• Non ci sono risultati.

Carmelo Bene: l’attore dei tre subjectiles

II.XIII. Il subjectile lorenzaccio

Ancora un concerto di subjectiles in Lorenzaccio, al di là di De Musset e Benedetto Varchi, andato in scena nel Ridotto del Teatro Comunale di Firenze, il 14 settembre 1986. Spettacolo senza più

219 Carmelo Bene, Pinocchio, in Opere, cit. pag. 537.

teatro, che, Bene dice, mira ad “uscire dall’equivoco della scrittura di scena”221, non bastando uscire “dai sacri testi, dai testicoli, dai copioni”222

: noi aggiungiamo che questa messinscena costituisce anche l’occasione di un’uscita dall’equivoco della stessa “macchina attoriale”. Essa si lascia ripartire, “come nei trittici di Bacon”223

, da un triplice subjectile, “tre degradanti superfici di palcoscenico”224

: un fondale, un piano scenico intermedio, e una superficie ribassata e più prossima alla platea. Il fondale più interno riduce a subjectile la stessa scrittura di scena del Bene shakespeariano: Alessandro VI “(incorniciato da spropositata cornice)”, cita Gloucester, “palpando intima femminile biancheria”225, feticisticamente. Il piano scenico intermedio ospita la soggettilità “lorenzaccia” e, aggiungiamo noi, “burattina”: quella destinata alla chora attorale. La superficie ribassata è quella della soggettilità tecnologica, personificata da un “guerriero rumorista”, e che gestisce, gesta, è incinta del “fragore alonato e incongruo della Storia”226

.

Ma proprio il subjectile attorale è quello sordo, insonoro, afono, muto. Potremmo dire, anticipando un eminente momento di teatro – il discorso di Antonio nel Giulio Cesare della Raffaello Sanzio -, laringectomizzato. L’attore è ora in balia del supporto tecnologico, e, attraverso di esso, della sua stessa voce: la sentirà risuonare in playback mentre è in scena, completamente privo della propria téchne vocale. L’ha infatti pre-registrata come un “mini-radiodramma poi diffuso in sala, mai coincidente con lo spettacolo”227

. Ciò che è ribadito, in scena, dal fatto che nel subjectile lorenzaccio l’oggettistica e gli arredi sono di gommapiuma, un materiale insonoro, nemmeno attraverso il quale l’attore è in grado di far avvertire acusticamente la propria presenza. Né egli sa mai quello che il subjectile tecnologico manderà in onda, la decisione in merito essendo prerogativa del guerriero-rumorista che lo gestisce arbitrariamente. L’attore non può far altro, insomma, che inseguire penosamente con la sua presenza scenica il se stesso del playback e i capricci di un subjectile tecnologico completamente autonomizzatosi e alienatosi da lui.

221

Carmelo Bene, Lorenzaccio, in Opere, cit. pag. 1273.

222 Ibid. 223 Ibid. 224 Ivi, pag. 1271. 225 Ibid. 226 Ibid. 227 Ivi, pag. 1274.

Nel registrare che Bene appronta una situazione simmetricamente invertita, rispetto a quella artaudiana della scena radiofonica di Pour en finir avec le jugement de dieu, non intendiamo certo ridurre la portata di questo estremo esito dell’inquietudine autocritica beniana alla messa in opera di questo chiasmo. Ma nemmeno minimizziamo la circostanza che il fantasma radiofonico artaudiano lavori patentemente la concezione di questa scommessa teatrale estrema. Il chiasmo tra visibilità e udibilità è in atto, ma, tutt’altro che esaurirsi in esso, la strategia beniana lo spende tatticamente per attingere un obiettivo più radicale.

L’aspetto radiofonico viene inglobato nella messinscena sottoforma di una pre-registrazione, che viene poi investita sulla scena sottoforma di playback, il quale tuttavia viene negato dall’essere esibito in quanto tale. Non assolve alla sua funzione che implica una corrispondenza col labiale, che qui è invece flagrantemente disattesa. Si aggiunge in tal modo un’ennesima variante nell’ambito del filone delle dissociazioni.

Ma il fine ultimo dell’operazione è quello di mostrare che la voce dell’Esserci è il playback della sua soggettività, del suo supporto inorganico, del suo resto marionettistico: il playback del silenzio della chora attorale, dove “attore” coincide qui, come in Artaud, con l’essere umano tout-court. La phoné è la voce come playback della chora silenziosa. Servendosi del supporto tecnologico, Bene non mira ad altro che a mostrare il silenzio della voce. La phoné, lungi dall’essere la voce, ne è il silenzio, normalmente inudibile: è la voce del silenzio inorganico.

Sia Artaud che Bene pensano via via sempre più che nella fisiologia dell’Esserci sia “l’audio a precedere il visivo”228, perché il suono è più lento della luce. La voce di Artaud sembra, a tratti, voler far emulare al suono la velocità della luce. Nella scena radiofonica si allea naturalmente ai limiti da essa imposti, approfittando dell’ablazione della visibilità diretta, perché dirompano, non smussate dalla compresenza di quella, le potenze della voce. Per questo vi è chi, come Artioli, inscrive la vicenda teatrale artaudiana nell’ambito della volontà di potenza229

. In realtà Bene e Artaud sono conniventi anche nel perseguire, ciascuno con i mezzi di cui ha potuto disporre,

228 Carmelo Bene, Autografia di un ritratto, in Opere, cit. pag. XV.

un’ulteriore, fondamentale esigenza: quella di innalzare una quarta parete a chiudere-aprire la scena. Questa necessità, che in Artaud si inscrive nell’ordine della crudeltà, assolve innanzitutto a un progetto di accecamento. Ma non obbedisce certo a un intento di difesa e protezione, nel senso di una riduzione dell’esposizione sacrificale dell’attore in scena. Le spinte esibizionistiche ed istrioniche, oltreché differenti, sono state in entrambi, Artaud e Bene, di gran lunga superiori al bisogno, che comunque avvertivano, di lenire l’angoscia, anch’essa diversamente provata, dell’esposizione scenica. Che coincide poi, per entrambi, con l’angoscia dell’esposizione alla vita. La quarta parete, nell’Artaud estremo, è innalzata contingentemente dalla cecità radiofonica, ma è ampiamente profetizzata da un intero arsenale strategico che può essere compendiato in quel campo articolato che chiamiamo glossopoiesi. Al di là della costrizione radiofonica, che è divenuta giocoforza testamentaria, Artaud avrebbe proceduto, in altri modi, sulla via dettata dalla necessità di chiuderere-aprire la scena con una qualche sorta di “quarta parete”.

L’apporto inestimabile di Bene, fondamentalmente inscritto nella stessa direzione, al punto che la sua più genuina lucidità artistica ed esistenziale sta nell’avere compreso di non poter far altro che in-oltrarsi in essa: l’oltranza del suo contributo consiste nell’aver concepito la sua quarta parete al fine di sottrarre voce alla voce. La tattica “lorenzaccia”, oltreché esserne lo sbocco più radicale, è anche la riprova incontrovertibile che la strategia di lungocorso del suo teatro è stata quella di inseguire, della voce, non la voce per se stessa, ma il suo subjectile e la sua chora. La quarta parete, in Bene, è il supporto tecnologico. La macchina attoriale, al contempo, esisteva e non esisteva fin da subito, era già in azione eppure non lo era ancora. Il discrimine tra il prima e il poi sta nell’avvalersi del supporto fonico. Senza di esso la voce era troppo in platea, scaraventatavi dalla necessità di farvela giungere: ciò che rendeva più calda la presenza scenica, e non sono pochi gli spettatori che perciò hanno maturata – man mano che procedeva la parabola artistica di Bene – una nostalgia vieppiù acutizzatasi per il “Carmelo prima maniera”. Ma costoro non erano in sintonia con l’orientamento che la sua attoralità aveva intravisto fin dalla prima lettura majakovskiana del 1960. La stella polare era fin da allora la noia come unico sentimento rispettabile, in quanto chora di tutti

gli altri sentimenti: nello specifico teatrale, noia del corpo e noia della voce, in quanto feticci teatrali non più tollerabili. La noia vi era l’agente deformante: ma la si scambiava, e chi lo faceva non ha quasi mai smesso di essere recidivo, per espressività (come se essa non fosse, al contrario, invisa al Bene attore non meno che allo scrittore). Così come sarebbe incauto ascrivere alla categoria dell’espressivo teatrale l’uso del corpo del primo Bene (corpo che abita una scena non ancora amplificata sensorialmente), quando esso era già costitutivamente improntato all’imbarazzo, al disagio, all’inciampo, al lapsus, all’ inadeguatezza non voluta: non al segno della volontà di potenza di stampo espressionistico, ma in quello della scoperta, involontaria e folgorante, della propria impotenza. Così sarebbe altrettanto fuorviante leggere in chiave di espressività il balbettio motorio di un attore, quale quello del Lorenzaccio, tiranneggiato dal playback di se stesso, cui cerca di adeguarsi vanamente su una scena completamente alienata, nonostante sia il frutto di un trentennale cammino di autogestione del teatro da parte dell’attore. Il teatro di Bene sfocia nell’irriducibilità dell’alienazione. Questo può piacere, o ancor più e più che legittimamente non piacere: ma il suo teatro è un teatro dell’impotenza e del femminile, che, come quello di Artaud, non può essere in nessun modo ascritto all’orizzonte della volontà di potenza avanguardistica. Se lo si fa è perché si scambia il pieno col vuoto, equivocando i vuoti per pieni, e l’ob-sceno con l’in-scena.

Il Femminile beniano, l’eccedersi del desiderio, non è la donna vista dall’uomo: è il non visto da entrambi, né dalla donna né dall’uomo. Per avvalerci di una dicotomia più impersonale, quale ci offre una parte della prassi di pensiero cinese: l’attoralità beniana si inscrive nel segno dello yin, non del maschilismo avanguardista, e delle sue enfatiche espressività.

(…) certaines exténuations apparentes des moyens scéniques poursuivent par fois plus rigoureusement le trajet d’Artaud230

Capitoloterzo