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Oltre a quello delineato, la Corte potrebbe però seguire anche un

UN DIALOGO POSSIBILE CON LA CORTE EDU?

IL 4-BIS ALL’ESAME DELLA CORTE COSTITUZIONALE: LE QUESTIONI SUL TAPPETO E LE POSSIBILI SOLUZIONI

2. Per andare al “cuore” del problema di costituzionalità che la Corte è

2.2. Oltre a quello delineato, la Corte potrebbe però seguire anche un

diverso percorso.

Nella nota (e più sofferta) decisione n. 306 del 1993, pronunciata poco dopo l’entrata in vigore del ricordato d.l. n. 306 del 1992, la Corte – chiamata per la prima volta a giudicare della compatibilità a Costituzione del c.d. doppio binario – prende atto che il requisito della collaborazione quale condizione per l’accesso ai benefici penitenziari «è essenzialmente espressione di una scelta di politica criminale e non penitenziaria». Osserva, quindi, che non può convenirsi con il Ministro della Giustizia che, nel presentare il decreto, aveva affermato che la scelta collaborativa è la sola ad esprimere con certezza la volontà di emenda (punto 9 cons. dir.); che, invero, tale soluzione comporta «una rilevante compressione della finalità rieducativa della pena»; in definitiva, che il requisito della collaborazione non è coerente con i principi di eguaglianza di fronte alla pena, perché «è strumento di politica criminale e non indice di colpevolezza o criterio di individualizzazione del trattamento». Di conseguenza, essa annulla la norma che disponeva la revoca dei benefici per chi non aveva collaborato, perché tale strategia non può pregiudicare un percorso rieducativo già iniziato14 (a tale conclusione non sarebbe forse potuta giungere se avesse ritenuto che la mancata collaborazione sia indice di sicuro persistente legame con la criminalità).

Riprendendo questa decisione del 1993 e valorizzando lo spirito originario della norma15, la Corte potrebbe allora ritenere che l’obbligo di collaborare con

13Il punto è evidenziato da E. FAZZIOLI, La collaborazione come presupposto necessario

per l’ammissione a benefici penitenziari: un nuovo orientamento della Corte?, in Giur. cost.

2001, 2296.

14V. Corte costituzionale, sentenze n. 504 del 1995, n. 445 del 1997, n. 137 del 1999.

15 Che l’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. nella formulazione del 1992 strumentalizzasse le misure alternative a “specifici intenti di politica criminale, fu evidenziato da A. PRESUTTI,

la giustizia sia imposto dal legislatore per ragioni di politica criminale, per favorire la sicurezza pubblica16. Così letto esso non starebbe (come le presunzioni di pericolosità sociale) “dentro” perimetro dell’art. 27 Cost., bensì “fuori” da esso, contrapponendovisi. In altre parole ancora, la collaborazione “comprimerebbe” la finalità rieducativa della pena (e, volendo, anche quella retributiva17) quale strategia di contrasto alla criminalità.

D’altro canto, indici normativi depongono nel senso della natura sanzionatoria o premiale della collaborazione nella fase dell’esecuzione, che nulla hanno a che vedere con la pericolosità del condannato e, dunque, con ragioni di prevenzione speciale.

La mancata collaborazione si traduce, infatti, in una “sanzione” che determina il mancato accesso alle misure trattamentali (permessi premio, lavoro all’esterno, semi-libertà, liberazione condizionale) e alle misure alternative alla detenzione.

La collaborazione, però, costituisce anche un “premio” per il detenuto poiché – come letteralmente disposto dall’art. 58-ter ord. pen. – consente di superare i limiti di pena previsti da specifiche disposizioni18. Infatti, diversamente da quanto sostenuto dal Tribunale di Perugia (v. due passaggi a pagg. 10 e 18 dell’ord. di rimessione), se i condannati si rifiutano di collaborare non accedono mai ai benefici penitenziari, neppure dopo aver scontato un terzo di pena o dieci anni in caso di condanna all’ergastolo. Se, invece, essi collaborano attivamente – secondo quanto prevede l’art. 58-ter, comma 1, ord. pen. – vi accedono senza dover previamente scontare una frazione di pena. In caso di collaborazione “attiva”, infatti, gli artt. 4-bis e 58-ter ord. pen. finiscono per elidersi a vicenda e rendere priva di efficacia normativa le previsioni che impongono che il detenuto abbia previamente scontato una frazione di pena19.

PRESUTTI(a cura di), Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Giuffrè, Milano 1994, pp. 83-84.

16 Ragioni di politica criminale non riconducibili neppure le finalità di prevenzione generale, per definizione preordinate a scoraggiare i cittadini al compimento di reati e non ad aggravare la condizione di chi è già stato condannato.

17 Per questo aspetto, v. M. RONCO, Il significato retributivo-rieducativo della pena, in

Diritto penale e processo 2005.

18 L’art. 58-ter ord. pen., oltre a definire quali sono le condotte “collaborative”, espressamente stabilisce che «i limiti di pena previsti dalle disposizioni del comma 1 dell’art. 21, del comma 4 dell’art. 30-ter e del comma 2 dell’art. 50, concernenti le persone condannate per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis, non si applicano a coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati», ossia a coloro che collaborano attivamente con la giustizia.

19In questo senso si è già espressa la giurisprudenza, costituzionale: si veda la sentenza n. 504 del 1995 (ove si legge, con riferimento all’art. 58-ter, che «il richiamo di tale precetto agli artt. 21, comma 1, 30-ter, comma 4, 50, comma 2 (…), è effettuato solo in vista di consentire, ove venga spiegata la richiesta attività collaborativa, l’applicazione anche immediata dei

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Se la collaborazione costituisce una misura “sanzionatoria o premiale” che il legislatore adotta ai fini di contrasto della criminalità, non si tratta allora tanto di valutare se si è al cospetto di una presunzione assoluta o relativa o se tale “presunzione di pericolosità sociale” sia ragionevole sulla base dell’id quod

plerumque accidit.

Così impostata, la questione all’esame della Corte sarebbe esaminata da altra prospettiva.

Non si tratterebbe più di svolgere un giudizio “tutto interno” all’art. 27 Cost., bensì di valutare se disincentivi o incentivi a collaborare con la giustizia durante la fase dell’esecuzione della pena, quando ormai il processo penale si è definitivamente concluso, siano conformi ai principi costituzionali garantiti anche, ma non solo, dall’art. 27 Cost.

Ci si dovrebbe chiedere se per ragioni di lotta contro la devianza criminale sia possibile strumentalizzare la rieducazione del condannato20, ma anche se sia legittimo coartare la sua libertà morale21. Grande assente, nelle ordinanze che qui si esaminano, è l’art. 2 della Costituzione, che garantisce la libertà morale di ciascun individuo, certamente comprensiva – come notato da parte della dottrina22 – della scelta di collaborare o non collaborare. Qualcosa di parzialmente diverso dal diritto al silenzio – che pure il Tribunale di sorveglianza di Perugia evoca (p. 11 dell’ordinanza) – poiché la collaborazione non intacca il diritto di difesa come diritto fondamentale ex art. 24 Cost. (su cui v., da ultimo, ordinanza n. 117 del 2019), bensì l’effettiva libertà di scegliere tra l’ammissione al beneficio e il recare pregiudizio ad altri (magari familiari). Il detenuto è obbligato a barattare la propria libertà di autodeterminazione con la sofferenza altrui.

Anche così diversamente impostata, la questione è aperta, ma forse tale lettura si presta ad un più ampio ventaglio di soluzioni.

La Corte – come da molti auspicato – potrebbe ritenere che nulla giustifichi la compressione dei principi costituzionali espressi dall’art. 27 Cost. e, di

benefici penitenziari»), e, soprattutto, la sentenza n. sentenza n. 174 del 2018 (punto 2.2 cons. dir.).

Quanto alla giurisprudenza di legittimità, si rinvia alle decisioni della Corte di cassazione, I sez. pen., 3 febbraio 2016, n. 37579, e I sez. pen., 12 luglio 2006, n. 30434.

20Sia pure con riferimento al diverso principio di colpevolezza, nella sentenza n. 322 del 2007, si legge: «Punire in difetto di colpevolezza, al fine di “dissuadere” i consociati dal porre in essere le condotte vietate (prevenzione generale “negativa”) o di “neutralizzare” il reo (prevenzione speciale “negativa”), implicherebbe, infatti, una strumentalizzazione dell’essere umano per contingenti obiettivi di politica criminale […], contrastante con il principio personalistico affermato dall’art. 2 Cost.».

21M. RONCO, op. cit.

22 Cfr. E. DOLCINI, La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e

riflessioni, in penalecontemporaneo.it, 17 dicembre 2018; G.M. FLICK, Ergastolo ostativo:

contraddizioni e acrobazie, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, pp. 1507, G. NEPPI MODONA,

Ergastolo ostativo: profili di incostituzionalità e di incompatibilità convenzionale, Riv. it. dir. proc. pen., 2017, pp. 1510, M. BONTEMPELLI, Diritto alla rieducazione e libertà di non

conseguenza, eliminare dall’ordinamento l’obbligo di collaborare con la giustizia quale necessaria condizione per essere ammessi al permesso premio (sull’eventuale estensione dell’accoglimento a tutti o ad altri benefici penitenziari, v. infra par. 3).

Essa, però, potrebbe giungere ad altre conclusioni e ammettere che, per eccezionali esigenze di contrasto della criminalità, i principi costituzionali summenzionati possono essere compressi. Potrebbe cioè svolgere un giudizio di proporzionalità tra mezzo utilizzato (obbligo di collaborare al fine di acquisire informazioni necessarie a combattere la criminalità) ed entità del sacrificio dei principi costituzionali (rieducazione e libertà morale) e ritenere che, in taluni casi, il sacrificio sia giustificato.

Così ragionando, tornerebbe prepotentemente in gioco la distinzione tra certi reati di criminalizzata organizzata, per i quali si potrebbe in principio ammettere che la collaborazione non sia irragionevolmente imposta, e altri reati. D’altro canto, anche nelle più recenti proposte di revisione dell’art. 4-bis ord. pen. il c.d. doppio binario non è stato eliminato per tutti i reati, bensì mantenuto per i reati associativi più gravi e per coloro che vi rivestono posizioni apicali23.

La Corte potrebbe, allora, ad esempio, operare una distinzione tra i reati che già nel 1992 furono inseriti nell’art. 4-bis ord. pen. e quelli che vi sono stati aggiunti in seguito (v. retro par. 2.1). Potrebbe cioè ritenere che la lotta alla criminalità mafiosa, ancora così fortemente radicata nel nostro Paese, giustifichi oggi – come nel 1993 – il nucleo “duro” dell’art. 4-bis, comma 1, ord. pen., e rigettare entrambe le questioni al suo esame (ancora di recente la Corte ha fatto riferimento alle «connotazioni criminologiche del fenomeno mafioso»: v. ordinanza n. 136 del 2017).

Nel contempo, però, essa potrebbe far comprendere che ulteriori compressioni dei principi espressi dagli artt. 2 e 27 Cost. non sono tollerabili e che non si salveranno dalle censure di incostituzionalità le norme che estendono il regime ostativo a reati che nulla hanno a che fare con la criminalità organizzata di stampo mafioso o, in modo più ampio, con gravi reati di natura associativa (così anticipando l’incostituzionalità, ad esempio, delle previsioni di recente introdotte dalla legge 9 gennaio 2019, n. 3)24.

23 V., negli ultimi anni, i lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale, avviati dal Governo il 19 maggio 2019, e, in particolare, il documento finale pubblicato il 19 aprile 2016 (richiamato, tra gli altri, da E. DOLCINI, La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano.

Appunti e riflessioni, in Diritto penale contemporaneo, 17 dicembre 2018, p. 18) e, in seguito,

l’art. 85, comma 1, lett. e) della legge 23 giugno 2017, n. 103, che delegava il Governo a sopprimere gli automatismi nell’accesso ai benefici penitenziari, tranne che per i condannati per delitti legati alla mafia e al terrorismo.

24Cfr. T. PADOVANI, La spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in

Archivio penale n. 3/2018, 1 ss., V. MANES, L’estensione dell’art. 4 bis ord. pen. ai delitti

contro la p.a.: profili di illegittimità costituzionale, in Diritto penale contemporaneo, 14

febbraio 2019; E. DOLCINI, La pena ai tempi del diritto penale illiberale, in Diritto penale

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La Corte, inoltre, nel corpo della motivazione, potrebbe anche lasciare uno spiraglio agli ergastolani ostativi (quale che sia il reato commesso), i quali, dopo aver scontato ventisei anni effettivi di detenzione, dovrebbero avere la possibilità di uscire dal carcere ottenendo la liberazione condizionale in ossequio al principio per cui la pena non può essere contraria al principio di umanità. Il trascorrere del tempo rispetto al momento della condanna attenua, infatti, indubbiamente l’esigenza di politica criminale sottesa all’obbligo di collaborazione. In tal modo, peraltro, la Corte costituzionale potrebbe forse attenuare un poco il contrasto con la già citata sentenza della CEDU nel caso Viola c. Italia, evidenziando come in quel caso la questione riguardasse specificamente un condannato all’ergastolo che chiedeva la liberazione condizionale. È vero che ci sono passaggi della decisione in cui la Corte EDU evidenzia come il percorso trattamentale passi attraverso plurimi istituti (ad es. § 122), ma il nostro Stato è stato specificamente condannato perché la disciplina contenuta nell’art. 4-bis ord. pen. «limita eccessivamente la prospettiva di rilascio e la possibilità di riesame della pena» dell’ergastolano. In questa decisione la questione della collaborazione quale condizione per l’accesso ai benefici penitenziari, e in particolare alla liberazione condizionale, e quello della pena perpetua erano molto più legati di quanto lo siano nelle questioni oggi all’esame della Corte costituzionale dove i giudici a quibus chiedono “solo” la concessione di un permesso premio.

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