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Il rapporto tra il pubblico ministero e i servizi di polizia giudiziaria

Ai sensi dell’art. 12 disposizioni attuative c.p.p., sono servizi di p.g. «tutti gli uffici e le unità ai quali è affidato dalle rispettive amministrazioni o dagli organismi previsti dalla legge il compito di svolgere in via prioritaria e continuativa», anche se non esclusiva, «le funzioni indicate nell'articolo 55 del codice». Si tratta dunque di organi destinati a funzioni di p.g. che agiscono nella sfera dell’istituzione di appartenenza. Il personale di tali organi non è quindi diretto in modo esclusivo dal p.m., ma anche dai superiori gerarchici dell’istituzione cui appartiene, e, quindi, dal potere politico225

. Costituiscono esempi di servizi di p.g.: le Squadre Mobili della Polizia di Stato, presenti in ogni Questura226; i Nuclei Operativi e Radiomobili (N.O.RM.) presso i Comandi dell’Arma dei Carabinieri227

; i Nuclei di Polizia tributaria della Guardia di Finanza; i Servizi centrali e interprovinciali, anche interforze, per la lotta alla criminalità organizzata228: la Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.)229.; il

225 Si pensi alle direttive del Dipartimento di P.S. (e quindi del Ministero dell’Interno) nei

confronti dei Questori, o alle indicazioni del Prefetto nel Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.

226 Le Squadre mobili dipendono dal Servizio Centrale Operativo (SCO) e dalla Direzione centrale

anticrimine. Sono suddivise in Sezioni, delle quali, in particolare si ricordano: criminalità organizzata, prostituzione e criminalità diffusa extracomunitaria, omicidi e reati contro la persona, reati sessuali, reati contro il patrimonio, antidroga.

227 Il Nucleo è composto da due aliquote: la prima, operativa, costituisce un servizio di p.g.; la

seconda, radiomobile, assicura il servizio di pronto intervento h24 sul territorio di competenza

228 Istituiti ai sensi dell’art. 12 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152

229 La D.I.A.,istituita nell’ambito del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, dalla legge 410/1991, è

«un organismo con competenza monofunzionale, composto da personale specializzato a provenienza interforze, con il compito esclusivo di assicurare lo svolgimento, in forma coordinata, delle attività di investigazione preventiva attinenti alla criminalità organizzata, nonché di effettuare indagini di p.g. relative esclusivamente a delitti di associazione mafiosa o comunque ricollegabili all’associazione medesima». In particolare, la DIA si suddivide in III diversi Reparti: “Investigazioni preventive”, “Investigazioni giudiziarie” (che ha funzione di servizio di p.g.) e “Relazioni internazionali ai fini investigativi. [N.B. I riferimenti sono tratti dal sito dell’istituzione]

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Servizio Centrale Operativo (S.C.O.)230; il Raggruppamento Operativo Speciale (R.O.S.)231; il Servizio Centrale di Investigazione Criminalità Organizzata (S.C.I.C.O.)232.

Per il fatto di essere incardinati all’interno delle strutture dell’amministrazione di appartenenza, i servizi, molto più delle sezioni, possono incorrere nei “pericoli” derivanti dalla “doppia dipendenza” anche perché, come felicemente ricordato dall’on. Romano in Assemblea costituente, «quando si devono servire due padroni si finisce per servire poco diligentemente quello dal quale meno si dipende». La situazione di doppia dipendenza, in particolare, può generare conflitti insanabili gli ordini impartiti dal superiore gerarchico e le direttive del p.m.: quid juris qualora un Questore ordini al capo della Squadra Mobile di non eseguire le direttive del p.m? E quid qualora il p.m. si interessi di affari non attinenti ai suoi compiti istituzionali, “usando” in modo improprio la p.g., magari in contrasto con gli ordini del Questore?

Per rispondere a tali interrogativi, è necessario analizzare in modo attento il rapporto che intercorre tra il p.m. e i servizi di p.g.

Ai sensi dell’art. 58 c.p.p., l’a.g. può avvalersi di «ogni servizio o altro organo di p.g.», anche se non in via diretta come accade per le sezioni. Come deve essere inteso l’avverbio «direttamente»? Nel senso che il p.m. non può impartire direttive al personale dei servizi, ma solo al dirigente? O che il p.m. può servirsene solo in determinate circostanze, ovvero quando il personale delle sezioni è occupato in altre indagini? In verità, la mancanza dell’avverbio «direttamente» in riferimento ai servizi non può significare né che il p.m. debba prioritariamente rivolgersi alle sezioni, né che sia obbligato a impartire direttive al solo dirigente. In senso lato, dunque, l’assenza dell’avverbio «direttamente» può

230 Istituito con decreto ministeriale del 22 novembre 1989 nell’ambito della Direzione Centrale

della Polizia Criminale, è composto da personale della Polizia di Stato e si articola in III divisioni. Lo S.C.O., in particolare, svolge «attività di analisi, propulsione, indirizzo e raccordo informativo delle attività investigative svolte dalle Squadre Mobili» - che, si ricorda, costituiscono servizi di p.g.

231 Costituito il 3 dicembre 1990, ha sede in Roma e dipende dal Comando Unità Mobili e

Specializzate Carabinieri “Palidoro”. Si articola in una struttura centrale (Reparto anti eversione - Servizio centrale di p.g., articolato in III reparti: criminalità organizzata di tipo mafioso e ricerca latitanti, traffico di armi stupefacenti e sequestri di persone, analisi operativa) e una organizzazione periferica

232 Si tratta di un reparto speciale della Guardia di Finanza istituito in attuazione della circolare n.

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essere giustificata dal fatto che, a differenza del personale delle sezioni, il p.m. non può avvalersi del personale dei servizi in via diretta perché, all’evidenza, esso non svolge in via esclusiva funzione di p.g. e, inoltre, non è presente in Procura e quindi non è posto nella sua immediata disponibilità. In senso stretto, e secondo l’interpretazione di alcuni autori233, l’assenza del «direttamente» indica invece che

il p.m., nel caso in cui intenda servirsi dei servizi di p.g., non può dare un incarico di conduzione delle indagini personalmente al titolare dell’ufficio, ma solo «impersonalmente» all’ufficio stesso. In sintesi, qualora il p.m. voglia incaricare di un indagine, ad esempio, la Squadra mobile della Questura di Pisa, non potrà indicare il nominativo del soggetto al quale affidare l’indagine, ma solo ed esclusivamente richiedere l’intervento dell’ufficio, il quale poi deciderà in piena autonomia. L’interpretazione persuade ma non convince: il fatto che l’incarico sia affidato impersonalmente all’ufficio e non personalmente al dirigente significa poco. In effetti, se si riflette, non cambia molto fra l’incarico affidato personalmente al titolare dell’ufficio da quello affidato all’ufficio stesso: alla fine, sarà comunque il titolare dell’ufficio a condurre, da un punto di vista sostanziale o formale, l’indagine. E non potrebbe essere altrimenti: se il p.m. incarica la Squadra Mobile, e non direttamente il dirigente, chiunque conduca l’indagine dovrà in ogni caso rapportarsi con quest’ultimo. Insomma, il responsabile dell’indagine sarà sempre e comunque il titolare dell’ufficio.

Per questi motivi, l’assenza dell’avverbio «direttamente» deve essere intesa nel senso che il p.m. non può dare indicazioni sulle modalità operative dello svolgimento delle operazioni d’indagine delegate o del compimento di singoli atti. In quest’ottica, qualora, ad esempio, il p.m. intenda affidare lo svolgimento di un’indagine di omicidio al Nucleo Operativo dei Carabinieri, oppure chiedere l’esecuzione di una perquisizione domiciliare alla Squadra Mobile, non potrà stabilire che tali operazioni siano eseguite di giorno piuttosto che di notte, con dieci uomini piuttosto che due, con uomini armati o con personale altamente specializzato etc. Il p.m., insomma, dispone dei servizi di p.g., ma non in via diretta, ovvero non in un senso tale da consentirgli di stabilire in che modalità tecnico – operative devono svolgersi le operazioni. Tale interpretazione, peraltro,

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non viola l’art. 109 della Cost. perché il “direttamente” del principio costituzionale, si è detto, si riferisce al fatto che non debbano esservi “intermediari” fra la Magistratura e la p.g. e non può quindi essere interpretato a tal punto da sostenere che il p.m. possa arrivare addirittura a decidere in quali modalità la p.g debba svolgere le operazioni.

Per quanto concerne il rapporto fra il p.m. e il personale delle sezioni, si deve innanzitutto precisare che, ai sensi dell’art. 12 disp. di coord. al c.p.p., le amministrazioni erano tenute a comunicare, entro l’entrata in vigore del codice, al Procuratore generale presso la Corte di Appello e al Procuratore presso la Procura della Repubblica il nome e il grado degli ufficiali che dirigono i servizi di p.g. e gli specifici settori o articolazioni di questi. Ad oggi, ogni variazione dell’elenco dei nominativi deve essere comunicata senza ritardo.

D’altra parte, la volontà dell’amministrazione di allontanare provvisoriamente dalla sede o assegnare ad altri uffici il dirigente del servizio di p.g. è subordinata al consenso del Procuratore generale presso la Corte d’Appello e del Procuratore presso il Tribunale. Quid juris se il dirigente chiede, in via del tutto autonoma o sotto pressioni dell’amministrazione, l’allontanamento o la assegnazione ad altro ufficio? Dato il silenzio della legge a tal proposito, deve ritenersi, in via analogica, che il consenso di cui all’art. 14 sia necessario anche per l’ipotesi in cui la richiesta provenga dal dirigente stesso. Fra l’altro, in questa situazione, a meno che il Procuratore non sia conoscenza delle pressioni sul dirigente, non si vedono i possibili motivi di diniego della richiesta, anche perché difficilmente i magistrati vorranno lavorare con una persona che ha manifestato la volontà di andarsene. Qualche perplessità suscita invece la previsione secondo la quale l’allontanamento è ammesso se «necessario ai fini della progressione di carriera». Ad esempio, per quanto riguarda la progressione del personale dirigenziale (in senso lato, commissari e dirigenti) della Polizia di Stato, questa avviene: per anzianità e per merito comparativo; previa superazione di un corso; per scelta ministeriale. Posto che il personale con qualifica uguale o superiore a Questore (I dirigente) non può essere ufficiale di p.g., la progressione di carriera si riduce, nel rispetto del requisito dell’anzianità, allo scrutinio per merito comparativo. Si pensi quindi ad un dirigente della Squadra mobile che sta seguendo un’indagine su incarico di un

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p.m.: nominato dal Questore, col placet del Servizio centrale Operativo della Divisione Anticrimine del Dipartimento della P.S., è da 5 anni e 6 mesi commissario capo, e quindi ammesso alla promozione a vice questore aggiunto. L’amministrazione procede a stilare una graduatoria dei soggetti che possono essere promossi e il dirigente ottiene la promozione. Per questi motivi, senza che possa - all’evidenza - terminare l’indagine, è assegnato ad altro ufficio. Non è forse questa una modalità attraverso la quale l’amministrazione potrebbe operare il trasferimento, magari aggirando il “no” della Procura, secondo la locuzione latina promoveatur ut amoveatur? Il dirigente dovrebbe quindi essere messo in grado, sentita l’amministrazione e il p.m., di concludere l’indagine nella quale è coinvolto, senza tuttavia perdere l’avanzamento di carriera. Ovviamente, ben si comprende che tali meccanismi potrebbero, di fatto, bloccare l’avvicendamento del personale delle forze di polizia, innescando una paralisi a catena di tutti gli uffici coinvolti. Per questi motivi, sarebbe forse sufficiente stabilire delle modalità che siano le più oggettive possibili per l’attribuzione dei punteggi e la conseguente promozione dei soggetti titolari di servizi di p.g. - ovvero i dirigenti delle Squadre mobili, i comandanti dei N.O.RM. e dei Nuclei di polizia tributaria.

L’art. 59, oltre a prevedere in via generale che «gli ufficiali e gli agenti di p.g. sono tenuti ad eseguire i compiti ad essi affidati», stabilisce che l’ufficiale preposto al servizio di p.g. è responsabile verso il Procuratore presso il tribunale dove ha sede il servizio dell’attività svolta da lui stesso e dal personale della sezione. La responsabilità di cui supra non riguarda solo quella disciplinare - già discussa, ma anche quella operativa, nel senso che il dirigente è responsabile per il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati nelle direttive del p.m. Fra l’altro, se si pensa che il dirigente del servizio di p.g. è responsabile dal punto di vista operativo, sembra confermata l’interpretazione secondo la quale il p.m. non può stabilire le modalità esecutive delle operazioni, ma solo dare indicazioni di massima.

Per rispondere agli interrogativi che ci siamo posti, ovvero cosa accada qualora un superiore gerarchico ordini di disattendere le direttive del p.m. e cosa qualora quest'ultimo “invada” il campo delle forze di polizia, occorre considerare quanto segue.

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Per quanto riguarda il primo interrogativo, si deve fare riferimento, per la Polizia di Stato, all'art. 66 della legge 121 del 1981 il quale prevede che qualora un poliziotto riceva un ordine dal proprio superiore gerarchico che egli reputa illegittimo, egli è innanzitutto tenuto a comunicare le ragioni dell'illegittimità al superiore stesso. Tuttavia, se questi rinnova l'ordine per iscritto, è obbligato ad eseguirlo e dell'esecuzione risponde direttamente il superiore. Solo se l'ordine configura un'ipotesi di reato, il poliziotto deve invece disattenderlo e a comunicare immediatamente il fatto ai superiori. In questo senso, poiché l'ordinamento non prevede il reato di violazione delle direttive del p.m., il dirigente del servizio di p.g., il quale abbia ricevuto l'ordine di non attenersi a tali direttive, deve sicuramente comunicarlo al superiore perché l'ordine è illegittimo in quanto viola la legge processuale, la quale prevede – all'art. 59, che «gli ufficiali e gli agenti di p.g. sono tenuti a eseguire i compiti ad essi affidati». Tuttavia, come si è detto, qualora il superiore gerarchico rinnovi l'ordine, il dirigente si trova davanti ad un vicolo cieco: se non esegue l'ordine, è passibile di procedimento disciplinare interno, mentre se non rispetta le direttive del p.m., può essere sottoposto al procedimento disciplinare innanzi alle commissioni di disciplina. Quindi? La soluzione del dilemma può essere la seguente: il dirigente del servizio è tenuto, qualora le direttive del p.m. siano legittime, a disattendere l'ordine del superiore gerarchico, accettando l'ipotesi di essere sottoposto a procedimento disciplinare interno. Questo perché, fra l'eseguire un ordine legittimo impartito dal p.m. e uno, come si è detto, illegittimo del superiore gerarchico, non si può sostenere che il dirigente sia obbligato a rispettare il secondo, disattendendo il primo. In tal caso, in un eventuale procedimento disciplinare interno, il dirigente potrà discolparsi dando prova dell'illegittimità dell'ordine del superiore e della necessità di eseguire le direttive del p.m. Tuttavia, se questa soluzione del problema non apparisse convincente, per il fatto che il dirigente, disattendendo l'ordine del superiore, violerebbe comunque una disposizione di legge – ovvero l'art. 66 della l. 121 del 1981, può ammettersi il caso contrario, ovvero che egli esegua l’ordine, non rispettando le direttive del p.m.

In questo caso, tuttavia, vi sarebbero situazioni in cui la Magistratura non potrebbe reagire, dal punto di vista disciplinare, nei confronti del superiore

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gerarchico che ha dato l’ordine, ma solo nei confronti dell’ufficiale di p.g. “inadempiente”. Infatti, qualora il superiore gerarchico che ha dato l’ordine non sia un ufficiale di p.g., il Procuratore generale non potrebbe avviare un procedimento disciplinare nei suoi confronti, dato che, come si è detto, ad esso è sottoponibile il solo personale con qualifica di p.g.. In tale situazione, residuerebbe alla Magistratura la possibilità di avviare un’indagine nei confronti del superiore che ha ordinato di disattendere l’ordine dell’a.g.

Per concludere, se si ammette che il dirigente è tenuto a rispettare l'ordine del superiore, deve altresì ammettersi che, qualora il superiore non sia un ufficiale di p.g. (si pensi al Questore), la competenza della commissione di disciplina si estenda anche a quest’ultimo soggetto perché la disposizione secondo la quale egli risponde direttamente dell'ordine che ha dato significa che ne risponde in ogni sede e, quindi, anche davanti alla commissione di disciplina. Anche questa interpretazione, tuttavia, ha i suoi lati negativi, il principale dei quali è rappresentato dal fatto che, nella prassi, potrebbe verificarsi un “effetto a catena” qualora il superiore che ha dato l’ordine lo abbia a sua volta ricevuto da un suo superiore. In tal senso, l’estensione indiscriminata della competenza della commissione disciplinare potrebbe portare “sul banco degli imputati” anche il Ministro in persona, qualora gli ordini contrari abbiano, appunto, origine ministeriale. Ovviamente, il “lato negativo” non è rappresentato dal fatto stesso della sottoposizione di un Ministro della Repubblica a procedimento disciplinare quanto alla difficile sostenibilità teorica – e giuridica, dell’estensione della competenza della commissione anche ai membri del Governo. Per questi motivi, sarebbe forse opportuno un intervento legislativo in materia, anche se, come vedremo infra, secondo gli operatori del settore le reciproche “invasioni di campo” fra pubblici ministeri e p.g. sono casi di scuola.

La risposta al secondo interrogativo, ovvero che cosa accada nel caso in cui il p.m. “invada il campo” della polizia di sicurezza, è molto più semplice perché si può trovare nella legislazione positiva. Infatti, se il p.m. dà delle direttive che esulano dai compiti propri della p.g. - ad esempio, in materia di ordine pubblico, il dirigente è tenuto a disattenderle perché in violazione dell'art. 59 c.p.p.: la p.g. è infatti obbligata ad eseguire i compiti affidati se e solo se «inerenti alle funzioni di

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cui all'articolo 55 comma 1». Qualora poi le richieste siano continue, deve ammettersi la possibilità che il dirigente richieda l'intervento del Procuratore capo (qualora il comportamento sia posto in atto da un sostituto) o del Procuratore generale presso la Corte d'Appello (qualora invece l’atto sia posto in atto da un Procuratore), i quali, si è detto, esercitano la “sorveglianza” sui magistrati assegnati ai rispettivi uffici.

In conclusione può dirsi che il rapporto fra il p.m. e le sezioni di p.g. rientra in quello di subordinazione del tipo “direzione”, configurando una dipendenza funzionale media dal p.m. e una dipendenza organico - strutturale minima in quanto relativa al solo dirigente dei servizi. La dipendenza funzionale è di grado medio perché, come si è detto, il p.m. può disporre delle sezioni ma non può stabilire le modalità tecnico – operative circa lo svolgimento delle operazioni. La dipendenza organico – strutturale è minima perché le sezioni sono incardinate presso l’amministrazione di appartenenza e le garanzie sul trasferimento riguardano il solo dirigente.