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2. Dall’avvento del Fascismo all’elezione dell’Assemblea Costituente

2.2 Il codice di procedura penale del 1930

Nel 1930148, fu pubblicato, insieme al codice penale, il codice di procedura penale. I due testi erano il frutto dell’elaborazione dottrinale del Ministro della Giustizia, Alfredo Rocco149. Il codice di rito, in particolare, fu studiato per garantire la pronta e decisa applicazione delle disposizioni del codice di merito150.

Ai sensi dell’art. 73, il p.m. aveva facoltà di astenersi «per gravi ragioni di convenienza» valutate dal superiore gerarchico ma non poteva essere ricusato per alcun motivo. Il p.m. era sì una parte, ma «sui generis»151: da un lato, infatti, l’istituto dell’astensione era (ed è) incompatibile col concetto di parte privata; dall’altro, l’impossibilità della ricusazione lo era (ed è) con quello di giudice. L’azione penale era esercitata non solo dal p.m., ma anche dal Pretore - per i reati di sua competenza152, anche se, in quest’ultimo caso, il Procuratore del Re, con provvedimento insindacabile, poteva disporre la rimessione del procedimento al Tribunale. Quest’ultima facoltà, all’evidenza, garantiva all’Esecutivo la possibilità di “gestire”, tramite il p.m., le indagini “più sensibili”, soprattutto se si pensa al fatto che quest’ultimo era maggiormente sottoposto alle pressioni dell’Esecutivo rispetto al Pretore. Il p.m. e il Pretore potevano poi chiedere l’archiviazione per manifesta infondatezza della notizia di reato senza la necessità di una autorizzazione da parte del giudice, ed avevano l’obbligo di informare dell’avvenuta archiviazione, rispettivamente, il Procuratore generale e il Procuratore del Re, che potevano chiedere la riapertura del caso: in questo modo, se qualche Procuratore - o Pretore – avesse chiesto l’archiviazione di un reato che

148 Regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398 149

Fra i membri della Commissione ministeriale incaricata di redigere il testo del Codice si ricordano: Vincenzo Manzini, Enrico Ferri, Edoardo Massari, e Arturo Rocco, fratello del Ministro e docente di diritto penale.

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Si veda, a tal proposito, quanto affermato dal Ministro Rocco nella Relazione al Re: «La simultanea pubblicazione dei due codici sarà feconda di notevoli vantaggi. Tale simultaneità ha reso possibile un perfetto coordinamento tra essi, il che non si sarebbe potuto ottenere rimaneggiando il codice di procedura penale del 1913 per adattarlo alle esigenze del nuovo codice penale».

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Alfredo Rocco, ibidem

152 Si veda l’art. 31 c.p.p. «Appartiene al Pretore la cognizione dei reati per i quali la legge

stabilisce una pena detetentiva non superiore nel massimo a tre anni ovvero una pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena detentiva, non superiore nel massimo a lire diecimila».

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il Governo aveva invece interesse a perseguire, quest’ultimo avrebbe potuto sempre agire sul Procuratore generale perché riaprisse le indagini. Il p.m., ai sensi dell’art. 77, godeva degli stessi poteri del giudice ovvero poteva (art. 146) chiedere l’intervento della forza pubblica e prescrivere quanto necessario «per il sicuro e ordinato compimento degli atti». Come nel codice del 1913, il p.m. poteva procedere ad atti di p.g. direttamente o per mezzo di ufficiali di p.g. (art. 232)

La p.g.153 esercitava le proprie attribuzioni «sotto la direzione e alla dipendenza» del Procuratore generale e del Procuratore del Re e doveva eseguire anche gli ordini del giudice istruttore e del Pretore. La differenza rispetto all’art. 163 del c.p.p. 1913 stava nella diversa formulazione dell’inciso secondo cui dovevano essere osservate, nei rapporti fra a.g. e p.g., le disposizioni che regolavano i rapporti di gerarchia fra quest’ultima e i corpi di appartenenza: nel codice del 1913, le disposizioni dovevano essere stabilite da leggi o regolamenti speciali, mentre in quello fascista non si faceva alcun richiamo alla fonte di tali disposizioni per cui anche un semplice ordine di un superiore gerarchico poteva «essere opposto all’ordine del Procuratore generale»154. Questa possibilità sottraeva, di fatto, il controllo della p.g. al Procuratore perché il Governo avrebbe potuto, agendo sui superiori gerarchici dell’ufficiale o agente di p.g., chiedere che l’ordine dell’a.g. venisse disatteso.

L’art. 221 conteneva l’elenco dei soggetti aventi qualifica di p.g. Quattro le modifiche di rilievo rispetto all’art. 164 del codice del 1913: la prima è che l’elenco faceva salve le disposizioni delle leggi speciali - e quindi il codice non era la sola legge che disciplinava i soggetti aventi qualifica di p.g.; la seconda è l’inserimento del personale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (d’ora in poi MVSN)155

; la terza la sostituzione del Sindaco col Podestà156;

153 La cui disciplina era contenuta all’art. 219 e ss. del Capo I, Titolo I, Libro II. 154

P. Tonini, ibidem

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La MVSN era un corpo di polizia civile ad ordinamento militare istituito con d.l. 28 dicembre 1922 e sottoposto alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dovendo il giuramento al solo Presidente del Consiglio (e non anche al Re). I compiti principali erano il mantenimento, sul territorio italiano, dell'ordine pubblico e la difesa degli interessi nazionali. L’art. 1 del r.d. 1292 del 4 agosto 1924 elevò la Milizia al rango di forza armata dello Stato e dispose l’obbligo di giuramento al Re.

156 D’altra parte, la l. 237 del 4 febbraio 1926 aveva disposto la soppressione delle figure di

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l’ultima è la previsione secondo la quale anche una fonte regolamentare poteva disporre l’attribuzione della qualifica di p.g. alle «persone incaricate di ricercare ed accertare determinate specie di reati». Come chiarito da illustre dottrina157, la riserva di legge ex codice del 1913 «costituiva un ostacolo all’arbitrio del potere esecutivo, che non poteva moltiplicare ad libitum il numero degli ufficiali autorizzati a compiere funzioni processuali».

Ai sensi del successivo art. 222, gli ufficiali e gli agenti di p.g. procedevano «di loro iniziativa in caso di flagranza di reato» secondo quanto previsto dall’art. 235 e ss., e, negli altri casi, «per ordine o mandato dell’Autorità competente». Le disposizioni del codice che prevedevano la possibilità, per la p.g., di procedere all’arresto in flagranza, alla perquisizione personale e domiciliare in caso di flagranza o evasione, al sequestro della corrispondenza erano invece sostanzialmente identiche a quelle del codice del 1913. Quel che mutava in modo significativo era la disposizione che prevedeva la possibilità di procedere a sommario interrogatorio dell’arrestato, a sommarie informazioni testimoniali e ad atti di ricognizione, ispezione o confronto. Il codice del 1913, a tal proposito, stabiliva come necessario il requisito della flagranza in alternativa a quello dell’urgenza mentre il codice del 1930 lo prevedeva in aggiunta: «la cosa non deve sorprendere, perché una limitazione dei poteri processuali della polizia si inquadra benissimo all’interno di un regime totalitario. La scelta del fascismo fu quella di aumentare i poteri esercitabili dalla polizia in via amministrativa, perché in tal modo il loro esercizio sfuggiva al controllo del processo penale»158.

Significativa appare poi la disposizione ex art. 227, la quale prevedeva che gli ufficiali di p.g. dovevano trasmettere «immediatamente» - e non più «subito, o al più tardi entro ventiquattro ore», al Procuratore del Re o al Pretore gli atti compilati e le cose sequestrate. Il termine usato dal Legislatore, “immediatamente”, non era rapportato, come il «subito», al compimento dell’atto in sé, ma alla fine delle operazioni di p.g. E, su questo, il codice taceva: le operazioni potevano durare ore, mesi o anni. L’a.g. sarebbe potuta venire a conoscenza di quanto compiuto a lunga distanza di tempo.

1930, dunque, il sindaco non esisteva più.

157 P. Tonini, ibidem 158 P. Tonini, ibidem

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Per quanto riguarda invece l’aspetto disciplinare, scomparve il richiamo alla sezione d’accusa: le sanzioni erano applicate direttamente dal Procuratore generale: il codice «in tal modo fece venir meno la garanzia di imparzialità della decisione e, al tempo stesso, la possibilità di controllo da parte della magistratura»159. Dal punto di vista della sanzione penale160, invece, il Legislatore introdusse l’autorizzazione a procedere (art. 16), concessa dal Ministro della Giustizia, nei confronti dei soggetti aventi qualifica di p.g. In questo modo, qualora un appartenente alla p.g. avesse commesso un “reato filogovernativo”, l’Esecutivo avrebbe potuto negare l’autorizzazione, garantendone l’impunità.

La Magistratura, già soggetta ad “interferenze” da parte della politica, perse così ogni controllo sulla p.g.