie pour lui refaire son anatomie”202
. “Danser à l’envers”, per Bene, è risalire dal simulacro attorale al suo residuo materico, e la “table d’autopsie” è il supporto elettronico.
Abbiamo visto che vi è una “percussività interna”. Quella che in Artaud è la glossolalia non udibile, pedaggio implicito all’emissione della parola. Il rutto della parola, il suo doppio anticiclico: la glossolalia deglutita. E le parole che continuano a fuoriuscire. Emorragia radioattiva della voce. Ma ciò che conta avviene sotto, dietro l’emergenza dei suoni. L’emergenza nell’altro polo della sua polisemia: in termini artaudiani, la parola nel suo stato di necessità dietro e prima della parola
201 Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de dieu, cit. in Œuvres, cit. pag 1654. 202 Ibid.
formata, la parole di prima dei mots. Per Bene la posta del delirio è ancora rilanciata: persino dietro e prima della parole di prima dei mots, ritrovare la langue come resto della parole. Su questo, in ultima analisi, è puntato l’obiettivo delle nuove protesi di Gloucester per rinviare l’essere Riccardo III: quelle elettroniche.
Le doglie dell’emissione palatale, gli scricchiolii “cartilagineuses” dell’emissione di testa, l’ansietà irriducibile dell’emissione di petto, gli sfregamenti dell’incresparsi della maschera facciale, le risacche di saliva, le “(s)modulazioni di frequenza nelle contrazioni diaframmatiche”203
, il dimenio rettile della lingua, ora risucchiante e ora frusta sui denti: tutto ciò Bene vorrebbe lo captasse la dattilografa elettronica. Nel mentre che essa registra tutte le più sottili sfumature del livello simulacrale in cui lo stesso attore si sdoppia a demiurgo: cioè tutte le sapienze della téchne, dall’”ampiezza del ventaglio timbrico e le variazioni tonali” allo “staccato”, dal contenere “altezze e picchi (dentro) il diagramma monotóno della fascia armonica”, al “monotóno garantito dal basso continuo mai disinserito”204.
Ma le due catene di fenomeni, quella chorico-residuale e quella tecno-demiurgica sono state qui ben distinte solo didascalicamente: la techne vive dei propri incidenti, la chora sta sempre nell’incombenza della nascita al mondo organico. Ma vi è una precedenza ontologica dell’inorganico rispetto all’organico. I morti, nel Freud di Al di là del principio di piacere, precedono i viventi. Il vivente, per salvarsi da sé, deve ospitare nel suo seno l’ombra dell’inorganico. Questa at-tensione al preorganico è l’autentica sensibilità storica. Niente di mortuario: funebre è difendersene, volgergli ingenuamente le spalle verso una supposta esclusività della vita. La stessa rivoluzione è tale solo in quanto resto delle istituzioni: ma allora essa deve risuonare del silenzio dell’inorganico.
Questo silenzio è il clandestino protagonista del teatro del personaggio-voce.
Ma il silenzio chorico non è una forma-silenzio: né una forma silenziosa né un silenzio formato. Paradossalmente, per farlo udire, occorre lavorare fino all’estenuazione la forma sonora. Il silenzio
203 Carmelo Bene, Autografia di un ritratto, cit. in Opere, cit. pag XXXIV. 204 Ibid.
(il silenzio della materia) non può essere direttamente ghermito: perciò Artaud ammirava le “attitudes secrètes et détournées de la pensée205
delle performances balinesi. Il silenzio deve essere lasciato essere, ciò che solo una forma, tecnicamente estenuata, può fare. Il massimo del degrado sono le rivoluzioni formate, ed estenuate; direttamente preparate, preparata altrimenti dall’estenuazione dell’Istituzione. Così col misurarsi con la macchina attoriale di Bene, l’accento dev’essere posto non nel simulacro ma nella chora.