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Socìetas Raffaello Sanzio: la metamorfosi della scena

IV.IX. L’ereditarietà della sacertà

Chi uccide un homo sacer, non è punibile di assassinio, ma espia altrimenti, divenendo automaticamente, a sua volta, homo sacer. Chi uccide un homo sacer lo sostituisce. Le Erinni non personificano il rimorso: questa ipotesi, divenuta egemone, rappresenta una retroattiva interpretazione cristiana. Le Erinni personificano la nudità della vita di chi è divenuto homo sacer, uccidendone un altro ed ereditandone la condizione di eccezione (dal mondo profano e da quello sacro). Nessuna coscienza che rimorde: semplicemente le Erinni accolgono chiunque acceda alla terra di nessuno, equidistante dal codice sacro come da quello profano, che è quella in cui sopravvive, a un tempo morto vivente e vivo morente, colui che è divenuto homo sacer. La sacralità territorializzata in un mondo sacro non è sacra; la sacralità è la nudità propria di chi non è più difeso da alcun tabù. Sacro è l’essere esposti: il tabù l’indumento dell’uomo, quello che ne vela la nudità. La vita dell’homo sacer è nuda perché spogliata di tutti i tabù. Le Erinni non sono che la personificazione mitica di questa mancanza di indumenti sociali. Oreste esita meno ad uccidere la madre che ad ereditarne la condizione di nudità, di esposizione al delitto altrui. Questo è il cuore pre-tragico della tragedia, sul quale la regia dell’Orestea della Socìetas insiste: materia del tragico eschileo non è l’ereditarietà della colpa, ma l’eredità della sacralità. Tutti gli attori della messinscena sono nudi, perché il nucleo, pre-teatrale, del teatro, è la nudità al contempo sacra e desacralizzata, la sacralità deterritorializzata.

La cifra connotante la comunità pre-teatrale dovrebbe essere la coralità: ma il segno tramite il quale essa si manifesta nella rappresentazione tragica è la solitudine dell’eroe. Tale solitudine, tuttavia, è l’altra faccia di quella coralità, ne è il prodotto, in quanto scivolamento del singolo ai margini di

essa, caduta individuale dalle sponde del suo alveo. L’individuo si dà, nella comunità preteatrale, unicamente come caduta e spoliazione. È approfittando di questo momento critico, di massima fragilità, dell’antico ordinamento, che, proponendosi come pharmakon rispetto ad essa, il nuovo si insedia. Esso, lenendo l’angoscia dell’homo sacer, rigetta anche l’antica coralità, sostituendola con la dialogicità, proprio come nel teatro l’angoscia dell’esposizione dell’attore è lenita dalla dialogicità drammaturgica.

Nella tragedia attica l’homo sacer è già visto dal punto di vista del diritto patriarcale e spirituale, e perciò il Coro è un pallido simulacro, un goffo surrogato della coralità preteatrale, portatore di una mentalità compromissoria, esito della dialettica democratica.

Avendo preso posizione contro il Coro, se non altro per averne reso il carattere posticcio nella forma della codardia e nel segno del coniglio, la messinscena di Romeo Castellucci e soci accentua nudità e solitudine dei protagonisti, improntando la loro attoralità a quella retorica endocrina, autistica e masochistica, che abbiamo visto egemonizzare i primi due spettacoli dell’Epopea. Nel secondo atto dell’Orestea, il candore e la fosforescenza, acuite dalle luci, della polvere di caolino che ne ricopre le carni integralmente nude, inscrive gli attori nel segno dell’introversione lunare. La mucosità endocrina inscrive la scena sotto la sua egida nel macrosegno del latte, che, oltre a tingerla, la sincopa nella densità amniotica maternale, che invischia le andature. Le quali scandiscono perciò una temporalità prenatale che lascia trasentire il silenzio della Storia, quindi il brusio di una storia minimale, dose minima di storia sufficiente appena ad innescare la propria iterazione indefinita. Potrebbe certo trattarsi, come un double-face, di una situazione della post- Storia, la cui nudità larvale sia, come in Beckett, uno strascico della Storia che ormai prepondera rispetto ad essa. Il latte è il tempo stesso, perché i corpi suggono la temporalità, che li trattiene sottraendogli durata, come si trattasse della secrezione-madre. L’unica durata, che traumatizzerà col suo occorrere questo regime di autoefficacia endocrina, sarà quella scatenata dall’approvvigionamento elettrico del braccio meccanico, necessario affinchè un maschio possa uccidere la madre. Per la prima volta qualcosa con ciò accade, attingendo energia esterna

all’omeostasi del sistema, energia che non può che provenire dal futuro. Solo di lì può sopraggiungere qualcosa che perturbi la continuità senza durata. Eppure tutto ciò pone la tecnologia stessa, nonostante o forse proprio perché essa incarna l’influenza del futuro sul presente, in una luce arcaica. La tematizzazione dell’influenza del dopo sul prima, implica l’ascrizione della tecnologia al già da sempre. Rivela il momento chorico della tecnologia, costringe a pensarla in uno stadio in cui essa era di là da venire, e tuttavia il resto ancora impensato dell’arcaico, in una prospettiva della cui vertigine resta ancora da pensarsi la compatibilità, o meno, con la storicità hegeliana.

La visionarietà della Socìetas, secondo noi, intercetta ed agita questa inquietudine interrogante, gemellando incongruità, e proprio in quanto evita con cura ogni filosofema. Gli autocommenti della compagnia grondano di suggestioni letterarie, artistiche e filosofiche, che tuttavia, al riscontro con la scena, entrano in conflitto con se stesse, non lasciando in teatro che la pletora dei loro resti. La polvere della loro usura scenica (e mentale), dove il luogo comune della “polvere del palcoscenico” è elevato al rango di chora del pensato teatrale.