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I giudici a quibus – come chiaramente emerge dall’esposizione delle

UN DIALOGO POSSIBILE CON LA CORTE EDU?

IL 4-BIS ALL’ESAME DELLA CORTE COSTITUZIONALE: LE QUESTIONI SUL TAPPETO E LE POSSIBILI SOLUZIONI

2. Per andare al “cuore” del problema di costituzionalità che la Corte è

2.1. I giudici a quibus – come chiaramente emerge dall’esposizione delle

questioni sollevate (v. retro par. 1) – ritengono, insieme a larga parte della dottrina7, che il meccanismo previsto dall’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. contenga una “presunzione di pericolosità sociale”: la mancata collaborazione con la giustizia dimostrerebbe la permanenza dei legami con l’organizzazione criminale, mentre la collaborazione dimostrerebbe ex se la cessazione del legame. Di conseguenza, chiedono alla Corte costituzionale o di considerare la “minore gravità” del reato ex art. 416-bis.1 c.p. (così la Corte di cassazione) oppure di poter superare tale presunzione perché la pericolosità sociale dovrebbe essere valutata anche sulla base di altri indici (così il Tribunale di sorveglianza di Perugia).

Quella da cui muovono i rimettenti è una qualificazione del requisito della collaborazione che, in effetti, può trovare conferme, soprattutto se si considera che cosa l’art. 4-bis ord. pen. è diventato nel corso del tempo.

Tale disposizione fu introdotta nell’ordinamento con il d.l. n. 152 del 1991, conv. in l. n. 203 del 1991, ma il requisito della collaborazione viene inserito l’anno successivo, all’indomani della strage di Capaci, con il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modifiche con la l. 7 agosto 1992, n. 356. In questa prima formulazione la collaborazione era imposta ai soli condannati per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. e per quei delitti allora commessi dalla criminalità organizzata per acquisire risorse (sequestro a scopo di estorsione e traffico di

7Cfr., tra i tanti, L. EUSEBI, Ergastolo “non collaborante” ai sensi dell’art. 4-bis, comma

1, ord. penit. e benefici penitenziari: l’unica ipotesi di detenzione ininterrotta, immodificabile e senza prospettabilità di una fine?, in Cass. Pen. 4/2012, pp. 1221-1222; E. DOLCINI, Il

principio della rieducazione del condannato: ieri, oggi, domani, in Riv. it. dir. e proc. pen.

2018, pp. 1687-1688; L. PACE, L’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario tra presunzioni di

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droga). Il legislatore reagì cioè alla morte dei giudici Falcone e di Borsellino introducendo – non senza travaglio8 – una disposizione volta a favorire il c.d. “pentitismo”. Nel corso del tempo – soprattutto a partire dalle modifiche alla norma che si sono susseguite dal 2000 in poi – nell’art. 4-bis ord.pen. sono stati aggiunti titoli di reato tra loro assai diversi, rispondenti, di volta in volta, a ciò che il legislatore ha ritenuto particolarmente “grave” e, dunque, per i detenuti che ha assunto essere socialmente più pericolosi: così, prima sono stati aggiunti i reati di terrorismo internazionale, poi quelli legati allo sfruttamento sessuale, infine al fenomeno della corruzione9. Nella recente sentenza n. 188 del 2019, la Corte costituzionale, prendendo atto di questa tendenza, ma senza mostrare di condividerla, afferma che «le numerose modifiche intervenute negli anni, rispetto al nucleo della disciplina originaria, hanno variamente ampliato il catalogo dei reati ricompresi nella disposizione, in virtù di scelte di politica criminale tra loro disomogenee, accomunate da finalità di prevenzione generale e da una volontà di inasprimento del trattamento penitenziario, in risposta ai diversi fenomeni criminali di volta in volta emergenti, trasformando l’art. 4-bis ordin. penit. in “un complesso, eterogeneo e stratificato elenco di reati”».

Ritenendo dunque che l’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. contenga una presunzione assoluta di pericolosità sociale, i giudici dubitano della compatibilità dell’obbligo di collaborazione per accedere ai benefici penitenziari con l’art. 27 della Costituzione, non solo perché un detenuto potrebbe aver compiuto passi importanti verso la rieducazione e aver scelto di non collaborare per non mettere a repentaglio la vita dei propri cari o per altre ragioni, ma anche per il caso opposto, cioè evidenziando come la pericolosità sociale non si dissolva con la collaborazione con la giustizia, ben potendo quest’ultima essere dettata da mere ragioni di convenienza. Se l’art. 27 Cost. richiede un trattamento penitenziario individualizzato (in questo senso, soprattutto, da ultimo, la sentenza n. 188 del 2019), allora la valutazione in concreto della pericolosità sociale del detenuto e, in particolare, del comportamento tenuto durante la detenzione non dovrebbe essere impedita dalla mancata collaborazione con la giustizia, la quale potrebbe invece costituire uno dei tanti elementi che il giudice è chiamato a considerare prima di concedere il beneficio.

Nel complesso si tratta di censure indubbiamente solide, suffragate – dopo la pubblicazione delle ordinanze di rimessione – dalle argomentazioni con cui la Corte EDU, prima sezione, con la sentenza 13 giugno 2019, Viola c. Italia (v. soprattutto §§ 116 ss.), ha condannato lo Stato italiano, rilevando che la presunzione di pericolosità sociale contenuta nell’art. 4-bis ord. pen. si pone in

8V. il dibattito svoltosi presso la Camera dei deputati nella seduta del 30 luglio 1992.

9Cfr. L. PACE, op. cit., p. 7, che riconduce l’espansione del catalogo dei reati di cui all’art. 4-bis ord. pen. al “governo dell’insicurezza sociale”.

contrasto con l’art. 3 della Convenzione10. Anche se i rimettenti non evocano la violazione dell’art. 117, primo, comma Cost., tale decisione avrà sicuramente un “peso” nella decisione della Corte costituzionale, soprattutto dopo che, con il rigetto del ricorso dello Stato italiano comunicato il 7 ottobre 2019, tale pronuncia è diventata definitiva.

A quanto osservato dai rimettenti potrebbe poi aggiungersi che presumere la pericolosità sociale di chi ha commesso certi reati e non collabora rischia di rieditare una concezione della pena “per autore”, di una colpa “per colpevolezza della condotta di vita”11 (come, del resto, adombrato anche in Corte cost., sentenza n. 306 del 1993).

In questa prospettiva, infine, non errerebbe il Tribunale di Perugia anche a rilevare come il meccanismo censurato potrebbe persino frustrare la rieducazione di colui che – non collaborando – non avrebbe ragioni e scopi nel seguire il percorso trattamentale.

Meno convincente è, invece, il richiamo che la Corte di cassazione opera alla giurisprudenza costituzionale sull’automatismo contenuto nell’art. 275 c.p.p. in ordine all’applicazione della custodia cautelare in carcere, anzitutto per la diversità strutturale tra le finalità perseguite con le misure cautelari, applicate durante il processo quando la verità non è ancora accertata e l’imputato è stato da poco allontanato dal contesto criminale, e gli istituti dell’ordinamento penitenziario finalizzati invece a rieducare il condannato lungo un arco temporale assai lungo12. Si potrebbe poi osservare che quello previsto dall’art. 275 c.p.p. è un “vero” automatismo (il legislatore decide al posto del giudice), mentre la collaborazione è una (pre)condizione che “preclude” la valutazione che la magistratura di sorveglianza è comunque chiamata ad operare prima di concedere il beneficio.

Rispetto alle censure così costruite, la Corte potrebbe rigettare le questioni richiamando quando perentoriamente affermato nella sentenza n. 273 del 2001 e, soprattutto, nella sentenza n. 35 del 2003 (quando ormai – come visto – l’art. 4-bis ord. pen. aveva subito una profonda modifica rispetto alle intenzioni originarie del legislatore). In tali pronunce – che si pongono, sul piano argomentativo, in discontinuità con la giurisprudenza costituzionale

10Per una analisi esaustiva della decisione si rinvia a V. ZAGREBELSKY, La pena detentiva

“fino alla fine” e la Convenzione europea dei diritti e delle libertà fondamentali, in questo

volume.

11Vedi C. FIORIO, Sempre nuove questioni di diritto penitenziario: la collaborazione come

presupposto per i benefici, in Giur. Cost. 1993, p. 2505.

Per la concezione della pena “d’autore”, v. A. FIORELLA, voce Reato in generale, in Enc.

Dir., XXXVIII, Milano, Giuffrè 1987, pp. 780-781; F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Milano, Giuffrè, 2000, pp. 327-329. Nella giurisprudenza costituzionale, sulla “responsabilità penale d’autore” v. sentenza n. 249 del 2010.

12 Sulla diversità tra soggezione ad una misura cautelare e stato di detenzione, v. Corte cost., sentenze n. 25 del 1979 e n. 17 del 2017 e ordinanze n. 532 del 2002 e n. 145 del 2009.

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precedente13 – si legge che la preclusione all’accesso ai benefici «non è conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare»; e che la collaborazione è «criterio legale di valutazione di un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini di accertare il ‘sicuro ravvedimento’ del condannato».

Oppure, la Corte potrebbe mettere alla prova la ragionevolezza di tale presunzione legale sulla base dell’id quod plerumque accidit, cioè sulla base di indici di fatto, verificando (tramite un’analisi giurisprudenziale?) se davvero la maggioranza dei condannati per i delitti indicati nell’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. che non collaborano continuano a commettere reati durante la detenzione e, dunque, siano socialmente pericolosi, o (come chiede la Corte di cassazione) se ciò sia vero per coloro che sono condannati per alcuni reati (solo i condannati

ex art. 416-bis c.p.?) e non per gli altri.

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