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La questione di legittimità costituzionale trasmessa alla Consulta dalla

SPES, ULTIMA DEA di MARIABRUCALE*

1. La questione di legittimità costituzionale trasmessa alla Consulta dalla

Prima Sezione della Corte di Cassazione riguarda l'art. 4 bis O.P. "nella parte in

cui esclude che il condannato all'ergastolo per reati commessi con le modalità di cui all'art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare le associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio".

La verifica richiesta, come formulata, lascia fuori dalla prognosi di incostituzionalità i reati di cui all'art. 416 bis c.p., così vanificando la tenuta logica del ragionamento che vuole sempre esclusi, giacché incompatibili con l'art. 27 comma tre della Costituzione, gli automatismi valutativi che privino di senso il percorso trattamentale compiuto dal detenuto a prescindere dal tipo di reato o dal tipo di autore.

L'ordinanza di rimessione ha il pregio di rimarcare in astratto i principi della progressività trattamentale e della flessibilità della pena radicati nell'art. 27 Cost., nonché di escludere che la rescissione del ristretto dai vincoli associativi possa essere dimostrata soltanto attraverso la collaborazione con la giustizia e, tuttavia, appare prestare il fianco a limiti applicativi.

L'ordinanza delinea una diversificazione tra la natura del permesso premio e quella delle misure alternative alla detenzione giacché il primo soltanto, parte essenziale del trattamento, avrebbe una connotazione di contingenza e sarebbe parte del trattamento del quale costituirebbe momento essenziale, e, diversamente dalle misure alternative, non modificherebbe le condizioni restrittive del condannato. Secondo la Suprema Corte, i permessi premio, tesi alla realizzazione di una finalità immediata, strumento di soddisfazione di esigenze anche molto limitate, pur non rientranti tra le previsioni del permesso di necessità, si prestano, per tale peculiare funzione, a offrire uno sguardo di

prospettiva differente dalla collaborazione con la giustizia che consenta, in difetto di questa, di pervenire ad escludere collegamenti con la criminalità organizzata ovvero a valorizzare significative manifestazioni di distacco.

Tale ragionamento tende certamente ad aprire una falla nel meccanismo abominevole dei reati ostativi e, tuttavia, si palesa insufficiente laddove esclude espressamente quei momenti trattamentali successivi alla concessione del permesso (le misure alternative al carcere) che costituiscono il naturale evolversi di quello che il Legislatore ha individuato come il primo momento di un percorso di reinserimento in società di talché, superata l'inammissibilità del permesso ex art. 4 bis O.P., goduto tale beneficio, il condannato troverebbe ancora davanti a sé lo sbarramento del reato ostativo.

Ancora, il ragionamento appare scollato dal dato normativo che, nell'includere il permesso premio tra i benefici espressamente esclusi per i condannati per i reati ex art. 4 bis O.P., ha dato vita a un'ipotesi di lex specialis con carattere derogatorio che assimila il permesso alle misure alternative ponendo una presunzione legale in virtù della quale, in assenza di collaborazione con la giustizia (ovvero di collaborazione inutile o inesigibile), esclude non solo il ravvedimento del reo prospettando una prognosi non recidivante, ma anche la buona condotta intramuraria in astratto sufficiente per l'ammissione al beneficio ex art. 30 ter O.P.

Infine, la formulazione della ordinanza di rimessione lascia temere un problema di rilevanza della questione prospettata laddove, come nel caso in esame, ricorrente sia persona che sta espiando un cumulo di pene nell'alveo del quale sia racchiuso il reato ex art. 416 bis c.p.

In difetto di un provvedimento di scioglimento del cumulo, infatti, la Corte Costituzionale potrebbe fermarsi a costatare che non rientri nei suoi poteri verificare se sia stata già espiata la porzione di pena inflitta al condannato per il reato associativo e ravvisare, dunque, l'irrilevanza della questione, ossia l'impossibilità, allo stato, di incidere nel giudizio a quo.

La questione 'Pavone', sollevata dal Tribunale di Perugia, investe, invece, l'art. 4 bis nella sua interezza laddove prevede meccanismi di esclusione che -ancorati unicamente ed astrattamente al tipo di autore ovvero al titolo di reato in espiazione - precludono alla Magistratura di Sorveglianza di esercitare il suo alto compito di verifica del percorso trattamentale dell'individuo ristretto e di formulare una prognosi avveduta - corredata dalle informazioni dell'equipe intramuraria e degli Organi di controllo - sulla possibilità di reintegrare la persona detenuta in società; sviliscono il ravvedimento autentico e compiuto del recluso, palesato attraverso comportamenti concreti e prese di posizione esplicite di definitivo distacco da qualsiasi meccanismo sodale se non accompagnato dalla collaborazione con la giustizia; negano l'accesso al 'diritto

alla speranza' (Right to hope - Vinter c/Regno Unito) a chi, pur ravveduto, non

abbia offerto una collaborazione utile con la giustizia.

Il pentimento di chi ha trascorso anni di carcerazione ripercorrendo il proprio vissuto in modo autenticamente critico, di chi ha riconosciuto il proprio

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errore e ne ha fatto occasione struggente di rimorso, quello, con l’ergastolo ostativo, non conta nulla.

“In vigilando, redimere”, era l'antico motto degli agenti di custodia. Ma a

che serve vigilare se non ha senso redimere?

La dignità dell’uomo, cui aspira l'intero tessuto costituzionale, viene completamente annichilita perché non si può neppure immaginare un concetto di dignità che sia coerente con lo spegnimento di ogni aspettativa futura e di ogni ideazione o progettualità.

La soppressione dell’idea stessa del domani e delle proiezioni in divenire delle proprie azioni, priva l’uomo della sua stessa natura.

E proprio di dignità parla la pronuncia della Prima Sezione della Corte EDU, 'Viola c. Italia', del 13 giugno 2019, oggi definitiva, chiarendo che "è nel

cuore del sistema istituito dalla Convenzione e impedisce la privazione della libertà di una persona con la coercizione senza allo stesso tempo lavorare per reintegrarla e per fornirle una possibilità di recuperare questa libertà un giorno".

La pronuncia fa eco alla Corte Costituzionale che con la sentenza n. 149/2018 aveva chiarito che “incompatibili con il vigente assetto costituzionale

sono previsioni che precludano in modo assoluto, per un arco temporale assai esteso l’accesso ai benefici penitenziari a particolari categorie di condannati -i qual-i pure abb-iano partec-ipato -in modo s-ign-if-icat-ivo al percorso d-i rieducazione e rispetto ai quali non sussistano gli indici di perdurante pericolosità sociale individuati dallo stesso legislatore nell’art. 4 bis o.p.- in ragione soltanto della particolare gravità del reato commesso, ovvero dell’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalità dei consociati. Questi ultimi criteri (…) non possono, nella fase di esecuzione della pena, operare in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena”.

L'ordinanza del Tribunale di Perugia ha anche il merito di evidenziare che l'aspetto punitivo e retributivo connaturato alla carcerazione deve essere connotato, sempre, da una attesa di recupero e di reintegrazione nel tessuto sociale che rende indefettibile la necessità che la persona ristretta mantenga il più possibile inalterati i contenuti relazionali della sua vita da libero: i rapporti con i suoi familiari e la vicinanza con i suoi affetti; la possibilità di lavorare e di essere remunerati in modo da essere per i familiari non un peso ma ancora una risorsa.

In tale ottica, il superamento dello sbarramento normativo dell'art. 4 bis O.P. non può limitarsi alla concessione dei permessi premio. Tale restrizione comporterebbe un cortocircuito logico ed una incongruenza insuperabile nel sistema ordinamentale che ammetterebbe ex ante una interruzione del percorso trattamentale del ristretto proprio quando ha goduto del primo momento di ritorno alla vita libera e gli è stata offerta la prima opportunità per manifestare all'esterno la propria idoneità a riprendere le fila della vita interrotta con la carcerazione.

Il permesso è, infatti, solo un segmento, il primo, di un percorso di ricostruzione del sé libero e “sociale” cui deve coerentemente seguire progressivamente un'apertura via via più ampia di opportunità di reintegrazione e di restituzione.

La pronuncia 'Viola c. Italia', d'altronde, censura una sanzione che sia mutilazione definitiva di vita senza aspirazione di reinserimento e di riabilitazione, che neghi il senso della buona condotta in carcere, della pedissequa adesione alle regole del vivere sociale, al cambiamento, che precluda, in ultima analisi, una concreta prospettiva di ritorno pieno alla libertà

(prospect of release o possibility of review) e chiede all'Italia (par. 43) di

introdurre, preferibilmente per iniziativa legislativa, una riforma del regime dell'ergastolo che preveda la possibilità di un riesame di pena che consenta alle autorità di determinare se, durante l'esecuzione, il detenuto si è evoluto così tanto e ha progredito sul sentiero dell'emendamento che nessuna ragione legittima di ordine penologico giustifichi ancora la sua detenzione.

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