Carmelo Bene: l’attore dei tre subjectiles
II.II. Un esempio di scrittura scenica da Shakespeare
Bene ha bisogno della scrittura (scenica) per interrompere il continnum teatrale tra forma virtuale drammaturgica e fasulla attualità attorale. Laddove il continuum è fatto della divisione del lavoro, la discontinuità della scrittura scenica ricomporrebbe tale frattura intellettuale-manuale. Fattostà che la scrittura non si sostituisce senza sfrangiature al binomio totalità testuale-parzialità attorale, ma ne richiede la sopravvivenza fantasmatica per insinuarvisi nell’interstizio di inserzione, sabotando incessantemente la comunicazione tra le due componenti, della prescrizione e dell’esecuzione, e inibendo l’efficacia della cinghia di trasmissione137
. La scrittura di scena parla di disfunzioni, maldestrezza, incidentazione, di ciò che la scrittura stessa è: corpo estraneo nell’ingranaggio del continuum teatrale. Ma le sagome fantasmatiche della predrammaturgia e della postscenìa non possono non sopravvivere, residuare, essere sottintese, affinchè la comunicazione natural-tradizionale tra loro sia perturbata, interferita, sgambettata dalla scrittura di scena che non parla che di se stessa: perturba, interferisce, sgambetta parlando di sgambetti, interferenze, perturbazioni.
Nel Riccardo III l’eco, l’eredità fantasmatica, la carcassa del monumento drammaturgico, il suo strascico, tutto ciò è costituito dalle sei attrici che piangono insieme la morte dei personaggi
137 “I testi shakespeariani sono veri e propri saggi critici d’autore nei quali la consapevolezza “critica” del proprio
operare si riassume in una rigorosa partitura scenica sullo sfondo di una mediazione definitiva sul senso e la crisi della rappresentazione, che in questi spettacoli è portata alle estreme conseguenze”; Giancarlo Dotto, Il principe dell’assenza, Giusti, Firenze, 1981, pag. 74.
shakespeariani che incarnano l’ortodossia del Potere138
- il suo decorso quale lo prevedono le pretese prescrittive della legalità - , e lo stato di orfanità drammaturgica in cui le ha gettate l’assenza di un intreccio, di cui esse sono, in corpore vili, la parte residuale, che ancora ostinatamente hante la scena: attrici in lutto per l’agonizzare dei loro personaggi e dell’intreccio che ne costituisce l’habitat. Si è parlato giustamente per loro di “fantasmatica presenza”139
, ma non si tratta che delle sopravvivenze - entro il nastro di registrazione della scrittura di scena - del Riccardo III shakespeariano, monumento letterario residuante in stato di revenant. Questa compagine fantasmatica consta del rimpiangere l’integrità letteraria perduta, il che si effettua in un Compianto in cui a elaborarsi non è il lutto per i decessi consustanziali all’intreccio disattivato, ma quello per il venir meno dell’intreccio stesso. Perciò, queste entità angeliche dal femminile sembiante rasentano, bordeggiano, lambiscono lo stato di collera, giocano entro l’escursione di questa risacca tra i poli del lutto e dell’ira.
Un prodigio è quello in cui “gli angeli si adirano e i demoni non mentono”140
. Il semplice fatto che questa angelicità sia tutto ciò che filtra della lettera letteraria, apre per ciò stesso lo spazio a una demonicità, convogliata dalla macchina Riccardo III, che nella scrittura di scena metonimizza la scrittura di scena stessa. Ed anzi la scrittura di scena è, innanzitutto, come Riccardo, macchina da guerra - un apparato cioè che concerne il trattamento del potere nella sua facies di maggior squilibrio, colto in uno stato di eccezione che ne mette in vista il funzionamento sgangherato, approssimativo; macchina da guerra che costituisce una piega all’interno del potere, l’introflessione che ne mina la continuità. Deleuze sottolinea prontamente e puntualmente questo spazio di emarginazione che si apre nel seno stesso del Potere, e di cui il non-volto dell’uomo di guerra è sia soggetto che oggetto, cioè la loro indeterminazione e la loro indecidibilità. Come il potere si rispecchia in una parte di sé, quella che esprime il suo stato più puro - cioè la guerra, e questo rispecchiamento del tutto nella parte consta di una piegatura del potere che si inflette su di sé, rompendo col potere la continuità del potere - così la scrittura di scena si piega in una parte di sé
138
Cfr.Gilles Deleuze, Un manifeste de moins, cit. pag. 90; ediz. italiana, pag. 87.
139 Piergiorgio Giacchè, Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano, pag.116. 140Carmelo Bene, Riccardo III, in Carmelo Bene-Gilles Deleuze, Sovrapposizioni, cit. pag. 33.
che la esprime nel suo stato più puro: l’attore che scrive immediatamente, direttamente col suo corpo, senza bisogno della stessa scrittura di scena, come l’uomo di guerra esercita il potere nel modo più immediato, senza bisogno delle mediazioni della scrittura di potere (la diplomazia). In realtà non esistono né trincee di guerra né trincee di scena senza scrittura, e guerra pura e pura attoralità, o immediata presenza scenica, sono costellazioni mitiche. Certo la scrittura di scena reagisce alla constatazione che, proprio come l’uomo di guerra all’interno del potere, l’attore è la forza più emarginata all’interno del teatro. Ma liberarla, cioè sprigionarla da questo esilio domiciliare, non significa consegnarla all’immediatezza istantanea. Liberarla, sprigionarla, dispiegarla significano simultaneamente farne il fuoco, nel senso sia ottico che geometrico del termine, della scrittura di scena, e mediarla inscrivendola in un campo dove essa non sia l’unica forza, e sia anzi complicata da una struttura di piega: dove è bene ricordarsi che complicato include la piega e significa soprattutto piegato e ripiegato. Dispiegarla implica un diverso piegamento. Nel caso esemplare di una scrittura di scena gravitante intorno al materiale di una pièce shakespeariana come il Riccardo III, si estrapola un personaggio-chiave (in questo caso quello del titolo141), per trasformarlo in una forza, che l’attore controlla non dall’alto, ma interagendo variamente nel suo flusso come parte integrante di esso, in un’ottica che vede il ciottolo come componente della corrente. L’attore è un nugolo di ciottoli che fanno parte di una forza chiamata Riccardo III. Questo zig-zag di ciottoli sempre più levigati, e quindi lisciamente bitorzoluti, è quanto di più antidotico possa esservi rispetto alle forze di irretimento dell’intreccio. La scena si apre Riccardo spalle al pubblico: nella veglia funebre non ci sono che morti, morenti e non morti. Non morto è lo statuto del fantasma: la litote rovescia la sua propensione eufemistica, che indurrebbe piuttosto a chiamare non-vivi i morti142.
La scrittura che ha come oggetto la scena si lascia ipnotizzare dalla sua parte più pura, la scrittura che ha come soggetto la scena, scritta immediatamente dal corpo istrionico, i cui “demoni non
141 In Romeo e Giulietta del 1974, invece, ad esempio, il protagonista sarà Mercuzio; così lo descrive Gilles Deleuze:
“Si vous amputez Roméo, vous allez assister à un étonnant développement, le dèveloppemente de Mercuzio, qui n’était qu’une virtualité dans la pièce de Shakespeare”; Gilles Deleuze, Un manifeste de moins, cit. pag. 89; ediz. pag. 85.
mentono”143. Scrittura intorno alla scena e scrittura di Riccardo: quest’ultima si arenerebbe in uno stadio mitico, narcisistico, protofascista144, se non si deformasse incessantemente, rompendo lo stallo dell’identità con la logica intersoggettiva richiesta dallo stesso armarsi-disarmarsi del corpo di protesi e trucchi ortopedici: un’eloquenza di artifici che lo riducono a mero supporto retorico. Lungi dall’essere questa sorgente di pura scrittura brulicante e inesausta, il corpo attorico consta di una parola altrettanto intrisa di contraffazioni, volte a coprire con lo spettacolo della propria inadeguatezza la spudorata lubrificazione della macchina, funzionante ai pieni giri, del suo approccio extralegale al potere, e capovolgere la mostruosità morale della propria completa mancanza di scrupoli in oggetto di pietà.
Ed è così che Riccardo chiama a sporgersi verso di lui dall’altra scrittura, quella letteraria, la femminilità, resa ipertrofica dall’azzeramento cui vi sono sottoposte tutte le icone del Potere legale, statale e maschile. La femminilità è la smitizzazione stessa dell’attore come forza autosufficiente e sorgiva, come pura autoreferenza scenica, come autopoiesi del corpo immediatamente scrivente, quindi come naturalità della scrittura. É la ricusazione di questo vitalismo teatrale ad esigere questa negromanzia di rievocare dall’aldilà, dall’oltretomba del teatro il doppio fantasmatico della Lettera, della scrittura d’uso chiusasi in scrittura di scambio, che ora ne viene femminilizzata.
143 Carmelo Bene, Riccardo III, in Carmelo Bene-Gilles Deleuze, Sovrapposizioni, cit. pag. 33. 144
Così per Furio Jesi ogni macchina mitologica si approssima al mito asintoticamente, da un’alterità mai riducibile. Il mito non è che il grado mitico della stessa macchina mitologica, lo stadio nella quale essa ne verrebbe fagocitata, in una presenza del mito che coincide con una situazione totalitaria (Cfr. Furio Jesi, Materiali mitologici, Einaudi, Torino, 2001, pagg. 100-120). Nella stessa ottica Sudano ritiene che il comunismo debba essere una macchina mitologica ed evitare quindi di presentificarsi come mito. Per lui il mito, lungi dall’essere l’originario della macchina mitologica ne è il simulacro: “Credo che il fascismo sia il comunismo realizzato, ovvero reificato (in senso marxista): quando si realizza il comunismo diventa cosa che si oppone all’ethos. Per ciò il comunismo non si dovrà mai realizzare per rimanere tale” (Rino Sudano, Brecht, Beckett e l’attore etico-politico, dattiloscritto, pag. 1). Analogamente per Bene, la scrittura di scena non si deve mai realizzare come libertà assoluta e immediata