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IL DIALOGO TRA LE CORTI SULL’ERGASTOLO OSTATIVO: UN’OPPORTUNITÀ PER IL GIUDICE DELLE LEGGI

di M

ARTA

M

ENGOZZI

*

SOMMARIO: 1. La sentenza della Corte EDU sul caso Viola: opportunità e rischi per la Corte costituzionale. – 2. Una considerazione sul piano del diritto costituzionale: il rischio di strumentalizzazione del singolo per fini di politica criminale.

1. Mi limito a due brevi considerazioni: una relativa al rapporto delle

questioni che giungono davanti alla Corte costituzionale con la recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla stessa materia; e un’altra, invece, formulata esclusivamente in una prospettiva di diritto nazionale.

Quanto al primo profilo, occorre riconoscere che la vicenda dell’ergastolo ostativo costituirà inevitabilmente un nuovo importante capitolo di quel dialogo tra le Corti che è uno dei tratti più interessanti e caratteristici del costituzionalismo contemporaneo, poiché la decisione della Consulta sulle due questioni oggetto del seminario non può prescindere dal contenuto della sentenza della Corte EDU, I Sezione, sul caso Viola c. Italia (n. 2), emessa il 13 giugno 2019 (e divenuta definitiva il successivo 7 ottobre, a seguito della pronuncia del collegio di cinque giudici della Grande Camera che ha respinto la richiesta di rinvio formulata dal governo italiano ai sensi dell’art. 43 CEDU).

Nonostante le differenze che caratterizzano i diversi giudizi, l’argomento centrale posto all’attenzione del giudice costituzionale e di quello internazionale è il medesimo: quello della legittimità – sotto il profilo costituzionale, in un caso, e convenzionale, nell’altro – della scelta, fatta nell’art. 4-bis ord. pen., di assumere la mancata collaborazione con la giustizia da parte del condannato come indice presuntivo insuperabile dell’assenza di un percorso di revisione critica, tale da impedire qualsiasi forma di risocializzazione mediante l’accesso ai c.d. benefici penitenziari, anche nel caso di persone che abbiano scontato molti anni di pena carceraria e ferme restando tutte le altre valutazioni di competenza della magistratura di sorveglianza1.

Tuttavia, il rapporto tra la decisione affidata alla Consulta e quella del giudice internazionale assume caratteri piuttosto complessi in ragione di diverse peculiarità, che vanno in direzioni non tutte convergenti.

Da un lato, infatti, la sentenza Viola riguarda specificamente il nostro Paese ed è stata presa in relazione a un caso concreto che non è dotato di specificità particolari rispetto a quelli da cui originano le questioni di legittimità costituzionale; anzi, ha espressamente indicato l’esistenza in Italia di un problema strutturale cui è legata la violazione convenzionale e ha segnalato l’esigenza di un suo superamento, assumendo il carattere di decisione “quasi pilota” (e non quello di una sentenza pilota a tutti gli effetti solo perché i molteplici casi analoghi che la Corte EDU potrebbe trovarsi a giudicare sono indicati come soprattutto potenziali). Infine, essa deve considerarsi espressiva di un “orientamento consolidato”, se si considera che il rigetto della richiesta di rinvio da parte del collegio di cinque giudici della Grande Camera significa che il caso è stato considerato tale da non sollevare gravi problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione, ponendosi in linea con una giurisprudenza precedente priva di particolari incertezze o incoerenze2. Per cui non sembra darsi alcuno di quei casi che, in passato, hanno giustificato, in alcune controverse decisioni, il discostamento da parte della Corte interna rispetto agli orientamenti espressi dal giudice di Strasburgo3.

Dall’altro lato, però, vi è un dato formale di non poco conto. Il parametro dell’art. 117, comma 1, Cost. non è stato evocato dai remittenti, in nessuna delle

1 La sostanziale identità delle questioni giuridiche che vengono in rilievo è dimostrata dalla consonanza tra le considerazioni che motivano le ordinanze di remissione e quelle svolte nella sentenza Viola. Cfr., in particolare: par. 4 del considerato in diritto dell’ord. Corte Cass., del 20.12.2018 sul caso Cannizzaro e quella analoghe contenute nell’ord. del Tribunale di Sorveglianza di Perugia del 28.5.2019; e, nella sentenza della Corte EDU, soprattutto i §§116-121 e i §§125-131.

2In effetti, gli orientamenti della Corte EDU in materia si sono stabilizzati da alcuni anni, dopo la svolta impressa dalla sentenza della Grande Camera nel caso Vinter e altri c. Regno

Unito, del 2013. I relativi principi sono stati, infatti, poi ripresi in diverse occasioni: sia nella

sentenza Murray c. Paesi Bassi, del 2016, anch’essa assunta dalla Grande Camera, sia in diverse altre decisioni di sezioni semplici (v., ad esempio: sez. IV, Trabelsi c. Belgio, del 2014; sez. II, Lázló Magyar c. Ungheria, del 2014, sez. IV, T.P. e A.T. c. Ungheria, del 2016). Vi è stata, invero, una “battuta di arresto” nell’ambito di tale filone, con il caso, deciso ancora una volta dalla Grande Camera, Hutchinson c. Regno Unito, nel 2017. Ma i giudici del panel della Grande Camera nel caso Viola hanno inteso evidentemente considerare questa singola decisione – con una valutazione che appare del tutto condivisibile – come un caso isolato che, nell’ambito di una giurisprudenza coerente e univoca, non è idoneo a creare un’effettiva incertezza sulla interpretazione ormai affermatasi dell’art. 3 CEDU con riferimento al tema della pena perpetua senza possibilità di liberazione anticipata.

3 La Corte costituzionale ha in talune occasioni ridimensionato i vincoli discendenti da decisioni della Corte EDU facendo riferimento, di volta in volta, alle peculiarità della vicenda concreta all’esame del giudice internazionale (v., ad esempio, Corte Cost., 236 del 2011); o alla dottrina del “margine di apprezzamento” e alla necessità di bilanciamento con altre posizioni giuridiche di tango costituzionale (v., ad esempio, Cost. Cost., sentt. n. 311 e 317 del 2007; e n. 246 del 2012); o, ancora, al carattere “non consolidato” dell’orientamento della Corte EDU (sent. n. 94 del 2015).

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due ordinanze che vengono all’esame della Consulta, entrambe precedenti alla sentenza Viola. Il riferimento agli orientamenti convenzionali sul tema della pena perpetua alleggia, in qualche modo, nelle argomentazioni dei giudici a

quibus, che citano entrambi i principi espressi nella sentenza Vinter della Corte

EDU de 20134, ma formalmente la contestazione rispetto alla violazione degli obblighi internazionali, con riferimento all’art. 3 CEDU, non è stata mossa.

Così, il rilievo della sentenza Viola fuoriesce dal perimetro del giudizio della Corte costituzionale.

Ciò, tuttavia, non significa che essa non possa (e non debba) avere un peso nell’ambito di una relazione di cooperazione tra Corti nella tutela dei diritti, che si muova nella direzione di una convergenza più ampia possibile degli orientamenti interpretativi.

In qualche modo, anzi, la Corte costituzionale si trova davanti un’importante opportunità, poiché le circostanze le offrono l’occasione di ribadire e rinforzare la priorità della tutela offerta dalla Carta costituzionale italiana in tale delicato settore, mostrando come questa garantisca un livello di protezione dell’individuo non inferiore a quello internazionale.

Le argomentazioni del giudice europeo non devono, dunque, entrare nel giudizio costituzionale attraverso il riferimento agli obblighi internazionali, di cui al primo comma dell’art. 117 Cost., quasi fossero un corpo estraneo, ma possono essere “metabolizzate” e utilizzate per rimeditare quegli orientamenti interpretativi delle norme costituzionali, che in occasioni precedenti avevano condotto a conclusioni di diverso segno, come nella ormai non recente e più volte evocata sentenza Corte Cost., n. 135 del 2003.

Un processo di dialogo a distanza non dissimile a quello che ha talora avuto luogo, determinando una sorta di “circolo virtuoso”5, già prima che le sentenze gemelle (nn. 348 e 349 del 2007) riconoscessero formalmente le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea istituita ad hoc, quale parametro integrativo di legittimità costituzionale6.

Del resto, a sconsigliare un atteggiamento di contrapposizione concorrono anche ragioni di ordine più pragmatico.

Se, infatti, la Corte dovesse decidere di rigettare le questioni di legittimità costituzionale, essa contribuirebbe a mantenere lo Stato in una situazione di illecito internazionale per violazione dei diritti dell’uomo. Renderebbe, poi, certamente molto più arduo quel percorso di adeguamento che la Corte internazionale ha richiesto al nostro ordinamento, indicando come necessaria una riforma del regime dell’ostatività “preferibilmente” per iniziativa legislativa. Se l’opzione a favore di interventi di questo tipo è senz’altro condivisibile, le tendenze espresse dalle scelte parlamentari più recenti – rispetto alle quali da più parti si è parlato di “populismo penale” – sembrano muoversi in una

4Già citata alla nota 2 come il precedente della Corte EDU più significativo in materia.

5Così S. PANUNZIO, I diritti fondamentali e le Corti in Europa, in ID. (a cura di), I diritti

fondamentali e le Corti in Europa, Jovene, Napoli 2005, 94.

direzione opposta, e non lasciano certo presagire un atteggiamento di solerte conformazione alle indicazioni provenienti dalla Corte EDU.

Per cui, una decisione di non accoglimento segnerebbe un momento di grave difficoltà nei rapporti con il sistema convenzionale, potendosi facilmente prevedere una moltitudine di ricorsi risarcitori davanti al giudice internazionale e un successivo ritorno della questione davanti alla Corte costituzionale con più puntuale riferimento al parametro oggi formalmente mancante, per chiamarla ancora una volta a supplire all’inerzia del legislatore.

Viceversa, il possibile ricorso da parte del nostro giudice delle leggi all’istituto dell’illegittimità consequenziale per espungere il meccanismo dell’ostatività rispetto non solo al permesso premio (come richiesto dalle ordinanze dei giudici a quibus), ma anche a tutti gli altri benefici, come più volte prospettato nel corso del seminario, potrebbe in qualche modo fronteggiare (e risolvere) fin d’ora il problema strutturale indicato dalla Corte europea.

2. Del resto, anche su un piano più strettamente legato al diritto interno,

non mancano le ragioni per ritenere necessario che la Corte torni sul suo orientamento in materia, risalente, nei termini più completi, alla citata sentenza n. 135 del 2003.

Senza ripercorrere tutti i molti e convincenti argomenti emersi nel corso del seminario e gli altri già indicati da tempo dalla dottrina che si è occupata del tema7, che si aggiungono (o, in parte, si sovrappongono) a quelli spesi nella sentenza Viola e nelle ordinanze di rimessione, mi limito a sottolineare un singolo punto.

Non soltanto non vi è niente di persuasivo, a mio avviso, in termini di ragionevolezza, nella identificazione proposta dalla Corte nel precedente sopra indicato tra la mancata collaborazione utile e l’impossibilità di riconoscere in capo al condannato un percorso di revisione critica e di dissociazione dal contesto criminale di riferimento; ma l’equiparazione compiuta dal meccanismo dell’ostatività finisce anche il porsi in rotta di collisione con alcuni risalenti e saldi insegnamenti della stessa giurisprudenza costituzionale sotto un profilo più specifico ma di grande rilievo.

Penso, in particolare, alle acquisizioni in tema di funzione della pena recate dalla storica sentenza Corte Cost., n. 313 del 1990, che resta un saldo punto di riferimento, ripreso e ribadito anche dalla giurisprudenza più recente (v., ad esempio, la sent. n. 149 del 2018; la decisione è, peraltro, citata nella stessa sentenza Viola). Oltre alle tante considerazioni che sono state già fatte, deve aggiungersi che il meccanismo sembra incarnare esattamente il rischio indicato

7Tra gli altri, v. soprattutto C. MUSUMECI- A. PUGIOTTO, Gli ergastolani senza scampo.

Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, Editoriale Scientifca, Napoli

2016; E. DOLCINI- E. FASSONE- D. GALLIANI- P. PINTO DE ALBUQUERQUE- A. PUGIOTTO, Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, Giappichelli, Torino 2019.

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in tale pronuncia: quello della strumentalizzazione dell’individuo per fini generali di politica criminale, più ancora che per quelli relativi ai bisogni collettivi di stabilità e sicurezza sociale.

Sono, infatti, evidenti gli obiettivi di carattere investigativo che sostengono la scelta, rivelati anche dalla possibilità per i condannati per i reati ostativi di accedere ai benefici prescindendo dalla collaborazione quando questa, in qualche modo, “non serva”; nel caso, cioè, in cui vi sia già stato l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità. In qualche modo, ciò significa che la collaborazione è considerata criterio legale di valutazione del percorso personale del condannato (e, quindi, condizione imprescindibile per l’accesso ai benefici) solo quando lo Stato con le sue sole forze non sia già riuscito a fare integralmente luce sui fatti. Con evidente ingiustificata disparità di trattamento tra chi sia stato condannato per un fatto che la magistratura è riuscita ad accertare in modo sufficientemente approfondito e chi invece sia stato condannato in un contesto dai contorni meno definiti.

In altri termini, questa previsione – introdotta per porsi in linea con le indicazioni della giurisprudenza costituzionale sul tema, ma implicante numerosi problemi (evidenziati, tra l’altro, nell’intervento di Emilio Dolcini in questo seminario) – svela oltre ogni ragionevole dubbio quella che Francesco Palazzo nella sua relazione ha definito l’anima “opportunistica” della norma, orientata a finalità politico-criminali assai più che ad indicare una presunzione assoluta di pericolosità per alcuni reati.

E, se è così, è evidente l’uso strumentale che tale meccanismo fa del singolo rispetto a tali obiettivi. Una constatazione, questa, che lo condanna all’illegittimità sotto molteplici profili: non soltanto per le considerazioni svolte dalla stessa Corte nella sentenza n. 313 del 1990 in tema di finalità della pena8, ma anche per la sua incompatibilità con il principio personalista di cui all’art. 2 Cost. che, nella sua lettura più diretta ed immediata, impedisce che l’uomo sia considerato in funzione dello Stato, indicando, piuttosto, tra i due, la relazione inversa9.

Ci si attende, dunque, dalla Corte costituzionale una sentenza che, come ha fatto a suo tempo la n. 313 del 1990, segni una coraggiosa discontinuità rispetto al passato, riaffermando la centralità della tutela offerta al singolo dalle norme costituzionali.

8Riprese anche nella recente sentenza n. 149 del 2018, ove di ribadisce “il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena”.

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