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Così focalizzata la questione di costituzionalità rimessa alla Corte

COME PARAMETRO DI LEGITTIMAZIONE DELLA PENA CARCERARIA

2. Così focalizzata la questione di costituzionalità rimessa alla Corte

costituzionale, vorrei evidenziare ulteriori profili di incostituzionalità, secondo una sequenza di vulnera a principi costituzionali e convenzionali comunque entrati nell’ordinamento che approda sì a quella censura finale e sintetica di irrazionalità lesiva dell’art. 3 Cost., su cui si è concentrato l’unanime consenso dei giuristi e degli altri studiosi occupatisi del tema, caricandola peraltro di contenuti assiologici di rango costituzionale direttamente pertinenti al tema della responsabilità e della sanzione penale, alla loro legittimazione costituzionale, alle finalità e limiti della pena.

Il mio intervento scaturisce da riflessioni che sono all’origine del mio interesse per la questione della sanzione penale, occasione di studi e scritti precedenti.

Mi sovviene, per primo, il principio di offensività, costantemente richiamato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale come principio fondamentale in materia di penalità, nella sua duplice lettura, secondo la quale una condotta, per essere passibile di sanzione penale deve concretamente offendere un bene giuridicamente tutelato ( con tutela qualificata da copertura costituzionale): c.d. diritto penale dei beni; e secondo la quale quel bene

meritevole di tutela penale costituisce la ragion d’essere, la misura e il limite della sanzione penale che lo presidia.

Si collegano direttamente al principio di offensività, nella seconda accezione sopra richiamata, i principi di necessità e proporzione, concordemente ricondotti alle norme ex artt. 25, comma 2, e 13 Cost., oltre che alla Carta di Nizza- Trattato di Lisbona (art. 49 CDF UE) - a sua volta risalente, per discendenza ‘genealogica’, all’art. 8 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo del 1789 –

A partire dal bene offeso come parametro di legittimazione della pena carceraria 67

Sovviene infine il tratto connotativo essenziale del sistema penale fondato sull’intero ordinamento costituzionale, quale diritto penale del fatto contrapposto a un diritto penale dell’autore, espressivo di principio distinto dal principio di offensività e secondo il quale la responsabilità penale deve essere ancorata a un fatto determinato e non ad una mera azione o condotta o alla personalità del reo.

Tali principi presiedono, in ragione della loro pertinenza alla legittimazione della sanzione penale come tale, all’ intero arco di vita della sanzione penale, dal momento della sua comminazione sino a quello della sua esecuzione, passando per l’applicazione in sede cautelare e l’irrogazione in sede di giudizio di cognizione.

La sequenza delle proposizioni che ne discendono può essere ordinata (a mente degli artt. 13, 25 comma 2, e 27 Cost.) nell’ordine seguente: a) la

sanzione penale costituisce la sanzione più grave (extrema ratio fra il novero

delle sanzioni in generale) fra le sanzioni poste a tute di beni giuridici; b) la

sanzione carceraria a sua volta costituisce la sanzione più grave (extrema ratio

fra le sanzioni penali in senso proprio); c) entrambe (sanzione penale e sanzione carceraria) possono e devono applicarsi secondo criteri rigorosi di necessità e proporzionalità (sotto il profilo della commisurazione) rispetto alle necessità di

tutela del bene; d) necessità e proporzionalità non possono che valutarsi

secondo metodo casistico-individuale e dunque in concreto per rispondere al principio di offensività, restando così espunti a priori automatismi e presunzioni assolute; e) la nozione di responsabilità penale che si evince da tali principii è una nozione relazionale di responsabilità e non moralistico-psico-personologica: essa inizia con la condotta dell’autore del fatto e termina con l’offesa (o concreta messa in pericolo) del bene giuridico, chiudendosi così il cerchio che,

a partire dal bene offeso individuato come la ragion d’essere, la misura e il limite della sanzione penale, dà ragione dei principi richiamati nei termini di

diritto penale del fatto, del diritto penale dell’offesa in concreto, della necessità e proporzione della pena rispetto al fatto commesso.

Occorre a questo punto considerare entro quale cornice costituzionale si collochi la valutazione della pericolosità soggettiva dell’indagato, del reo e del condannato.

Non vi è dubbio che, nella tessitura dei principi costituzionali richiamati, vi sia spazio per una valutazione della pericolosità soggettiva in concreto e rispetto al fatto. La Corte costituzionale ha avuto ripetutamente occasione di pronunciarsi su tali profili costituzionalmente compatibili della pericolosità.

Non vi è dubbio inoltre che più si sale lungo la scala di gravità e afflittività delle sanzioni (la massima delle quali è certamente la sanzione carceraria) più il parametro della pericolosità rispetto alle esigenze di tutela del bene si enuclea, fra gli altri, come il più pregnante e pertinente ai fini della scelta della sanzione necessaria e proporzionata. Si può ipotizzare che, a livelli evoluti di civiltà giuridica, la sanzione carceraria potrà e dovrà giustificarsi piuttosto come una

cautela che non come una pena intesa nell’accezione afflittiva-retributiva (pur

nella indefettibile prospettiva rieducativa) dell’istituto.

Posto che una siffatta pericolosità rispetto al fatto e valutata in concreto in nulla deve confondersi con la pericolosità soggettiva e sociale che ispira il sistema delle misure di sicurezza, presupponendo un soggetto consapevole e capace di scegliere e volere, come tale giudicabile o giudicato responsabile per un fatto-reato, al quale compete una pena che deve incorporare un percorso rieducativo individualizzato e progressivo, non vi è altro criterio che giustifichi il ricorso alla pena maggiormente segregativa, comportante massimo sacrificio della persona, sia in sede cautelare, sia in sede di pena irrogata, sia in sede di pena effettivamente scontata in fase di esecuzione, se non il criterio della pericolosità accertata in concreto, desunta cioè da elementi e dati oggettivi, apprezzata in tutte le sua plurime componenti e valutata sempre con diretto riferimento al bene giuridico specificamente tutelato e al fatto commesso.

In fase esecutiva appare del tutto evidente che la valutazione di pericolosità – risultato di un riuscito o mancato percorso di rieducazione, di una maggiore o minore presa di distanza dal fatto e dall’ambiente nel cui ambito la realizzazione di quel fatto si era motivato, del cosiddetto processo di ‘revisione critica’ delle condotte realizzate - costituisce il criterio- guida nelle scelte relative al regime penitenziario, nelle decisioni cc.dd. ‘trattamentali’, nell’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative. Purché, s’intende, si tratti di una pericolosità rispetto al fatto e valutata in concreto, individualmente, caso per caso. Purché in altre parole non sia quella

pericolosità presunta, apprezzata sulla base di condotte che possono essere talora indicative (e come tali possono affiancarsi ad altre, alternative), ma le più volte si dimostrano inconferenti e anacronistiche rispetto alle esigenze di tutela dei beni che lo Stato, sub specie dell’istituzione giudiziaria-penale ha diritto- dovere di presidiare, anche a mezzo della sanzione più grave:

pericolosità del tipo che si evince per converso dal combinato disposto degli artt. 4 bis comma 1 e 58 ter della L. 26.7.1975 (O.P.). Una simile regola di valutazione della pericolosità può determinare addirittura una tutela del bene da proteggere “per difetto”, e anche sotto questo profilo la regola dimostra la propria dissonanza di sistema e la propria irrazionalità.

Ciò appare così vero e radicato in un sistema di norme chiare ed esplicite di rango costituzionale e convenzionale, che non solo la personalità di ciascun

detenuto, in quanto uomo, ha diritto a un ‘divenire’ – come si intende dalla

sentenza della Corte EDU: “la personalità del condannato non resta congelata

al momento del reato commesso. Essa può evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione, che permette alla persona di rivedere in maniera critica il suo percorso criminale e di ricostruire la sua personalità”, ma, di pari passo e allo stesso titolo, anche la sua ‘pericolosità’ rispetto al fatto, sulla quale in definitiva si giustifica, almeno

a partire da determinate soglie di pena scontata, la prosecuzione della carcerazione, ha il dovere di essere riesaminata, scevra da ogni presunzione,

A partire dal bene offeso come parametro di legittimazione della pena carceraria 69

sulla base di elementi oggettivi e soggettivi pertinenti, concreti ed attuali (non

valutati una volta per tutte al momento - ormai remoto - della commissione del fatto, né sulla base del solo titolo del reato).

E se quanto detto è vero, a partire dal raggiungimento delle soglie temporali minime stabilite dalla legge penitenziaria per potere accedere a benefici o a pene alternative, il detenuto matura una sorta di ‘diritto’ (o un’

aspettativa giuridicamente riconosciuta e tutelata) a usufruire dei detti benefici,

quante volte ricorrano quelle condizioni di percorso rieducativo e coscienziale dall’esito positivamente conseguito, che solo l’autorità giudiziaria preposta a tale valutazione ( ancor meglio, in prospettiva, se coadiuvata da congrua équipe multidisciplinare) è in grado di valutare in concreto.

In altre parole, a partire dalle rispettive soglie minime di ‘già sofferto’, la carcerazione, nata legittima, diviene ‘illegittima’, dovendosi evincere dal sistema che essa resta legittima solo mediante riesame periodico della sua necessità e proporzionalità (rispetto essenzialmente alla pericolosità attuale del condannato), alla luce dei criteri di tutela attuale del bene che ne costituiscono la ragione legittimatrice.

In questa prospettiva si coglie tutta la irrazionale incongruità di presunzioni legali di pericolosità soggettiva collegate esclusivamente a determinati titoli di reato, e subordinate all’attuazione di condotte ritenute (esse sole) indicative di cessazione di pericolosità, con giudizio astratto, presuntivo e invincibile da prova contraria. In siffatta ‘lettura’, la pericolosità presa in considerazione torna ad essere la pericolosità sociale, immutabile, collegata a un fatto trascorso e al solo titolo del reato, presunta, compatibile con un diritto penale dell’autore e non del fatto.

3. Le norme di cui al combinato disposto ex artt. 4 bis e 58 ter O.P. rimesse

allo scrutinio della Corte costituzionale, nella tratteggiata prospettiva ‘di sistema’ -costituzionale e convenzionale- appaiono ledere contemporaneamente gli artt. 13 e 25, comma 2, Cost (oltre che art. 49 CDFUE) e in particolare i principii di offensività, necessità- proporzionalità1della pena rispetto all’offesa; disconoscono ogni valore a quegli elementi in ipotesi accertati in concreto che depongono a favore di una effettiva “evoluzione del detenuto, progredito nel

percorso del cambiamento al punto che nessun motivo penologico giustifichi più la detenzione”, come si esprime la Corte EDU nella sentenza Viola, con

conseguente lesione dell’art. 27 Cost; ledono la libera determinazione e dignità della persona del detenuto (art. 2 e 21 Cost.); ledono infine i principii di razionalità ed eguaglianza ex art. 3 Cost., come approdo finale e conseguente

1 Similmente - come documentato da A. DEFFENU, Ergastolo ostativo e principio di

proporzionalità tra reato e pena: spunti dalle vicende francesi, in questo volume - il Conseil constitutionnel ha dichiarato l’incostituzionalità della norma di legge contemplante una forma di ‘ergastolo

delle violazioni dette alla stregua del percorso argomentativo come sopra rappresentato.

Tale conclusione si pone in linea con principii più volte enunciati dalla stessa Corte costituzionale, con riferimento agli artt. 13, 25 comma 2, 27 e 21 Cost. (si richiama, fra le altre, la sentenza n. 265/2005).

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