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IL DEFICIT DI RAZIONALITA’ EMPIRICA E TELEOLOGICA

di C

LAUDIA

P

ECORELLA

e M

ONICA

T

RAPANI

SOMMARIO: 1. Il deficit di razionalità empirica della presunzione assoluta di pericolosità sociale del non collaborante. – 2. Il deficit di razionalità teleologica della disposizione rispetto alle esigenze di difesa sociale. – 3. L’illegittimità del meccanismo preclusivo nel suo complesso.

1. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di

Cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia hanno ad oggetto il primo comma dell’art. 4-bis o.p., che preclude al condannato all’ergastolo, per uno dei delitti in esso indicati, l’accesso a qualunque beneficio penitenziario o misura alternativa, inclusa la liberazione condizionale, qualora non collabori con l’autorità giudiziaria e non si trovi nella condizione di poter invocare l’impossibilità o l’inesigibilità di tale collaborazione. L’unico beneficio conseguibile, da chi si trova sottoposto a questo regime ‘ostativo’, è la liberazione anticipata, che consente di ridurre la durata della pena da scontare, ma di per sé non comporta alcun ‘assaggio’ di libertà per il condannato.

Al di là delle diverse situazioni considerate nelle ordinanze di rimessione (il fatto di essere un mero concorrente esterno dell’associazione criminale o un suo partecipe), così come dello specifico beneficio di cui si chiedeva la concessione nel caso concreto (il permesso premio), il dubbio sulla razionalità di quel meccanismo preclusivo è sorto di fronte a persone condannate all’ergastolo che, pur non avendo collaborato con la giustizia, nel corso della loro lunga detenzione hanno intrapreso un proficuo percorso trattamentale, propedeutico (di regola) a un loro graduale reinserimento nel contesto sociale. Situazioni di questo tipo – soprattutto, ma non esclusivamente, di condannati alla pena dell’ergastolo -, nelle quali l’art. 4-bis, comma 1, o.p. impedisce il riconoscimento dei progressi compiuti sul piano rieducativo, sono oggi tutt’altro che rare e fonte di dichiarato disagio per operatori penitenziari e magistrati di sorveglianza.

Ordinario di Diritto penale, Università di Milano Bicocca

L’art. 4-bis comma 1 alla prova dei fatti 143

La realtà dei fatti rende dunque manifesta l’irragionevolezza della pretesa di assumere la collaborazione come prova indefettibile della ‘rieducazione’ del condannato e al contempo smentisce la premessa, sulla cui base la Corte costituzionale ha dichiarato in passato legittima questa disciplina (Corte cost. 135/2003), che la mancata collaborazione – ove questa sia esigibile – sia sempre frutto di una “libera” scelta del condannato, se con tale espressione ci si riferisce a una scelta che coinvolge, nel bene e nel male, solo colui che è chiamato a farla.

Se davvero la ragione della mancata collaborazione – rectius, di tutte le mancate collaborazioni - risiedesse nel fatto di voler salvaguardare la propria appartenenza al consorzio criminale piuttosto che aderire alle leggi (e ai valori) dello Stato, non potremmo trovarci di fronte a persone detenute in regime ostativo, e non collaboranti, i cui progressi sul piano della rieducazione vengono attestati e documentati dagli operatori penitenziari, ma anche dai magistrati di sorveglianza quando decidono di accogliere un’istanza di collaborazione impossibile o inesigibile sulla sola base del materiale giurisprudenziale disponibile, e contestualmente concedono un beneficio penitenziario o una misura alternativa. La preferenza accordata al gruppo criminale, piuttosto che allo Stato, sarebbe evidentemente colta già dal Gruppo di Osservazione e Trattamento dell’istituto di reclusione – che più di chiunque altro si relaziona quotidianamente con il detenuto – come ostacolo insormontabile nell’opera rieducativa o come verosimile causa del suo fallimento: difficilmente si arriverebbe a dichiarare, in questi casi, che il condannato ha effettuato una “rivisitazione del suo passato criminale” o addirittura ha raggiunto un “sicuro ravvedimento” in vista del possibile conseguimento della liberazione condizionale.

Lo scollamento dalla realtà (dall’id quod plerumque accidit nel linguaggio della Corte) delle motivazioni teoriche addotte, dal legislatore prima e dalla stessa Corte costituzionale poi, a sostegno della compatibilità del regime ostativo dell’art. 4-bis primo comma o.p. con la finalità rieducativa della pena (anche dell’ergastolo) è oggi sottoposto al vaglio della Corte costituzionale, con la quale diverse autorità giudiziarie hanno finalmente voluto condividere il loro disagio nell’applicazione di questa rigorosa e ingiustificata disciplina. Un disagio che non può oggi non essere acuito dal riconoscimento oramai definitivo, da parte della Corte EDU, della intrinseca irrazionalità della pretesa equivalenza tra assenza di collaborazione e persistenza di pericolosità sociale del condannato, dalla quale deriva una pena dell’ergastolo davvero ‘senza scampo’, in contrasto con l’art. 3 CEDU (sentenza Viola c. Italia).

2. Vi è tuttavia anche un diverso profilo, altrettanto (se non ancora più)

rilevante per cogliere l’irragionevolezza e dunque l’illegittimità costituzionale del meccanismo preclusivo contemplato nel primo comma dell’art. 4-bis o.p.: quello della irrazionalità del mezzo impiegato (la sensibile compressione della

funzione rieducativa della pena) rispetto allo scopo perseguito (la difesa della società dalla criminalità organizzata, attraverso la collaborazione dei

condannati).

Com’è noto, infatti, l’art. 4-bis o.p. ha subito un capovolgimento di prospettiva nel corso del tempo. Nella versione introdotta con il d.l. 13 novembre 1990 n. 324, la collaborazione con la giustizia rispondeva a una logica premiale, in quanto permetteva ai condannati per reati di criminalità organizzata di sottrarsi al più lungo tempo di espiazione della pena per essi contestualmente previsto per poter accedere ai benefici penitenziari; in assenza di collaborazione, la ‘neutralizzazione’ del condannato era dunque assicurata per un tempo più lungo di quello ordinario, senza tuttavia che ciò pregiudicasse integralmente le prospettive della sua risocializzazione.

Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, il d.l. 8 giugno 1992 n. 306 ha cambiato radicalmente la fisionomia dell’art. 4 bis o.p., dando luogo al regime ostativo che oggi conosciamo. Il Ministro proponente, Claudio Martelli, vedeva nell’onere collaborativo “l’arma più efficace (...) per contrastare la criminalità

organizzata", atteso che "praticamente tutti i processi che hanno ottenuto qualche risultato (...) sono stati fondati (...) sulla collaborazione di ex appartenenti alle associazioni di stampo mafioso”1. E benché nella relazione alla legge di conversione del decreto-legge si sostenesse che la scelta collaborativa fosse l’unica a poter esprimere con certezza la volontà di emenda del reo, attribuendole così una valenza pure sul piano della rieducazione del condannato, era ed è tuttora evidente che la modifica introdotta con il d.l. 306 del 1992 è stata “essenzialmente espressione di una scelta di politica criminale,

e non penitenziaria”, attribuendosi preminenza ad “obiettivi di prevenzione generale e di difesa sociale” (C. cost. 306/1993) a scapito della finalità

rieducativa della pena, E se è vero che il legislatore può “far tendenzialmente

prevalere, di volta in volta, l'una o l'altra finalità della pena”, ciò può fare solo “nei limiti della ragionevolezza” oltreché a condizione “che nessuna di [quelle finalità] ne risulti obliterata” (ancora C. cost. 306/1993).

Orbene, si può seriamente dubitare che il regime ostativo delineato nel primo comma dell’art. 4-bis o.p. rispetti davvero quei limiti: alla “rilevante

compressione della finalità rieducativa della pena” che esso comporta (usando

le parole della Corte costituzionale) non è corrisposto, nel corso di ben 27 anni di vigenza, il conseguimento della utilità sperata, non avendosi conoscenza di collaborazioni con la giustizia prestate da persone detenute che non fossero già collaboranti prima dell’inizio dell’esecuzione della pena. Come era facilmente immaginabile, la decisione di collaborare con l’autorità giudiziaria, se non è maturata nella fase processuale, nella quale consistenti sono i benefici conseguibili sul piano della sanzione che verrà poi inflitta, non sopraggiunge nella fase dell’esecuzione della pena, per quanto lunga e pesante essa possa essere.

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Al di là del fatto che “i comportamenti meritori che integrano le condotte

collaborative (…) sono in pratica evenienze rare in un momento cronologicamente distante dai fatti, nel quale è difficile immaginare che ci si possa adoperare per evitare ulteriori conseguenze dell’attività delittuosa o aiutare concretamente l’attività giudiziaria ai fini dell’accertamento” 2, l’esperienza ha infatti dimostrato che le ragioni, di qualunque tipo esse siano – e sappiamo che il timore per l’incolumità propria e dei propri familiari è quella preponderante -, che hanno trattenuto il soggetto dal collaborare nel momento in cui era più vantaggioso (durante il processo), permangono, e magari si rafforzano anche, durante l’espiazione della pena: in un tempo, in cui i rapporti con l’esterno sono rarefatti e avvolti dall’incertezza e la relazione con i familiari diventa la principale ragione di vita per il condannato. Del tutto irragionevole è stato ritenere che le motivazioni che hanno indotto l’imputato a rinunciare ai cospicui vantaggi collegati alla collaborazione con la giustizia sarebbero potute venir meno nel corso della detenzione e al solo fine di conseguire la fruizione di benefici penitenziari e/o di misure alternative alla detenzione comunque lontane nel tempo.

Anche sotto questo profilo, dunque, la realtà dei fatti ha fatto emergere un ulteriore, e verosimilmente insormontabile, deficit di razionalità (questa volta, teleologica) della disciplina introdotta nel primo comma dell’art. 4-bis o.p., della quale è necessario prendere atto a distanza di così tanti anni dalla sua introduzione.

3. Quest’ultima considerazione porta con sé una conseguenza molto

importante, perché induce a ritenere che viziato da illegittimità costituzionale sia il primo comma dell’art. 4-bis o.p. in tutta la sua portata. Nel precludere ai condannati non collaboranti tutte quelle misure o benefici extramurari che costituiscono, nella prospettiva adottata dal nostro ordinamento penitenziario, gli strumenti indispensabili del percorso di risocializzazione, la disposizione in esame pregiudica la potenzialità rieducativa di qualunque pena detentiva

debba essere scontata in carcere e non solo, quindi, della pena dell’ergastolo.

Se rispetto a quest’ultima il meccanismo preclusivo del primo comma dell’art. 4-bis o.p. incide sull’unica condizione che permette a quella pena di essere considerata compatibile con l’art. 27 comma 3 Cost., non meno grave è l’effetto che esso produce sulle pene detentive temporanee, rispetto alle quali è comunque garantita al condannato l’uscita dal carcere al termine della pena. Una pena che deve essere scontata per tutta la sua durata all’interno dell’istituto penitenziario, senza che sia possibile – stante il regime ostativo – che il condannato possa sperimentare momenti di libertà, destinati a diventare col tempo (e in caso di esito positivo) sempre più lunghi e di maggiore impegno nell’attività extramuraria. Una pena che rischia di rivelarsi completamente

2 Così F. DELLA CASA, G. GIOSTRA, Ordinamento penitenziario commentato, Wolters Kluwer, Milano, 2015, sub art. 58-ter, p. 726.

inutile per il singolo, ma anche per la società, alla quale viene ‘restituito’ un individuo, per legge presunto pericoloso perché non collaborante, e al quale non è stata offerta la possibilità di preparare il suo reinserimento sociale, in modo graduale e responsabile. Una situazione nella quale il rischio di una sua ricaduta nel reato – anche se non necessariamente dello stesso tipo di quello che lo ha originariamente portato in carcere – sembra essere elevato. Con buona pace delle esigenze di difesa sociale per le quali quel meccanismo preclusivo è stato introdotto.

In conclusione, alla prova dei fatti l’idea del legislatore del 1992 di combattere la criminalità organizzata mostrando il pugno di ferro si è dimostrata illusoria e ha sortito risultati inaccettabili sul piano dei principi costituzionali:

- una perpetuità de facto delle pene dell’ergastolo scontate in regime ostativo, pur in presenza di percorsi rieducativi che potrebbero e dovrebbero preludere al graduale reinserimento del condannato, che costituisce l’obiettivo ultimo dell’investimento di tempo e denaro che lo Stato ha effettuato per lui nella fase dell’esecuzione della pena;

- la privazione di passaggi essenziali del percorso trattamentale, quali sono quelli extramurari, per i condannati a pene medio-lunghe, che si trovano a dover affrontare il ritorno in libertà del tutto impreparati e ai quali nessun rimedio è stato offerto per contenere quegli effetti desocializzanti, che sono notoriamente propri di qualsiasi regime detentivo.

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