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DI INCOSTITUZIONALITÀ DIFFERITA SUL FINE PENA MAI?

di M

IRIANA

L

ANOTTE

*

SOMMARIO: 1. Un quadro complesso. 2. Una prima strada: sentenza interpretativa di rigetto. 3. Un approccio più cauto: “Cappato bis”.

1. La delicatezza della questione pendente dinnanzi alla Corte

Costituzionale, posta dalla Sezione I della Corte di Cassazione e dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia, in ordine alla possibilità di dichiarare illegittimo l’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., impone di analizzare le questioni giuridiche e di valutare le possibili strade percorribili dalla Consulta attraverso un approccio cauto ed avveduto.

“L’irreversibile presunzione legislativa assoluta di pericolosità”1, dichiarata dalla Prima Sezione della Corte di Strasburgo in contrasto con la dignità umana e con il divieto di pene disumane e degradanti che negano la possibilità di un percorso rieducativo - valori desumibili dall’art. 3 della CEDU -, è stata ulteriormente confermata, a seguito del referral proposto dal Governo italiano, con la decisione della Grand Chambre dell’8 ottobre 2019.

Ne consegue che la Consulta nell’esaminare la questione dovrà tenere conto non solo dei parametri costituzionali - ovvero l’art. 3 e 27 comma 3 Cost. - individuati dai remittenti, ma anche dell’interpretazione evolutiva e definitiva dell’art. 3 CEDU accolta dalla Corte EDU.

Il thema decidendum, a ben vedere, non verte sulla perpetuità della pena detentiva dell’ergastolo, ma sull’applicazione combinata dell’art. 22 c.p. con gli artt. 4-bis e 58-ter della legge sull’ordinamento penitenziario, che impedisce la concessione dei permessi premio, ( e, conseguentemente, della liberazione condizionale, delle misure alternative alla detenzione e degli altri benefici penitenziari) ai soggetti che, condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p., non hanno fornito una collaborazione con la giustizia. Ciò significa che la mancata collaborazione non consente, in nessun caso, al Tribunale di Sorveglianza competente di valutare nel merito la

*Cultrice della materia di Diritto dell’Unione Europea, Università di Bologna.

ricorrenza dei presupposti richiesti dall’art. 30-ter ord. penit. in relazione al requisito della pericolosità sociale al fine di concedere il beneficio.

2. Si tratta di una presunzione assoluta poiché prevede un automatismo che

priva il giudice, nel singolo caso concreto, di valutare il percorso di rieducazione in assenza di collaborazione. Detto in altri termini, il condannato non potrà, nemmeno potenzialmente, essere considerato meritevole di alcun beneficio, se non ha collaborato con la giustizia, posto che solo mediante la collaborazione - sempreché questa sia esigibile - si può dimostrare di aver reciso definitivamente i legami con l’associazione criminale2. La stessa Corte Costituzionale, invero, ha affermato che se la collaborazione con la giustizia consente di presumere la dissociazione della persona dall’ambiente criminale mafioso, non è vero il contrario, ovverosia che l’assenza di collaborazione non permette di affermare il mantenimento dei rapporti con il sodalizio criminale.

Le doglianze della Corte di Cassazione con riferimento agli artt. 3 e 27 comma 3 Cost. trovano fondamento nelle precedenti sentenze della Consulta che, in diverse occasioni, hanno dichiarato illegittimo il meccanismo di presunzione assoluta3, posto che quest’ultimo nega al giudice la possibilità di valutare la pericolosità sociale, svilendo la funzione rieducativa della pena, che pur non essendo l’unica funzione, non può essere del tutto estromessa4.

La complessità della questione richiede di impostare il ragionamento giuridico partendo da un punto fermo, ovvero dal sistema di principi che governa non solo il precetto penale, ma anche la relativa sanzione, in particolare il principio di legalità della pena e di ragionevolezza5.

Il principio di legalità della pena impone che la determinazione del trattamento sanzionatorio sia riservata alla discrezionalità del legislatore, il quale deve consentire, però, al giudice di infliggere una pena appropriata sulla base delle caratteristiche del reato, in modo da ottenere un trattamento sanzionatorio graduato, individualizzato e rispondente ai canoni costituzionali dell’art. 3 e dell’art. 27 comma 1 e 3 Cost..

Il principio di legalità della pena, tuttavia, non copre soltanto il momento in cui viene comminata la sanzione, ma anche quello dell’esecuzione della pena, dove assurge un ruolo preminente l’art. 27 comma 3 Cost., in virtù del quale la

2 E. DOCINI, E. FASSONE, D. GALLIANI, P. PINTO de ALBUQUERQUE, A. PUGIOTTO, Il

diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, Giappicchelli, Torino, 2019.

3M. DANIELE, I vizi degli automatismi cautelari persistenti nell’art. 275, co.3 c.p.p., in Dir.

pen. e processo, 2016, fasc. 1, p. 114 ss.; e ancora V. MANES, Lo sciame di precedenti della

Corte Costituzionale sulle presunzioni in materia cautelare, in Dir. pen. proc, 2014, p. 457 ss.

4F. VIGANO’, Obblighi convenzionali di tutela penale? in La Convenzione europea dei

diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, a cura di V.MANES- V.ZAGREBELSKY, Giuffrè, Milano, 2011, p. 243 ss.

5F. PALAZZO, Legalità penale. Considerazioni su trasformazione e complessità di un

principio “fondamentale”, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno,

La possibilità di una pronuncia di incostituzionalità differita 125

pena oltre ad avere finalità di prevenzione generale e speciale negativa, ha finalità rieducativa. Ciò comporta che risponde all’art. 27 comma 3 Cost. una pena che può, in corso di esecuzione, essere sottoposta al giudizio di adeguatezza, proporzionalità al fine di valutare il graduale processo di reinserimento e rieducazione del condannato6.

Si deve a tal riguardo osservare che un sistema rigido di predeterminazione legislativa della risposta punitiva - come quello delle pene fisse, messo in discussione dalla Consulta con una serie di recentissime decisioni 7- non consente, al momento della commisurazione della pena, di assicurare la graduazione della sanzione in relazione al reale disvalore della condotta. Allo stesso modo un sistema di pene rigide e immodificabili fondato su presunzioni assolute vieta al giudice, che valuta la pena in corso di esecuzione, di rivedere il trattamento sanzionatorio a cui il condannato è sottoposto e di rispettare il principio di rieducazione della pena8.

Orbene, se queste sono le coordinate costituzionali da seguire, l’applicazione al caso concreto determina (rectius, dovrebbe determinare) l’incostituzionalità dell’art. 4-bis 1 comma ord. penit. per contrasto con gli artt. 3, 27 comma 3, 117 comma 1 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 3 CEDU, nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo per i delitti di cui al 416-bis c.p. possa essere ammesso ai benefici penitenziari se non mediante una effettiva collaborazione.

Nel nostro ordinamento, al fine di concedere misure alternative alla detenzione, non esiste una presunzione di generale affidabilità di ciascun soggetto; al contrario, devono sussistere degli elementi positivi sulla base dei quali il giudice può ragionevolmente ritenere la misura adeguata in relazione agli obiettivi di rieducazione. Se ne deduce, allora, che non sarebbe ragionevole stabilire una presunzione assoluta di “inaffidabilità” legata ad un singolo elemento, quello della collaborazione, che priva così il giudice della possibilità di verificare in concreto l’evoluzione personale del condannato9.

Bene si comprende che per alcune tipologie di crimini particolarmente efferati, quali quelli legati all’art. 416-bis c.p., il legislatore subordini la concessione del beneficio alla circostanza che l’imputato riesca a dimostrare il proprio allontanamento dalla associazione criminale. Si tratta, però, almeno in alcuni casi, di una probatio diabolica che può essere soddisfatta soltanto tramite

6E. DOLCINI, Dalla Corte Costituzionale una coraggiosa sentenza in tema di ergastolo (e

di rieducazione del condannato), in Dir. pen. cont., fasc. 7-8/2018, p. 145 ss.; e ancora A.

PUGIOTTO, “Il blocco di costituzionalità” nel sindacato della pena in fase esecutiva (nota all’inequivocabile sentenza n. 149/2018), inwww.osservatorioaic.it, 19 novembre 2018, p. 405 ss.

7 Corte Cost., 5 novembre 2012, sentenza 251 del 2012; Corte Cost., 5 gennaio 2018, sentenza 149 del 2018; Corte Cost., 25 settembre 2018, sentenza 222 del 2018.

8L. TUMINIELLO, Il volto del reo. L’individualizzazione della pena fra legalità ed equità, Giuffrè, Milano, 2010, p. 10 ss.

9 D. GALLIANI, A. PUGIOTTO, Eppure qualcosa si muove: verso il superamento

la collaborazione10. Ma non sempre la mancanza di collaborazione è “legata ad

una scelta libera e volontaria”. Parimenti la scelta di non collaborare potrebbe

fondarsi su motivi diversi “dalla persistenza dell’adesione ai valori criminali e

dal mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza”11.

In altri termini, ancorché sia possibile (e finanche auspicabile), per delitti gravi, condizionare l’accesso a misure alternative alla detenzione alla prova della dissociazione dall’ambiente mafioso - posto che la concessione di qualsiasi beneficio consente al soggetto di rientrare in contatto con il mondo esterno e di ricostituire o riprendere il rapporto associativo mettendo in pericolo l’ordine pubblico e la sicurezza - non è ammissibile, perché contrario ai parametri costituzionali e convenzionali suddetti, presumere iure et de iure, che in mancanza di collaborazione il soggetto abbia mantenuto il rapporto associativo. Dunque, la preclusione ai benefici penitenziari diviene un automatismo applicato agli autori di reati ostativi che scontano una pena non conforme ai dettati costituzionali.

Ci si chiede, allora, se altre possano essere le modalità attraverso le quali l’imputato provi di non essere più parte del pactum sceleris.

A tal fine è necessario individuare nuovi parametri e criteri che permettano al giudice dell’esecuzione di valutare la fine del legame associativo da parte dell’imputato. Appurata tale dissociazione, si consentirà al giudice di valutare i requisiti legati alla pericolosità sociale di cui al 30-ter ord. penit. per la concessione dei benefici.

A questo punto, si potrebbe prospettare una sentenza interpretativa di rigetto attraverso la quale la Corte Costituzionale trasformi la presunzione assoluta in relativa o aggiungendo alla collaborazione, nel caso in cui questa non venga attuata, altri elementi - compito sicuramente molto arduo - che dimostrino la dissociazione dell’imputato, oppure reinterpretando l’art. 4-bis 1 comma ord. penit., in senso conforme alla Costituzione.

In entrambi i casi la nuova interpretazione tradirebbe l’intenzione del legislatore del 1992.

3. Il quadro normativo/valoriale descritto non consente di prospettare una

sentenza di accoglimento tout court, perché l’eliminazione della norma alleggerirebbe la pressione contro i delitti di criminalità organizzata, dimostrando, dal punto di vista politico, un cedimento dello Stato rispetto al fenomeno mafioso. Al contempo, deve escludersi una sentenza di rigetto in

10M. BONTEMPELLI, Diritto alla rieducazione e libertà di non collaborazione, in Riv. it. dir.

proc. pen., 2017, p. 1530 ss.

La possibilità di una pronuncia di incostituzionalità differita 127

quanto dopo la pronuncia della Corte di Strasburgo i profili di incostituzionalità sollevati postulano una risposta da parte della Consulta12.

Tuttavia, occorre riflettere sulla conformità di una pronuncia interpretativa di rigetto con il principio di riserva di legge.

L’attribuzione del monopolio penale al potere legislativo consente di evitare forme di arbitrio da parte di altri poteri dello Stato e risponde all’esigenza di riduzione dell’alea del penalmente rilevante.

Si deve aggiungere che la ratio del principio di riserva di legge in materia penale è di stampo garantista, serve a riservare la scelta di incriminazione, per la sua significativa potenzialità negativa, al Parlamento.

Il dubbio che sorge, a questo punto, è se il tema della modifica o dell’abrogazione della preclusione di cui all’art. 4-bis comma 1 ord. penit., non sia una scelta di politica criminale che necessiti di una legge parlamentare, frutto di quella dialettica democratica tra maggioranza e minoranza13.

Il legislatore ha introdotto la norma con il d.l. 13 maggio 1991, n. 152, poi modificata a seguito degli omicidi Falcone e Borsellino, con la L. 7 agosto 1992, n. 356. La disposizione rappresentava sicuramente la risposta dello Stato ai fenomeni criminali ed emergenziali di quegli anni, ma oggi riveste il ruolo di principale strumento alla lotta alla mafia14.

I profili di incostituzionalità permangono e sono evidenti, ma ci si chiede se non fosse anche in questo caso, opportuno, come è già avvenuto di recente nella nota vicenda Cappato, adottare lo strumento dell’incostituzionalità differita affidando “i delicati bilanciamenti al Parlamento, essendo il compito

naturale di questa Corte quello di verificare la compatibilità di scelte già compiute dal legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità politica, con i limiti dettati dalle esigenze di rispetto dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali delle persone coinvolte”15.

Si auspica, in questa occasione, che l’eventuale deferenza della Corte Costituzionale nei confronti del Parlamento, a differenza del precedente già richiamato, sia effettivamente sfruttata.

12Si tenga conto del valore vincolante delle sentenze CEDU nel nostro ordinamento. Sul tema gli ultimi arresti giurisprudenziali della Corte costituzionale (sentenza n. 49 del 2015) e della Corte di Strasburgo (caso G.I.E.M. srl e altri c. Italia) sembrano far emergere un attrito.

13F. PALAZZO, Fatti e buone intenzioni. A proposito della riforma delle sanzioni penali, in

Dir. pen. cont., 10 febbraio 2014, p. 1 ss.

14V. GREVI, Verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze

di difesa sociale ed incentivi alla collaborazione con la giustizia, in L’ordinamento penitenziario tra riforma ed emergenza, a cura di V. GREVI, Cedam, Padova, 1994, p. ss.

O UN’ANACRONISTICA, CRUDELE ED ABNORME

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