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Ciò posto, ci si potrebbe chiedere se l’evocazione, da parte dei giudici

UN DIALOGO POSSIBILE CON LA CORTE EDU?

3. Ciò posto, ci si potrebbe chiedere se l’evocazione, da parte dei giudici

rimettenti, dei soli parametri di cui all’artt. 3 e 27, comma 3, Cost., col ricostruire puntualmente la giurisprudenza della Corte costituzionale volta ad impiegare il principio del finalismo rieducativo della pena quale grimaldello per scardinare tutti quegli automatismi che il “legislatore dell’emergenza” aveva posto, sia sufficiente a orientare il Giudice delle leggi nell’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionali prospettate (ed, eventualmente, anche della irrazionalità intrinseca della preclusione in sé considerata, rispetto quindi anche alle misure detentive temporanee) o se pure, sarebbe stata più opportuno prospettare, altresì, la violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 3 della CEDU.

Ebbene, con il senno del poi, e soprattutto dopo la definitività della sentenza Marcello Viola c. Italia (n. 2), può ritenersi che il richiamo esplicito a quest’ultimo parametro avrebbe forse spianato la strada ad una declaratoria d’illegittimità della norma censurata (e forse anche della preclusione in sé considerata, dovendosi a questo punto considerare come un indice insufficiente a fondare una presunzione assoluta di pericolosità sociale del reo).

Se è, poi, vero che i giudici a quibus non avrebbero potuto tener conto di quest’ultimo arresto giurisprudenziale nelle ordinanze di rimessione essendo a queste successiva, sembrerebbe potersi ritenere che la stessa, sia pur nella sua innovatività, risulti in buona misura coerente8 con altre e numerose pronunce della Corte EDU che hanno sempre ribadito l’esigenza di garantire per gli ergastolani l’esistenza di regimi penitenziari compatibili con l’obiettivo di correzione e che permettano un’individualizzazione della pena da scontare e, dunque, ben avrebbero potuto trovare spazio nelle ridette ordinanze9.

E però, da un lato, il fatto che la stessa Corte EDU si sia rifatta proprio alla giurisprudenza costituzionale nazionale (e, in specie, alla sent. n. 306/1993) per constatare come la mancata collaborazione con la giustizia non indichi necessariamente il mantenimento di legami con l’organizzazione mafiosa, conforta in ordine alla robustezza delle argomentazioni impiegate dai giudici a

quibus, essenzialmente tutta fondata su di una prospettiva “interna”.

8In senso, contrario, peraltro, cfr. l’opinione dissenziente del giudice Wojtyczek allegata alla sentenza della Corte EDU.

L’ergastolo ostativo al vaglio della Corte costituzionale 31

Dall’altro lato, visto che detta più recente pronuncia si atteggia a (e, comunque, preannuncia una) “sentenza-pilota” – ammonendo il legislatore circa le misure da adottare e segnalando come “un certo numero di ricorsi sono attualmente pendenti dinanzi alla Corte” – e che la ragione della sua definitività è da addebitarsi ad un rigetto del ricorso governativo dinanzi alla Grande Camera e non ad un semplice decorso dei termini per l’impugnazione, sembra segnare la strada per un quantomeno opportuno richiamo alla stessa da parte della Corte costituzionale, in ciò essendo supportata dal fatto che proprio nella sent. n. 149 del 2018 la Corte costituzionale ha fatto forse per la prima volta autonomo richiamo alla giurisprudenza di Strasburgo (e, in particolare, al caso

Vinter).

4. a mancata evocazione del parametro di cui all’art. 117, comma 1, Cost.

(in relazione all’art. 3 CEDU) parrebbe, dunque, solo un “falso problema”, potendosi rintracciare già nelle maglie della stessa giurisprudenza costituzionale (e, in particolare, nella chiave di lettura da questa fornita, secondo un orientamento ormai consolidato, degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost.) appigli per l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale così prospettate, se del caso anche con l’instaurazione di un efficace dialogo con la Corte di Strasburgo, nel senso di un “allineamento” della giurisprudenza europea e nazionale.

In una prospettiva tutta interna, non sembrerebbe deporre in senso contrario quanto affermato dallo stesso Giudice delle leggi nella sent. n. 188 del 2019, rilevandosi, peraltro, in quell’occasione, che l’art. 4-bis ord. penit. ha ormai “natura di disposizione speciale, di carattere restrittivo, in tema di concessione dei benefici penitenziari a determinate categorie di detenuti o internati, che si presumono socialmente pericolosi unicamente in ragione del titolo di reato per il quale la detenzione o l’internamento sono stati disposti”, e ribadendosi, semmai, che essa si è trasformata in “un complesso, eterogeneo e stratificato elenco di reati”10.

Del resto, e venendo ad una prospettiva “esterna”, che l’art. 4-bis ord. penit. si risolva ormai in una disposizione svuotata della sua ratio originaria e, oltretutto, applicata indistintamente per “tipi d’autore” a una ormai variegata classe di reati e che necessiti di una riforma, come già accennato, si è accorta la stessa Corte EDU.

Essa stessa ha, infatti, sottolineato come progetti di riforma fossero stati elaborati, in particolare, dalla Commissione Palazzo, incaricata dal Ministero della Giustizia con decreto del 10 giugno 2013, che si proponeva di sostituire la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale con una presunzione relativa, suggerendo, altresì, altre circostanze per valutare i risultati del processo di reinserimento e l’assenza di legami con il gruppo criminale, al fine di rendere

possibile l’accesso alla liberazione condizionale e ai benefici previsti dalla legge11. Di un certo interesse è stato poi il progetto di riforma elaborato dalla comunità istituzionale e accademica, pubblicato in data 19 aprile 2016, laddove si aggiungeva un comma all’art. 4-bis ord. penit. per consentire al condannato, quale alternativa alla “non collaborazione” (e pur con il previo accertamento dell’assenza di legami dell’interessato con la criminalità organizzata), di adottare una condotta riparatrice nei confronti delle vittime (e, più in generale, della società)12. Infine, un’occasione mancata può, ad oggi, considerarsi la mancata attuazione di quanto stabilito dal legislatore all’art. 1, comma 85, lett. e), della l. 23 giugno 2017, n. 103, con cui si delegava l’esecutivo ad eliminare gli automatismi e le preclusioni “che impediscono ovvero ritardano, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e la differenziazione dei percorsi penitenziari in relazione alla tipologia dei reati commessi e alle caratteristiche personali del condannato”, nonché a procedere alla “revisione della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell'ergastolo”, sia pur facendo salvo “i casi di eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati e comunque per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale”, dal momento che il d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 124 non vi ha provveduto.

Non resta, dunque, che attendere il dispositivo della Corte costituzionale, nell’auspicio che il dialogo iniziato dalla Corte EDU possa essere fecondo e che, dunque, il principio della dignità umana venga finalmente preso in maggior considerazione nel regime penitenziario, rimettendosi all’autorità giurisdizionale (e non già ad una presunzione legislativa assoluta) il compito di verificare “in concreto” la sussistenza di una pericolosità sociale del reo.

11 Lo “Schema per la redazione di principi e criteri direttivi di delega legislativa in

materia di riforma del sistema sanzionatorio penale” elaborato dalla Commissione ministeriale

istituita con d.m. 13 giugno 2013 dal Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri e presieduta dal Prof. Francesco Palazzo è reperibile in Diritto Penale Contemporaneo, all’indirizzo telematicohttps://www.penalecontemporaneo.it/d/2828.

12 Il testo della ridetta Relazione è reperibile all’indirizzo telematico

IL 4-BIS ALL’ESAME DELLA CORTE COSTITUZIONALE:

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