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Nella interlocuzione con la Corte EDU, il governo italiano aveva

SPES, ULTIMA DEA di MARIABRUCALE*

2. Nella interlocuzione con la Corte EDU, il governo italiano aveva

affermato che lo Stato assolve ai suoi obblighi positivi di offrire, a tutte le persone ristrette, concrete opportunità di reinserimento attraverso il sostegno di interessi culturali, umani e professionali, la rimozione degli ostacoli allo sviluppo personale e la promozione della risocializzazione.

La Corte EDU ha, infatti, ribadito nella sentenza 'Viola c. Italia' (par. 113) il principio secondo cui le autorità nazionali devono consentire ai detenuti condannati all’ergastolo una reale possibilità di essere reintegrati (Harakchiev e Tolumov c. Bulgaria, 15018/11 e 61199/12, § 264, Corte EDU 2014 (estratti).

Tale possibilità, all'evidenza, si esprime attraverso l'offerta trattamentale e, in concreto, attraverso la proposta di attività di formazione e di reintegrazione, l'accesso allo studio e al lavoro, l'incentivazione e la promozione delle relazioni familiari e affettive. Lo scopo ultimo della carcerazione è, infatti, sempre la restituzione alla vita libera che, naturalmente, non deve confliggere con l'interesse sociale alla sicurezza.

E, tuttavia, esiste una norma, l'art. 41 bis, co. II O.P., che determina la sospensione del trattamento penitenziario per un tempo indeterminato.

Le limitazioni del trattamento intramurario, la sospensione delle opportunità offerte dal carcere per una progressione graduale verso il reinserimento nella società sono ammissibili solo se finalizzate in concreto al controllo ed alla prevenzione del crimine. È, invece, prassi ormai consolidata la proroga automatica della soggezione al regime detentivo derogatorio. Numerosi sono i detenuti in regime afflittivo da oltre venti anni. Alcuni sono ristretti senza soluzione di continuità nelle sezioni speciali fin dal 1992, anno di entrata in vigore dello speciale regime carcerario, sottratti per un quarto di secolo, per un tempo idoneo in astratto ad accedere alla liberazione condizionale, ad una

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carcerazione costituzionalmente orientata al reinserimento ed alla rieducazione, in palese violazione dell'art. 27 della Costituzione.

Nella sentenza 'Viola c. Italia'(par.125), la Corte ritiene che la personalità di un condannato non rimane la stessa dal momento in cui il reato è stato commesso. Può evolversi durante la fase di esecuzione della pena proprio grazie alla funzione della risocializzazione, che consente all'individuo di rivedere criticamente il suo percorso criminale e ricostruire la sua personalità. Chiarisce (par. 128) come l'equivalenza della mancanza di collaborazione ad una presunzione assoluta di pericolosità sociale consente soltanto una valutazione della persona interessata al momento in cui i reati sono stati commessi, invece di prendere in considerazione il processo di reinserimento e qualsiasi progresso compiuto dopo la condanna.

Valuta, insomma, come plausibili e meritevoli di accertamento finalizzato alla restituzione in società il pentimento laico, il ravvedimento e il compimento di una emenda esuli da scelte collaborative.

Se così è, tuttavia, la diuturna applicazione del regime di cui all'art. 41 bis O.P. appare in violazione della CEDU (oltre che dell'art. 27 Cost.) per due ordini di motivi.

Viola l'art. 3: è trattamento inumano e degradante perché non offre al detenuto strumenti risocializzanti; viola l'art. 6: il processo di verifica del permanere della pericolosità soggettiva non può essere 'giusto' perché al recluso è sottratta qualsivoglia possibilità di manifestare, attraverso il godimento dell'offerta rieducativa, il proprio ravvedimento, diversa dalla collaborazione con la giustizia.

La assenza di strumenti trattamentali: opportunità di lavoro contratte al minimo; diritto allo studio fortemente ridotto dall'impossibilità di lezioni in presenza, dell'aiuto di tutor, dell'acquisto dei libri di testo se non per mezzo della amministrazione penitenziaria; cesura pressoché totale dei rapporti con la famiglia in ragione della reclusione in zone lontane da quelle di origine con le conseguenti spese via via meno sostenibili per i congiunti, del vetro divisore, dei traumi imposti ai figli minori(prima dei dodici anni accompagnati dall'altra parte del vetro divisore da un agente mentre i familiari vengono allontanati; dopo i dodici anni privati per sempre dell'abbraccio del genitore ristretto), censura della corrispondenza in entrata e in uscita, comporta per il detenuto in 41 bis l'incapacità di costruire una immagine di sé diversa dal reato che ha commesso e per cui ha fatto ingresso in carcere che possa essere valutata dal magistrato di sorveglianza.

Le informative che, ogni biennio, corredano il decreto ministeriale di rinnovo del regime differenziato, peraltro, non sono mai aggiornate e si limitano a riprodurre la biografia delinquenziale del recluso e ad esprimere un immanente giudizio di pericolosità ed alla affermazione astratta e non correlata alla posizione soggettiva del proposto che il fenomeno delinquenziale (mafia, 'ndrangheta, camorra) permea ancora il suo territorio di origine di modo che

qualunque agire positivo il detenuto ponga in essere è reso inutile dalla apodittica constatazione che la mafia ancora c'è, esiste.

In sostanza, lo Stato italiano non assolve ai suoi obblighi positivi di offrire, a tutte le persone ristrette, concrete opportunità di reinserimento attraverso il sostegno di interessi culturali, umani e professionali. Al detenuto è precluso conoscere quale condotta adottare, quale via seguire, per essere allocato in un circuito detentivo che gli consenta di accedere al trattamento ed alla rieducazione.

La collaborazione con la giustizia permane quale unica via anche per accedere all'ordinario regime carcerario, dunque, al trattamento penitenziario e alla speranza.

Anche la Corte di Cassazione ha, peraltro, chiarito come "la previsione di

modalità trattamentali differenziate in funzione del circuito penitenziario di assegnazione finisca per incidere significativamente (con conseguente configurazione anche della gravità del pregiudizio) con il diritto del detenuto ad una offerta trattamentale individualizzata, finalizzata al suo reinserimento sociale, in un quadro di interventi conformi al principio di umanizzazione della pena, anche alla stregua del parametro costituzionale dell'art. 27 Cost.." (Cass.

Sez. I, sent. n. 16911 del 20.04.2018).

Con la medesima pronuncia, la Suprema Corte ha anche specificato come le norme di cui agli artt. 13; 14 O.P.; 32 Reg. Esec., se conferiscono all'amministrazione penitenziaria il potere di differenziare vari circuiti penitenziari in ragione di esigenze di sicurezza, allo stesso tempo, però, configurano ogni regime differenziato quale eccezione rispetto alla regola che dovrebbe essere quella di garantire a tutti i ristretti eguali opportunità risocializzanti.

Da ciò la Suprema Corte trae la logica conseguenza che la soggezione a circuiti più restrittivi debba essere mantenuta per tempi limitati e sia, in ogni caso, coerente e proporzionata agli obiettivi per cui è stata stabilita. Ne deriva la necessità di una revisione a cadenze regolari durante la detenzione.

Il detenuto gode, dunque, di un "generale diritto ad un trattamento

penitenziario non differenziato" (Cass. Sez. I, sent. n. 16911 del 20.04.2018,

pag. 6), un diritto soggettivo in virtù del quale è dato alla persona privata della libertà, di agire con lo strumento del reclamo giurisdizionale ove la prolungata soggezione a un circuito diversificato rischi di tradursi in un pregiudizio stante la sottrazione di una offerta trattamentale individualizzata e finalizzata al reinserimento del condannato.

La Corte Costituzionale ha, peraltro, nel tempo, riaffermato la piena operatività del principio della "non regressione trattamentale incolpevole in ambito penitenziario" (Corte Cost. sent. n. 445 del 1997 e n. 137 del 1999 e da ultimo sentenza n. 257 del 2006 e n. 79 del 2007).

Tra il dire e il fare, tuttavia, c'è un problema difficilmente superabile: attualizzare le informative che provengono dagli Organi di controllo, troppo spesso mera riproposizione della storia giudiziaria del detenuto, dunque, ormai

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vetuste, e renderle coerenti al percorso di superamento di logiche criminali e di adesione a modelli comportamentali positivi, compiuto dalla persona ristretta all'interno degli istituti di pena.

Accade assai spesso, purtroppo, proprio per i reati di cui all'art. 4 bis O.P. relativi ad associazioni delinquenziali, che un detenuto abbia rescisso ogni legame con la criminalità organizzata e, al di là delle contestazioni di reato tradottesi nelle condanne in esecuzione, non abbia più posto in essere alcuna condotta inalveabile in ambiti criminali e, tuttavia, venga descritto dalle relazioni provenienti dalle Procure competenti, come un 'soggetto pericoloso' in virtù della considerazione quanto mai astratta circa 'l'impossibilità di escludere' suoi collegamenti con contesti deviati.

Ciò si traduce nella menomazione di un diritto soggettivo maturato nel tempo a progredire nel percorso trattamentale in coerenza con gli scopi della pena secondo Costituzione riconosciuti, peraltro, anche da una circolare DAP, la n. 157181 del 2015. La stessa, infatti, raccomanda alle Direzioni degli Istituti di pena, di dare impulso alle procedure di declassificazione per i detenuti che si trovino da lungo tempo nel circuito AS, "soprattutto in costanza di un'adesione

a programmi di trattamento avanzati".

Il diniego di declassificazione si traduce, pertanto, in una forzata interruzione della tensione al reinserimento in società, in una vanificazione dell'impegno profuso nel recupero di sé e, in ultima analisi, in una violazione dei canoni convenzionali (e costituzionali) cui è ancorata la sanzione penale.

L’INSOSTENIBILITÀ DELLE PRESUNZIONI ASSOLUTE

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