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RNELLA

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AVERO

Io sono qui in una doppia veste. Sono direttrice di Ristretti Orizzonti, rivista realizzata prevalentemente dietro le sbarre, ma anche da una redazione esterna, e del sito con la sua Rassegna Stampa quotidiana sulle pene e sul carcere: E sono anche Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia.

Non voglio parlare dell’ergastolo ostativo, perché persone più competenti di me hanno detto già tutto o quasi. Voglio parlare del post ventidue ottobre, perché il problema che mi sta a cuore è capire cosa succederà nelle carceri, riaperte alla speranza da un possibile pronunciamento di incostituzionalità. Io temo molto che questa speranza entri in rotta di collisione con una situazione nelle carceri che a me pare molto pesante. Voglio spiegarmi meglio. Nella sua relazione introduttiva, Vladimiro Zagrebelsky ha parlato della Lituania, raccontando che lì è stata cambiata la normativa sull’ergastolo: oggi la nuova legge prevede che l'amministrazione penitenziaria possa comunque decidere, sulla base del percorso fatto dal detenuto, in favore di una - non so bene come definirla - “revisione” della pena, per rivederne la perpetuità. Riusciamo solo a immaginare qualora si riaprisse la questione in Italia dell'ergastolo ostativo -come potrebbe agire l'Amministrazione penitenziaria nei percorsi delle persone detenute, per le quali si aprisse la possibilità di accesso ai permessi premio e alle altre misure extramurarie? Faccio un solo esempio apparentemente eccentrico. Ieri ho letto una circolare del DAP titolata “Ordine e sicurezza nelle

carceri”, che pone una serie di restrizioni nella vita quotidiana dei detenuti,

individuando soggetti che hanno “una spiccata tendenza all’evasione”. Il clima che si vive nelle carceri oggi è questo, un ritorno alla centralità del tema “ordine e sicurezza”, al posto della rieducazione e del reinserimento. Per restituire ai soggetti ristretti la speranza - all’indomani della sentenza di accoglimento che

Direttrice di Ristretti Orizzonti, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia

Quel che possiamo fare perché il “diritto alla speranza” trovi concrete applicazioni 105

io auspico - servirebbero invece, aree educative che lavorassero per farla intravedere, quella speranza.

Sono qui presenti giudici come Marcello Bortolato e Giovanni Maria Pavarin, che hanno fatto parte del Tribunale di Sorveglianza di Padova, competente per il carcere Due Palazzi dove prevalentemente lavoro. Rivolgo tramite loro un invito a tutta la magistratura di sorveglianza per aprire un confronto coraggioso, capace di sottrarsi ai condizionamenti del clima odierno ispirato alla filosofia del “far marcire in galera fino all’ultimo giorno di detenzione”. È urgente parlarsi, perché io vedo – per esempio - detenuti a cui è stata riconosciuta l’inesigibilità della collaborazione che, però, restano parcheggiati nei circuiti di Alta Sicurezza: E lì rimarranno se gli umori esterni, determinati dalla paura e dalla rabbia, prevarranno su una qualsiasi seria riflessione su come garantire realmente la sicurezza sociale.

Io per questo vi invito a non parlare solo dell'ergastolo ostativo ma a vedere cosa succede concretamente nelle carceri: abbiamo più di novemila detenuti in Alta Sicurezza, e le declassificazioni sono pochissime. Tra l'altro, se ti respingono una richiesta di declassificazione, questo certamente ti permette di fare reclamo al magistrato di Sorveglianza, dove però spuntano le consuete informative della Direzione Distrettuale Antimafia (“non si possono escludere

collegamenti con…”) che bloccano completamente il percorso delle persone

detenute, attingendo a vicende risalenti a venti, trent’anni fa. E nessuno ha nulla da dire, su una simile prassi.

Dentro le carceri ci troviamo con persone detenute che sono state anni in regime di 41-bis, ne sono uscite perché non avevano più collegamenti con le organizzazioni criminali di appartenenza, e ora sono ristretti in questi circuiti di Alta Sicurezza, da dieci, venti, trent'anni. Ciò significa che un percorso trattamentale serio non lo fanno quasi mai, e la possibilità di accedere a un permesso premio di qualche ora grazie al giudicato costituzionale verrebbe loro comunque negata perché non sono pronte, non possono attestare nessuna revisione critica, non sono state sufficientemente “osservate”.

Cominciamo, allora, a riaprire le questioni riguardanti la cosiddetta rieducazione: i parametri usati per valutare le persone detenute, le aree educative schiacciate dai carichi di lavoro e che pure dovrebbero comunque contribuire ad avviare un confronto sui percorsi di reinserimento. Diversamente, il tornante del 22 ottobre potrebbe cadere nel vuoto, nonostante la sua grande importanza.

Riprendo l'intervento di Luciano Eusebi di questa mattina: la prevenzione si fa davvero permettendo alle persone che appartenevano alla criminalità organizzata di prendere in modo netto le distanze dal loro passato; eppure spesso non gli si permette, non gli si riconosce questa possibilità. La declassificazione, per esempio, è un modo di riconoscere che un detenuto ha fatto passi importanti lungo la strada della riabilitazione, non è più quello legato all'organizzazione di prima, ha avuto il coraggio di tirarsene fuori. Ma nemmeno questo si fa, perché ci sono detenuti – lo ripeto - parcheggiati da anni

nei circuiti differenziati, e che si vede rigettare continuamente la richiesta di declassificazione da parte del DAP.

Allora proviamo a invitare anche il DAP a un confronto su questi temi, cerchiamo di fare dei passi ulteriori oltre a quelli che ci hanno condotto alla sentenza della Corte EDU nel caso Viola e alla decisione che verrà della Corte costituzionale: senza un diverso contesto, entrambe potrebbero promettere più di quanto l’attuale realtà carceraria è in grado di mantenere.

Un’ultima osservazione, che sviluppo da giornalista: vorrei ribadire quanto è importante che si lavori molto nell'ambito dell'informazione. Il mondo del volontariato carcerario ci prova in tutti i modi. Da ultimo, il venticinque ottobre a Milano si svolgerà il Festival della Comunicazione sulle pene e sul carcere: un seminario di formazione per giornalisti centrato su questi temi, perché la cattiva informazione ha un peso enorme nell’alimentare le paure, quando invece dovrebbe collaborare a spiegare che a creare maggiore sicurezza sono proprio percorsi diversi dal carcere e ad esso esterni.

Leggo, a conclusione di questo mio intervento, alcune righe scritte una studentessa che ha preso parte ad uno dei nostri progetti di messa in relazione del mondo carcerario con il mondo esterno al carcere: nonostante la sua incerta sintassi, meglio di ogni altra riflessione, le sue righe dimostrano che - anche su temi difficili come l'ergastolo - l'opinione pubblica, se accompagnata e informata in modo equilibrato e preciso, può capire di più, ridurre le proprie paure e accrescere in consapevolezza. Questa ragazza così scrive, dopo aver incontrato, ascoltato, dialogato con diversi detenuti, anche ergastolani: “Da

oggi penso che l’ergastolo sia da riconsiderare come pena per chi ha attraversato un percorso come il vostro: non solo per dare una seconda possibilità ad un uomo pentito, ma anche perché dopo questa esperienza penso vivamente che sia una perdita anche per la società escludervi. Avete sbagliato molto ed è giusto che paghiate per le vostre azioni, avete anche sofferto altrettanto e questa sofferenza secondo il mio punto di vista fa sì che voi abbiate molto da insegnare. A me questo lo avete trasmesso”.

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