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La Corte costituzionale sarà presto chiamata a decidere se sia lesivo

UN DIALOGO POSSIBILE CON LA CORTE EDU?

IL 4-BIS ALL’ESAME DELLA CORTE COSTITUZIONALE: LE QUESTIONI SUL TAPPETO E LE POSSIBILI SOLUZIONI

1. La Corte costituzionale sarà presto chiamata a decidere se sia lesivo

degli artt. 3 e 27 Cost. l’art. 4-bis, comma 1, ord. pen., nella parte in cui esclude che siano ammessi alla fruizione di un permesso premio [a] il condannato

all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività di associazioni in esso previste (ex art. 416-bis.1, cod. pen., precedentemente ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991)1, che non abbia collaborato con la giustizia (v. ordinanza di rimessione della prima sezione della Corte di cassazione del 20 dicembre 2018) e [b] il

condannato all’ergastolo per i delitti ex art. 416-bis cod. pen., che non abbia collaborato con la giustizia (v. ordinanza di rimessione del Tribunale di Sorveglianza di Perugia del 28 maggio 2019).

Se questi certamente sono l’oggetto e il parametro di costituzionalità, ricostruire sinteticamente le censure dei rimettenti è invece operazione meno agevole.

La Corte di cassazione, dopo aver spiegato, ai fini della rilevanza, per quale motivo non è stato ancora operato il giudizio sulla pericolosità sociale del detenuto richiedente il permesso premio (requisito invece richiesto dall’art.

30-bis ord. pen. )2, assume anzitutto che l’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. violi l’art.

* Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Milano Statale

1 Si tratta dei condannati per i reati di c.d. contesto mafioso, cioè quelli ai quali sia contesta l’aggravante di cui all’art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buona andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, dalla l. 12 luglio 1991, n. 2013.

2 L’art. 30-ter ord. pen. prevede che i permessi-premio possano essere concessi ai condannati che hanno tenuto regolare condotta e che non risultano socialmente pericolosi. La Corte di cassazione, nell’ordinanza di rimessione, spiega che nessun giudice ha ancora operato,

3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza. Più precisamente, ritiene che l’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. contenga una presunzione di pericolosità irragionevole, perché non basata sull’id quod plerumque accidit (punto 3.2 dell’ordinanza), richiamando – sul punto – la giurisprudenza costituzionale sugli “automatismi” nell’applicazione delle misure cautelari personali, secondo la quale la presunzione di pericolosità che impone sempre l’applicazione della misura custodiale trova una giustificazione solo per l’affiliato all’associazione mafiosa3. In tal modo, la Corte di cassazione distingue specificamente, nell’ambito di applicazione dell’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. la posizione del condannato per un reato di c.d. contesto mafioso (tale aspetto è poi approfondito al punto 4 dell’ordinanza).

In sintesi: la norma sarebbe irragionevole perché “presume” la pericolosità dei detenuti condannati per un reato di c.d. contesto mafioso senza consentire al giudice di valutarla al fine di concedere il permesso premio.

In secondo luogo, la Corte di cassazione ritiene che sia violato l’art. 27 della Costituzione, in quanto la disposizione censurata frustrerebbe gli obiettivi di risocializzazione.

A tal fine essa richiama, in particolare, tre pronunce della Corte costituzionale dalle quali – a suo avviso – si ricaverebbe la necessità costituzionale della progressività trattamentale e della flessibilità della pena: le sentenze n. 239 del 2014, n. 76 del 2017 e n. 149 del 2018.

Gli argomenti relativi al contrasto del 4-bis, comma 1, ord. pen. con la finalità rieducativa della pena prevista dall’art. 27 Cost. non sono, per la verità, particolarmente approfonditi, limitandosi il rimettente perlopiù ad asserire la violazione di tale parametro costituzionale quale corollario della lesione del principio di ragionevolezza (alla fine del punto 3.3 dell’ordinanza e in breve passaggio al punto 4.1).

Va, infine, segnalato che la Corte di cassazione – che chiede alla Corte costituzionale di poter concedere il permesso premio – argomenta diffusamente l’importanza di tale istituto nel percorso rieducativo, evidenziando come il

in concreto, una valutazione sulla pericolosità sociale del detenuto. Osserva, tuttavia, come ciò non infici la rilevanza della questione, in quanto è proprio l’ostatività costituita dall’assenza di collaborazione ad impedire alla magistratura di sorveglianza tale valutazione in concreto.

Stessa argomentazione adduce il Tribunale di Sorveglianza di Perugia (v. pag. 9 dell’ordinanza di rimessione).

Una simile motivazione in punto di rilevanza è già stata ritenuta sufficiente dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 188 del 2019 (punto 2 cons. dir.), in considerazione della prassi normalmente seguita dai magistrati di sorveglianza che – accertata l’assenza di collaborazione – non entrano mai nel merito della concessione del beneficio.

In passato, invece, la Corte costituzionale, almeno in una occasione, aveva richiesto che il rimettente operasse previamente una verifica sulla sussistenza dei requisiti per l’accesso alla misura (ordinanza n. 307 del 2001).

3V. sentenza n. 57 del 2013 relativamente ai condannati per reati di c.d. contesto mafioso e, successivamente, sentenza n. 48 del 2015 per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. V., poi, da ultimo, ordinanza n. 136 del 2017, con cui è rigettata la medesima questione con riferimento all’indagato o imputato per il delitto ex art. 416-bis c.p.

Il 4-bis all’esame della Corte costituzionale 35

permesso premio non possa essere integralmente assimilato alle altre misure alternative alla detenzione (v. punto 4.1. dell’ordinanza).

Il Tribunale di sorveglianza di Perugia – chiamato a decidere il reclamo di un detenuto condannato ex art. 416-bis cod. pen. a cui il magistrato di sorveglianza aveva negato la concessione di un permesso premio in assenza di collaborazione – è costretto ad impostare la questione in modo po’ diverso, cioè a chiedere alla Corte se sia compatibile con gli artt. 3 e 27 Cost. l’obbligo di collaborare con la giustizia per poter accedere alle misure previste dall’ordinamento penitenziario (e, in particolare, ai permessi premio) a prescindere dal tipo di reato commesso dal detenuto. Dovendo, infatti, decidere il reclamo presentato da un detenuto condannato per il più grave delitto di associazione mafiosa, il rimettente è costretto a seguire un percorso diverso da quello delineato dalla Corte di cassazione, che, invece, come ricordato, evidenzia la “minore” gravità del reato “di contesto mafioso” del richiedente il permesso premio4.

In primo luogo, allora, il Tribunale di sorveglianza di Perugia chiede se, nel campo dell’esecuzione della pena, una presunzione di pericolosità del condannato come quella contenuta all’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. sia ex se compatibile con l’art. 27 Cost. Dopo aver evidenziato come anche nei confronti di colui che collabori il giudice sia oggi chiamato «a verificare in concreto l’evoluzione personologica del condannato e in questo contesto anche le ragioni che lo hanno condotto alla collaborazione», domanda per quale ragione l’ordinamento gli precluda di valutare anche il caso opposto, ossia, in concreto, «le ragioni che hanno indotto l’interessato a mantenere il silenzio» (che il rimettente qualifica diritto inviolabile richiamando la recente ordinanza n. 117 del 2019) (v. pagg. 11-12 dell’ord. di rimessione).

Analogamente alla Corte di cassazione, evidenzia poi come la finalità rieducativa della pena sia particolarmente frustrata dall’impossibilità di concedere permessi-premio, i quali costituiscono «uno strumento fondamentale per consentire al condannato di progredire nel senso di responsabilità e di capacità di gestirsi nella legalità, e al magistrato di sorveglianza di vagliare i progressi trattamentali compiuti e la capacità, mediante le stringenti prescrizioni che possono essere imposte, di reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto sociale» (qui richiamando le sentenze n. 403 del 1997 e n. 149 del 2018), nonché «l’esercizio pieno di diritti», tra i quali «il mantenimento o il ristabilimento, dopo anche lungo tempo, delle relazioni con la famiglia», sulle quali il rimettente insiste molto richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 301 del 2012 (pagg. 13-15 ord. di rimessione).

Il Tribunale di sorveglianza di Perugia evidenzia quindi, ancora richiamando la sentenza n. 149 del 2018, un altro profilo di eventuale contrasto dell’art. 27 Cost.: l’impossibilità di ottenere un qualsiasi beneficio premiale in assenza di collaborazione costituirebbe un disincentivo alla partecipazione al

4 Il Tribunale di sorveglianza di Perugia ben conosce l’ordinanza della Cassazione e illustra dettagliatamente le differenze tra i due casi a pag. 5-6.

trattamento penitenziario, con evidente frustrazione degli obiettivi che la norma costituzionale si pone (pagg. 16-17 dell’ord. di rimessione).

Il rimettente, pur riconoscimento che la Corte costituzionale ha sin qui “salvato” il meccanismo dell’ostatività, evidenzia poi come negli ultimi anni dalla giurisprudenza costituzionale emerga una diversa lettura dell’art. 27 Cost.: mentre in passato la finalità rieducativa della pena era collocata sul medesimo piano degli altri obiettivi della sanzione penale, ora la rieducazione sembrerebbe avere assunto una posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto alle esigenze di difesa sociale.

Infine – anche su questo aspetto distinguendosi dall’ordinanza della Corte di cassazione – il Tribunale di sorveglianza di Perugia sottolinea la peculiarità dell’esecuzione penale rispetto a quella cautelare: mentre quest’ultima può tollerare qualche “presunzione”, l’esecuzione della pena, sviluppandosi lungo un arco temporale più esteso, richiede una valutazione costante dell’evoluzione personologica del condannato che tenga conto anche a distanza di anni dal reato commesso.

I percorsi argomentativi suggeriti dai due rimettenti risultano in definitiva non pienamente sovrapponibili.

La Corte di cassazione – evidentemente condizionata dal tipo di reato commesso dal condannato ricorrente (reato di c.d. contesto mafioso) – qualifica il meccanismo dell’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. un “automatismo” che preclude al giudice la valutazione del detenuto condannato per un reato di c.d. contesto mafioso senza che ciò sia “ragionevolmente” sostenuto dall’id quod

plerumque accidit. Ne è prova l’insistito richiamo alla giurisprudenza

costituzionale sugli automatismi nell’applicazione della custodia cautelare e il fatto che le argomentazioni siano quasi tutte centrate sulla violazione dell’art. 3 Cost., più che sull’art. 27 Cost.

Diverso (e sotto certi aspetti più convincente) è l’argomentare del Tribunale di sorveglianza di Perugia, che – dovendo decidere un reclamo presentato da un detenuto condannato per il più grave reato di associazione mafiosa ex art. 416-bis c.p. – chiede se sia compatibile anzitutto con l’art. 27 Cost. il meccanismo dell’ostatività in sé considerato, il quale, presumendo una pericolosità sociale del detenuto che non collabori, impedisce che il giudice svolga una valutazione in concreto tenendo conto anche delle ragioni per cui egli ha scelto di non collaborare.

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