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Socìetas Raffaello Sanzio: la metamorfosi della scena

IV.III. Retorica autistica vs retorica comunicativa

Lo specifico trattamento di questo che possiamo ormai apertamente considerare un vero e proprio complesso attorale del grande teatro del secondo Novecento, da parte della Socìetas Raffaello Sanzio, si caratterizza per la spiccata tonalità biopolitica294, della quale i primi due spettacoli dell’Epopea della polvere si configurano come una sorta di manifesti, o di studi che si riveleranno retroattivamente preparatori. Ciò a partire da un’inconfondibile drammatizzazione, spalmata senza tregua lungo l’intero decorso scenico, del disagio dello stare in scena, tale che qualunque grado di esibizionismo non solo non è in neutralizzare, ma può anzi soltanto acuire. La pulsione esibizionistica, insomma, è catalizzatrice di un siffatto disagio. La retorica autistica – così come emerge nell’Amleto – è il lasciapassare per un acme di esibizionismo. L’attore, barricato nella fortezza bettelheimiana295, è letteralmente cinto e corazzato dal suo esibizionismo: questa la

294 Biopolitica è sia l’ingerenza capillare e massiva della normatività sulle funzioni biologiche dell’uomo (nascita,

alimentazione, salute, igiene, sessualità, morte), che la resistenza dell’individualità alla prospettiva di una vita minuziosamente normalizzata in ogni suo bio-aspetto e così posta sotto tutela, infantilizzata.

295 Nei commenti all’Amleto Romeo Castellucci cita frequentemente Bruno Bettelheim, uno dei più famosi psichiatri fra

“veemente esteriorità” di cui la messinscena si sottotitola, amplificando una puntuale considerazione benjaminiana. Benjamin nel gran saggio sul Trauerspiel la riferisce alla morte di Amleto, nella quale si rende segnatamente appercepibile la distanza tra la tragedia antica e il dramma moderno296: la sostanziale, intima refrattarietà di quest’ultimo al tragico.

Agli armonici autistici del carattere amletico si addice che la sua morte non sia sottratta alla visibilità scenica, come sarebbe stato in un contesto tragico, dove l’attimo del divenire cadavere, quale culmine di qualsiasi violenza, è costituzionalmente ob-sceno perché irreversibile, come del resto ogni altra violenza che lo prepari. Del solo Prometeo può essere esibita la violenza indicibile cui è sottoposto, in quanto gli effetti di essa sono reversibili, perché egli è immortale. D’altra parte, quattrocento anni più tardi, la veemente esteriorità dell’autismo di questo ulteriore Amleto di meno è talmente totalitaria, da renderne superflua la morte, non perché essa sia di nuovo rispettata nel retro della skené, ma perché alla lettera essa non può accadere in un regime di esposizione integrale, nel quale - come Castellucci non manca di ricordare - Primo Levi, riferendosi all’esposizione integrale dell’internato nel Lager, dice che “anche la morte era messa a morte”297

.

La parola cadente della retorica autistica implode in uno spazio che vuole intrappolare in sé il tempo, tenendo ai margini di esso l’incombere di qualunque virtualità intersoggettiva. La parola, in questo ambiente dai margini inclinati verso l’interno, è la secrezione più potente, che tasta coi suoi getti ricadenti le membra che quell’ambiente costituiscono prolungando quelle del corpo, e amplificando l’organismo affinché il minimo strettamente necessario di mondo coincida con esso. La parola assolve cioè a una funzione di ronda, che si accerta ossessivamente della cristallizzazione atemporale della scena-ambiente298, che non ammette alcun residuo di mondo fuori di sé. Questo regno fatto interamente di pori dai quali incessantemente le secrezioni si avvicendano, incluse

particolare cfr. Bruno Bettelheim, La fortezza vuota, Garzanti, Milano, 1987.

296 “La morte di Amleto che non ha in comune con la morte tragica più di quanto il principe abbia con Ajace, nella sua

veemente esteriorità è caratteristica del dramma.” Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino, 1980; pag. 135.

297 Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1993; cit. in Epopea della polvere, cit. pag. 264.

298 La scena di questo spettacolo è costituita da una stanza rettangolare con al centro un letto in ferro. Questa stanza è

suddivisa internamente da tre corsie, delimitate da quattro aste in ferro. Due armadi in ferro si trovano all’interno della scena, sui lati corti del rettangolo. Una fila di batterie di auto, collegate tra loro con cavi e morsetti,

quelle verbali, e dei quali solo lo strato di epidermide estremo è rigorosamente sprovvisto, ha al suo centro il letto come un trono. Un concertato pirotecnico di secrezioni orchestrato per esorcizzare la Secrezione fondamentale: il tempo.

L’essere assimilata allo statuto di secrezione conferisce alla parola una forza di ripetizione incommensurabilmente superiore a quella che opera all’interno della retorica della comunicazione. Iterazione, formularità, ricorsività rivestono, all’interno della retorica autistica, una pregnanza abnorme, rispetto al regime anaforico che struttura e distribuisce il materiale di ogni arte della persuasione, dove l’anafora e i suoi climax segnano l’acme in cui il discorso si tende oltre di sé, fino al limite del punto di rottura, per toccare i centri nervosi da torcere alla persuasione.

La ripetitività intrinseca all’uso endocrino della parola è invece rigorosamente anticlimatica e indicizza il ritmo di un perpetuo, superstizioso rientrare, perché lo stesso internamento è costituito da un incessante rientro, finalizzato proprio a negare qualsiasi divenire di persuasione, prima ancora che l’incognita intersoggettiva che esso risveglierebbe. Questa tempistica della persuasione, la cui efficacia si dilaziona in un prima e un poi dello sdoppiamento di mezzo e fine, è per l’attore autistico lo “scandalo del palcoscenico”299

, mentre quel perpetuato rientrare si prolunga idealmente o asintoticamente nel rientro nel grembo materno, estrema “sorgente dello scandalo”300.

Ecco che, per neutralizzare e sfuggire alla tempistica ricattatoria della persuasione, il tempo, secrezione-madre, deve farsi autoefficace, deve cadere verticalmente sopra se stesso, disertare il differimento orizzontale, il che può essere solo scorrendo all’indietro, esso stesso rientrando continuamente per intercettarsi in un sempre trovato ora, che non è che il tempo che si intercetta incessantemente un attimo prima del suo successivo avanzare. È un camminare di corpo e mente a ritroso per non sbordare, sbavare dagli istantanei limiti di un ora. Possiamo chiamare, prevenendone il contraccolpo in avanti, questo tempo autoefficace, che a Castellucci è occorso di definire anche “cairologico”301

(da chairòs, la cui gamma semica glissa entro un’apertura di compasso che va da

299Romeo Castellucci, Amleto, foglio distribuito agli spettatori, in Epopea della polvere, cit. pag. 55. Tale foglio può

essere letto come un palinsesto di citazioni compendianti l’intero spettacolo.

300 Romeo Castellucci, Amleto: là dove la A risuona.., cit. in Epopea della polvere, cit. pag. 42. 301 Ivi, pag.44.

“occasione” a “grazia”), autosecrezione.

Quest’ ora del movimento autistico non è un mito di pura presenza, l’ipostasi di un originario, o il vitalistico appello a un tempo elementale, una qualche variante della religione dell’attimo o dell’istante, ma qualcosa di sapientemente costruito, un prodotto, l’effetto di un’ autosecrezione – qualcosa di trovato, propiziato, preservato, e non atteso o intuito. Qualcosa di secreto: il complesso , composito esito di un concomitare di autopunizione e vendetta: soprattutto il più feroce contrario di un qualche carpe diem.

Esso è un’ autopunizione preventiva302 per ogni distrazione che permetta a qualche secrezione di transitare dallo statuto d’uso a quello di scambio, disertando dalla sua ricaduta entro l’internità endocrina. Ogni deficit di vigilanza e cura consentirebbe alla parola di uscire dall’orbita endocrina per farsi mezzo di persuasione, drogarsi termicamente grazie all’attrito dell’orizzontalità del tempo eteroefficace, nel cui scandalo bruciare a un tempo le tracce della sua origine chimico-elettrica e del nuovo statuto cui si è prestata come equivalente universale di scambio: parola-moneta. Moneta, secrezione fecale depistata dall’utilizzo endocrino e induritasi fuori dal tempo autoefficace, rappresasi fino alla cristallizzazione aurea in valore. E quest’ ora è vendetta nei confronti dell’eufemismo che l’eteroefficacia deve secernere di conserva, in quantità direttamente proporzionale al suo progredire, estendendo il palcoscenico come un’epidemia che diviene salute (ma tutto il contrario della peste artaudiana). L’individuo autistico ha un’ipersensibilità chimica all’ipocrisia e all’eufemismo, ben al di sotto della soglia tollerabile dall’individuo normale. Si innesta qui in maniera elettiva, secondo noi, quella dimensione biopolitica cui abbiamo prima fatto cenno, tratto caratterizzante la declinazione che la Raffaello Sanzio compie della resistenza dell’attoralità contemporanea agli automatismi reattivi indotti dal trauma dell’esposizione scenica. Per soppesarne la portata è opportuno partire, induttivamente, dalla semplice constatazione che la particolare situazione cui ci riferiamo col termine palcoscenico dovrebbe costituire, in quanto tale, uno stato di eccezione, laddove invece noi ci troviamo nel mezzo di una congiuntura storica nella

quale la situazione di palcoscenico è talmente invasiva, da essere sul punto di diventare piuttosto la norma che plasma la fisionomia del nostro spazio vitale, e tramutarsi impercettibilmente in consuetudine, fatto salvo che la consuetudine è l’impercettibile che diviene legge.

Il panottico303 foucaultiano – quel delirio di autotrasparenza per il quale una società non si concepisce più come un complesso chiaroscurale e mira a raggiungersi integralmente coi propri dispositivi ottici – sembrava sperimentarsi, da un punto di vista dell’individuo, soprattutto attraverso la posizione dell’ essere osservato. Ma non è così: una società panottica richiede per suo statuto che i suoi individui siano guardanti non meno che guardati. Perché il controllo ottico sia capillarizzato occorre che l’intero campo sociale – quello che si continua a chiamare, non si sa se eroicamente o pateticamente, società civile – sia trasformato in un unico spettacolo senza soluzione di continuità. E così il panottico delineato da Foucault si interseca perfettamente alla società dello spettacolo tratteggiata da Guy Debord304 .

L’attore autistico reagisce a questa aggressione ottica accerchiante, a questo stupro dello sguardo, rinunciando a guardarsi intorno, a guardare fuori di sé. Per lui anche lo sguardo è una secrezione, e pertanto la contiene, come fa con ogni altra, entro il suo cerchio. Esattamente come la parola, proferita o scritta che sia, perché il panottico è naturalmente anche, e forse soprattutto, panuditivo.

303 Panopticon è il carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Il presupposto fondante

era la possibilità che un unico guardiano potesse osservare tutti i prigionieri in qualsiasi momento senza essere, a sua volta, osservato. Foucault si serve del panopticon come modello e figura del potere nella società contemporanea. A questo proposito, nel testo dedicato da Deleuze a Foucault, ad esempio, leggiamo:“La formule abstraite du

Panoptisme n’est plus “voir sans être vu” mais “imposer une conduite quelconque à une multiplicité quelconque”; (Gilles Deleuze, Foucault, Minuit, Paris, 2004, pag. 41). La società panottica oltrepassa di gran lunga l’esercizio di un controllo trascendente da parte di pochi su tutti, e realizza un controllo generalizzato di tutti su tutti. Per essere così totalitario il controllo non si effetua più nella forma voyeristica di uno spiare l’altro e farsi gli affari altrui, com’era il caso del precedente occhio comunitario, rispecchiato per esempio nel coro tragico. Nella società panottica l’individuo è indotto da un continuo, accerchiante e multiforme invito ad autoesteriorizzarsi fino a coincidere con la propria apparenza.

304 Perché si transiti da un assetto panottico (nel quale la trasparenza è posta al servizio di uno sguardo trascendente e

voyeuristico che ne tira le fila) all’altro assetto nel quale tutti divengono strumenti ottici viventi di controllo, occorre che l’individuo si presti motu proprio all’essere controllato e si presti all’altrui controllo – che diviene in tal modo un autocontrollo – immedesimandosi alla propria apparenza. Nel primo caso vi è un individuo che subisce il controllo senza parteciparvi e vedendo in ciò riconosciuta la propria alterità. Nel secondo caso controllore e controllato divengono indiscernibili, e le due funzioni finiscono per coabitare in uno stesso individuo,

compromettendone l’alterità. La norma è stata così interiorizzata e l’alterità prevenuta anziché repressa. Ma perché ciò si realizzi compiutamente occorre che la neutralizzazione dell’alterità avvenga attraverso la sua

spettacolarizzazione. Lo spettacolo trasforma l’alterità in merce, e nel mercificarsi essa si autodenuncia ed autocontrolla nello stesso istante, neutralizzandosi da sé. Così il controllo si eufemizza in spettacolo, per divenire pan-panottico, cioè controllo quadratico, alla seconda potenza. Cfr. Michel Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris, 1975, e Guy Debord, La societé du spetacle, Gallimard, Paris, 1992.

Il fatto che la sua non sia una resa regressiva – e Castellucci si prodiga a sottolinearlo305 - è perché presuppone l’avvertenza del complesso panottico-società dello spettacolo. Come avverte ciò Amleto fin dalla sua pelle, dalla sua reattività più fisica (pelle viva, non ancora uccisa, ipersensibile, essa sì, udente, e che perciò si fa scorza )? Si avvede che il palcoscenico non è più uno scandalo, perché non è più uno stato di eccezione. Il che vuol dire che, nella società nel suo insieme, quello di guardare è divenuto un atto sovrano, che ha potere di vita o di morte su chi è guardato. Chi è guardato non può più obiettare alcun abuso dello sguardo esercitato nei propri confronti, senza esporsi perciò stesso a una qualche imputabilità.