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di M

ARIO

C

HIAVARIO

SOMMARIO: 1. Una convinta testimonianza di adesione e di condivisione dell’auspicio della fine del “fine pena mai”. – 2. Un’esigenza contestuale: non snobbare le preoccupazioni della gente comune, altrimenti sempre più facile preda dei politici fautori del “marcire in galera”. – 3. Una scelta (non soltanto) tecnica tra una declaratoria da subito radicalmente abolitiva a tutto campo della preclusione e una serie di pronunce successive? – 4. Il “precedente” della vicenda relativa all’art. 275 comma 3 c.p.p. – 5. L’importanza, comunque, della prima decisione sul leading

case.

1. La mia è, essenzialmente, una semplice testimonianza: di adesione allo

spirito di questo Seminario e di piena condivisione della speranza che la Corte costituzionale dia una risposta la quale ponga fine al “fine pena mai”. Adesione e condivisione che forse potevano apparire meno scontate per chi abbia letto o ascoltato i “sì, però …” con i quali in altre occasioni ho accompagnato il mio rifiuto dell’ergastolo ostativo, maturato sulla scia, del resto, di una ben più risalente contrarietà all’ergastolo tout court (appartengo all’esigua minoranza – e di sopravvissuti penso che ormai siamo davvero in pochissimi- di coloro che in un lontanissimo referendum si schierarono per il “sì” alla proposta abrogativa: 10 per cento dei votanti o poco più …).

2. Non rinnego quei “sì, però” che mi sembra perciò giusto ribadire (pur

senza ripetere ciò che altrove ho detto più analiticamente e dunque limitandomi ad enunciazioni sintetiche e apodittiche).

Da un lato resto infatti dubbioso sulla pertinenza di uno degli argomenti che vengono spesso addotti –a mio avviso ad abundantiam- all’interno di un insieme di motivi, che ritengo nel complesso già robustissimo, per rifiutare

l’ineluttabilità della prigione a vita legata automaticamente a una “non collaborazione” del condannato: è l’argomento che chiama in causa, a ulteriore supporto, il “diritto al silenzio”, che certamente è sì tutelato e da tutelare anche ai massimi livelli dell’ordinamento, ma che faccio fatica a veder svolgere normativamente un ruolo in questo contesto.

D’altro lato, e soprattutto, sento sempre il bisogno di integrare quel rifiuto con il richiamo all’esigenza di un contestuale sforzo globale, da parte delle istituzioni e più in radice della stessa cultura giuridica, per ascoltare -e per rispondere positivamente a- quanto di comprensibile c’è nel magma di preoccupazioni e di vere e proprie paure, diffusissime tra la gente comune e su cui fa leva chi si fa portavoce politico e istituzionale di truculenti auguri di “marcire in cella”, distribuiti a destra e a manca.

Guai, io penso, se la sacrosanta convinzione di essere nel ragionevole e dunque nel giusto diventa snobistica presunzione di legittimazione alla chiusura dell’ascolto di vittime, reali o potenziali, della criminalità e se non si fa di tutto per dimostrare concretamente che il venir meno del rozzo automatismo su cui si regge l’ergastolo ostativo non si traduce in una resa alla peggiore criminalità, ma può conciliarsi, e si deve conciliare, con un rafforzamento degli strumenti processuali e penitenziari volti ad accertare l’effettivo venir meno della pericolosità del condannato e a garantire efficaci controlli preventivi circa l’autenticità dell’abbandono dei suoi legami con le organizzazioni criminali una volta tornato in libertà.

3. Qui ed ora, però, è anzitutto necessario contribuire, per quanto si è

capaci, al perseguimento dell’obiettivo di una sentenza che, in linea con quanto già emerso in sede europea, esprima, anche a livello nazionale, il “no” a una pena che, restando di fatto perpetua proprio grazie a quell’automatismo, continua a precludere senza scampo a migliaia di persone la speranza del ritorno a una vita normale.

E allora, per lo spazio che resta al mio intervento, lo dedicherò a un aspetto strettamene tecnico, che mi parso rimanere sullo sfondo nel dibattito ma al quale non a torto Francesco Palazzo ha dedicato puntuale attenzione nella parte conclusiva della sua splendida relazione.

Parlo dell’alternativa tra due ipotesi di contenuti che potrà assumere l’eventuale, auspicata declaratoria d’incostituzionalità. Potrà cioè essere una pronuncia che –per usare proprio le parole di Palazzo- «colpisca la preclusione in sé, indipendentemente dal titolo criminoso e dalla misura alternativa in questione»: insomma, l’abbattimento a 360 gradi di un regime discriminatorio. Oppure potrà essere una sentenza il cui dispositivo resti rigorosamente circoscritto «entro le coordinate dell’ergastolo ostativo, e prima ancora del titolo criminoso di cui nel giudizio a quo, e della specifica misura alternativa ivi richiesta dal condannato (e cioè i permessi premio), rinviando a una verosimile sequela di pronunce successive la valutazione della razionalità della preclusione

La Corte sia chiara e coraggiosa sul principio dell’incostituzionalità 73

in rapporto alle altre misure e agli altri reati ostativi, e dunque in rapporto alle pene diverse dall’ergastolo».

4. Anch’io, per quel che vale la mia opinione, mi sento spontaneamente

portato ad auspicare la prima opzione. Mi rendo però conto che la seconda -più rigorosamente rispettosa del petitum specifico- può risultare preferibile agli occhi di giudici costituzionali del tutto consapevoli già dell’estrema delicatezza del merito delle questioni da risolvere qui e ora, nonché delle critiche –non tutte preconcette- a certi allargamenti, soprattutto recenti, dell’armamentario di meccanismi e di strumenti decisori di cui essi si avvalgono.

A me viene comunque in mente il percorso lungo il quale si è sviluppata la giurisprudenza della Corte in ordine a una tematica non troppo lontana da questa, che ratione materiae mi è particolarmente familiare e che mi è più spontaneo evocare (anche perché la soluzione di merito su cui si sono attestati i giudici costituzionali a quel proposito non è, nella sostanza, diversa da quella per cui mi sono battuto da sempre, fin dall’interno della Commissione Pisapia quando si elaborava il testo del vigente codice di procedura penale).

Parlo della vicenda relativa all’art. 275 comma 3 di quel codice, ossia a quella norma che per il caso di procedimenti per reati rientranti in una lista abbastanza lunga poggiava -stando alla ricostruzione della stessa Corte costituzionale- su una duplice presunzione: a) una presunzione soltanto relativa circa l’esistenza di esigenze cautelari a giustificazione di un provvedimento restrittivo della libertà personale; e poi, una volta accertato il mancato superamento, con una positiva dimostrazione del contrario, di tale prima presunzione, b) una seconda presunzione –assoluta, questa- di adeguatezza della sola custodia in carcere, con esclusione della possibilità, per il giudice, di limitarsi a disporre una o più tra le altre misure cautelari, a cominciare dagli arresti domiciliari.

Ebbene, lì la Corte ha proceduto con il metodo, almeno apparentemente, del “caso per caso”, snocciolando una serie di pronunce dai dispositivi identici ma evitando di operare, una volta per tutte, una declaratoria di portata generale; e, ciò, e senza neppure avvalersi di un’utilizzazione a tutto campo dello strumento dell’incostituzionalità derivata, ai sensi dell’art. 27 della legge del 1953. La “manipolazione” dell’art. 275 (poi consolidata da una successiva “novella” legislativa) si è così tradotta, via via, in inserzioni di una regola sempre identica a se stessa nel suo nucleo essenziale ma rapportata a ciascuna delle diverse fattispecie considerate che –ferma restando la prima presunzione, relativa- ha sostituito la seconda (assoluta) con la salvaguardia della possibilità di applicare misure diverse dalla custodia in carcere.

5. Non drammatizzerei, pertanto, l’eventualità di una scelta che portasse la

“prudenziale”. Importante sarebbe che comunque ci fosse una motivazione contrassegnata da un’inequivoca apertura al di là del caso specifico. Sono infatti due cose radicalmente diverse l’enunciare un principio, per così dire a potenzialità plurima, in termini tali che possa, per espansione naturale, essere applicato anche successivamente, oppure fare, dello specifico petitum, la base di una barriera che impedisca altre pronunce d’incostituzionalità.

Nel primo senso si è mossa la Corte costituzionale a proposito dell’art. 275, con larga parte delle motivazioni successive addirittura redatte, per larga parte delle motivazioni, con il metodo del “copia e incolla” (e sia pure operandosi qualche distinzione e, a mio parere, non senza qualche parziale contraddizione).

Se accadesse ora la medesima cosa, ci si potrebbe anche non lamentare di un’iniziale “prudenza” nella scelta del dispositivo per il leading case.

L’ERGASTOLO OSTATIVO

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