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Come lavorare con la rete: “To be or not to be community oriented ? ”

CONTESTUALIZZARE I SERVIZI SOCIALI RELAZIONALI NELLA GOVERNANCE LOCALE

2.6 Come lavorare con la rete: “To be or not to be community oriented ? ”

In questo paragrafo sono focalizzati i contenuti del lavoro con la comunità (mediante la metodologia del lavoro di rete), partendo da una delle definizioni più note e tradizionali di lavoro di comunità, ovvero quella di Twelvetrees . Secondo l’Autore si tratta di un «processo tramite il quale si aiutano le persone a migliorare la loro comunità di appartenenza attraverso iniziative collettive» con l’impiego generalmente di personale retribuito, accanto a risorse del territorio. Due sono i modelli di intervento più utilizzati: il primo va generalmente sotto il nome di sviluppo di comunità, e fa perno sulla neutralità degli operatori che agiscono a supporto di gruppi o iniziative esistenti o, che devono essere create ex- novo, con uno stile non direttivo ma a favore delle relazioni.

T1 (2008) Introduzione di nuovi strumenti programmatori come i Profili di Comunità, e il Piano nazionale per la famiglia. Sotto il Profilo culturale enfasi sulle relazioni familiari e comunitarie

T2 – T3 (2008-2010) Realizzazione e attuazione degli strumenti programmatori. Interazione tra i soggetti e consapevolezza di introdurre un nuovo modus operandi

T4 (2010-2011) I soggetti implicati nella programmazione restano gli stessi. Non si realizza un ulteriore apertura alla comunità e alle famiglie.

Il secondo modello è quello che prevede di lavorare per la comunità e si rifà alla pianificazione dei servizi (o come direbbero altri al «lavoro di rete), in cui gli operatori agiscono affinché i servizi rispondano alle esigenze della comunità , mediante un’azione di collaborazione con soggetti politici e gestionali, per sensibilizzarli alle esigenze comunitarie e affiancarli nella qualificazione degli stessi.

Tra chi svolge lavoro di comunità, inoltre, ci saranno sempre persone retribuite e soggetti volontari che “rivendicano” il titolo di operatori di comunità. Secondo l’Autore, la differenza sta nel fatto che gli operatori dovrebbero essere «facilitatori» in senso tecnico, che lavorano per sviluppare la comunità attraverso una serie di attività professionali; i gruppi informali o i singoli volontari, invece, sviluppano la propria crescita, formazione e autogestione nella comunità, ottenendo cambiamenti in alcune condizioni materiali ma soprattutto agendo sul tessuto delle relazioni di fiducia. Il lavoro di comunità così descritto è, allo stesso tempo, un insieme di valori che hanno a che fare con la giustizia, il rispetto, la democrazia, l’empowerment e il miglioramento delle condizioni di vita. Dall’altra parte sono necessarie tecniche atte a sviluppare relazioni, comprendere il punto di vista altrui e, in taluni casi, agire a favore degli altri per aiutarli.

Il cambiamento di situazioni problematiche o condizioni materiali insoddisfacenti dovrebbe essere perseguito con un processo che metta i partecipanti (ossia i membri della comunità) in grado di controllarne al massimo tutti gli aspetti, fino ad acquisire capacità di prendere iniziativa autonoma a livello individuale e collettivo .

Se si pensa alla definizione di comunità, da quella americana con largo anticipo, fino alla nostra stagione di riforme (avviata nel '70 con l'istituzione delle regioni a statuto ordinario), si osserva come il concetto di comunità sia strettamente connesso a quello di "località".

Nel disegno di riforma che, con la legge 23 dicembre 1978 n. 833, istituiva il servizio sanitario nazionale la realizzazione dei Distretti costituiva la principale sfida, poichè si riteneva che in essi ci fossero le premesse per creare o ricreare rapporti sociali più stretti e per dare un senso al vivere insieme. Per come erano stati concepiti, i distretti non si sarebbero dovuti limitare ad una configurazione di servizi, ma realizzare luoghi di incontro e partecipazione della popolazione alla gestione stessa dei servizi. Un’immagine che pare quanto mai attuale e si ricollega alle recenti "case della salute", già prefigurate nei decenni scorsi ( E.R. Martini, R. Sequi, 1997). A distanza di trent’anni da quella legge, la ricerca di luoghi e spazi ove realizzare forme di reciporicità e mutua assistenza non si è fermata, e anzi il desiderio di raggiungere questa meta è diventata talora estenuante. Le insidie per la verità

sono molte, ed ecco perchè forse è necessario comprendere quali implicazioni, quali mutamenti di mentalità sono necessari.

Folgheraiter (2011), su questo punto arriva al cuore della questione, mediante la definizione del lavoro sociale di comunità89 che si realizza quando «una rete di fronteggiamento sovraordinata coglie il problema comune emergente da più reti, impegnate in singoli fronteggimenti che pur non avendo alcun collegamento diretto tra loro, possono essere collegati da una similiarità in astratto, inerente il problema stesso o le finalità [...]. La rete sovraordinata, può essere composta anche da un numero ristretto di persone, che tuttavia identifica una finalità di natura collettiva» (p.510). Perchè si possa sviluppare un lavoro di comunità (o meglio realizzare lo sviluppo di comunità, community development), sono necessarie alcune condizioni che qui vengono sitentizzate come: (i) partecipazione della comunità; (ii) accompagnamento dei processi che favoriscono l'organizzazione di una comunità.

Per quanto concerne la partecipazioane, la buona riuscita di qualsiasi progetto dipende dal coinvolgimento delle persone, messo alla prova dai tempi di realizzazione di un’idea. I rischi che si corrono sono quelli di veder vanificare risorse e sforzi impiegati, laddove manchi una reale presa di coscienza da parte della comunità del valore di quello che si sta facendo, degli impatti sul contensto e in alcuni casi della chiusura a gruppi limitati di persone che non rigenerano le relazioni.

Secondo Folgheraiter, la partecipazione richiede in primo luogo che le persone avvertano come proprie alcune necessità, ovvero sentano che ci sono dei problemi e delle possibilità che li coinvolge direttamente; «Un problema collettivo spesso non possiede un fatto percepibile cui ancorare la percezione e dal quale alimentarsi»(ivi, p. 515). La capacità attrattiva delle finalità sarebbe in questo modo inversamente proporzionale all’astrattezza dei problemi, così come percepiti dai membri della rete. In sintesi, più le finalità diventano ampie e astratte, più è difficile coinvolgere e rendere consapevoli le persone della loro influenza.

Questo principio, così come esposto, non può che apparire condivisibile anche se, a onor del vero, non consente di spiegare l’immobilismo delle persone di fronte a numerosi problemi concreti e quotidiani, che dovrebbe possedere grande capacità attrattiva e che tuttavia non generano attivazione collettiva.

Occorre pertanto aggiungere ulteriori elementi alla riflessione.

In un approccio di lavoro fondato sulle "risorse interne", in cui i progetti non sono “predeterminati” e gli aspetti tecnici seguono l'evoluzione sociale (e non viceversa), è stato

detto che il cambiamento avviene quando una comunità ne percepisce la necessità e quando si sviluppa la volontà e capacità di attuare i cambiamenti che sente desiderabili. La direzione viene stabilita internamente, piuttosto che esternamente. È chiaro che si tratta di un punto di partenza imprescindibile nel lavoro di comunità con cui occorre fare i conti. Ed è anche chiaro che entrano in gioco numerose variabili culturali, sociali e psicologiche che influiscono su quella determinata percezione dei problemi.

Ad aumentare la complessità, è il fatto che la percezione dei problemi potrebbe essere diversa tra professionisti e comunità nella quale si vuole agire; la divergenza degli obiettivi o l'esistenza di relazioni conflittuali possono ulteriormente influire sui livelli di partecipazione. I problemi potrebbero essere "diagnosticati" dai professionisti ma non "sentiti dalla gente"; oppure potrebbero crearsi situazioni di distanza rispetto ad un’idea tra soggetti pubblici e reti informali, sino ad un'aperta ostilità; o ancora, da ultimo, le persone potrebbero avvertire una necessità, condividerla con altri ma non essere ancora in grado di formulare un’idea dai contorni più definiti (ed eventualmente trovare un canale per elaborare una domanda).

La partecipazione è altresì legata teoricamente a quello che viene definito "senso di comunità"90. Martini (1997) a questo proposito, riprende la definizione di McMillan (1976) per cui il senso di comunità è «un sentimento che i membri hanno di appartenere e di essere importanti gli uni per gli altri e per il gruppo, e una fiducia condivisa che i bisogni dei membri saranno soddisfatti dal loro impegno di essere insieme».

Gli elementi fondamentali che compongono questa definizione possono essere scomposti alla luce dello schema Agil come rielaborato da Donati (1991), atto a identificare le dimensioni relazionali del senso di comunità. Seguendo questa ipotesi, il senso di comunità potrebbe essere definito come l’esito di 4 processi: le relazioni di appartenenza (dimensione A), le relazioni di influenzamento e potere (dimensione G), le relazioni di integrazione e soddisfazione dei bisogni (dimensione I), le relazioni di connessione emotiva (L).

Fig. 2.2. Il concetto sociologico di “senso di comunità”.

Fonte: McMillan 1976. Rielaborazione di Vendemia secondo lo schema Agil (Donati, 1991).

Rispetto al concetto di appartenenza, lo sviluppo di questa dimensione è altamente relazionale ed è caratterizzata da uno specifico senso del "noi". Tanti sono i fattori necessari allo sviluppo di appartenenza: l'esistenza di confini di gruppi ( fisici, linguistici, culturali ecc.), l'investimento affettivo, l'identificazione con il gruppo, in senso di sicurezza, la condivisione di un codice simbolico ecc. L'appartenenza al gruppo è poi a sua volta rinforzata dalla possibilità di soddisfare i bisogni. Naturalmente in un ottica di comunità si tratta di mantenere concentrata l’attenzione sulla prevalenza dei bisogni di natura collettiva, come l'aiuto reciproco, la stima e la fiducia. Occorrerà pertanto trovare regole organizzative in grado di canalizzare questo tipo di bisogni e arginare le spinte individualistiche (dimensione I).

La percezione della propria importanza e del proprio potere personale e di gruppo, inoltre, non potrà che realizzarsi quando gli individui vedranno concretamente che la propria azione può avere effetto sul contensto esterno, incentivarne dei meccanismi o ancora avviare processi di influenzamento. L’esistenza di un riscontro, positivo o negativo che sia, comunque osservabile e apprezzabile nei suoi contenuti, è un’elemento indispensabile per alimentare un’azione collettiva o anche solo per farla uscire dall’immobilismo. Si è detto sorpra che spesso le persone restano paralizzate anche di fronte a numerosi poblemi concreti e quotidiani. Questo accade, oltre che per tutti gli aspetti messi fin qui in evidenza, perchè “all’immobilismo sociale” non è attribuito culturalmente e strutturalmente alcuna dotazione di senso precipua. Non esistono “luoghi” che attribuiscono significato e peso specifico agli effetti del “non fare”, del “non preoccuparsi per le cose comuni”. La semantica culturale prevalente è quella del “tutto resta uguale, fare o non fare hanno stesso peso, stesso valore”.

A-Appartenenza G-Influenza/ Potere I- Integrazione dei bisogni L- Connessione emotiva

Roberto Saviano91 nella sua lettura socio-politica della realtà individua una matrice “mafiosa” in questo sentire comune, che appartiene alla cultura e alla storia di questi anni nel nostro Paese, fortunamente anche con numerosi esempi di “ribellione” a questo sentimento diffuso. Del resto, la dimensione emotiva è molto importante e può esercitare tutta la sua forza quando le persone si sentono "emotivamente con", sentono di provare stati d’animo che riconoscono anche nelle altre persone, per cui agire in riferimento all’altro (torna qui il concetto di refero come delineato da Donati), diventa più facile, quanto agire per se stessi, poichè la dimensione del significato attribuito alle azioni è la medesima.

In conclusione, si è detto in precedenza che per favorire lo sviluppo di una comunità è necessario accompagnare i processi che ne favoriscano una certa organizzazione, adottando un modello di lavoro che al sapere tecnico affianchi il sapere pratico, valorizzando l'esperienza e orientando la propria azione in due direzioni parallele, ma anche diverse tra loro: (i) le azioni rivolte al cambiamento della struttura organizzativa dei soggetti istituzionali, per favorire condizioni di vita migliore e ridurre le fonti di stress (interne ed esterne); (ii) azioni più specifiche rivolte agli individui nel fronteggiare le situazioni problematiche o di stress. La finalità di questo modello di lavoro è ricondotta allo sviluppo delle competenze, un approccio che si distanza dagli abituali modelli centrati sul disagio e sulla cura. Per le istituzioni si tratta di stabilire un nuovo rapporto con la comunità cedendo potere ai soggetti della società civile per la risoluzione dei problemi, l'accesso alle istituzioni e alle informazioni, e alla possibilità di aiutare gli altri. Per comprendere il principio di competenza, l'esempio più immediato è quello dei gruppi di mutuo aiuto, animati dall'intento di trasformare coloro che domandano aiuto, in persone in grado a loro volta di fornire qualcosa agli altri.

Tutti gli approfondimenti fin qui realizzati in tema di sviluppo di comunità fanno emergere la necessità di un cambiamento culturale radicale, supportato da strutture organizzative, che sappiano mettere insieme convergenza degli obiettivi e relazioni sociali. Senza questi caratteri, è impossibile fare un lavoro community oriented e forse vale la pena acquisirne consapevolezza e non far passare per comunitari, piani di sviluppo che di comunitario hanno solo un residuale consenso, ma non la percezione da parte delle persone che si tratti di qualcosa di importante, per cui vale la pena attivarsi.

Un ultima osservazione sul piano delle professionità coinvolte in questo delicato lavoro, viene dal recente Piano Nazionale per la Famiglia. Esso, come detto in precedenza, mette al centro

il tema dello sviluppo di comunità con il richiamo alle istituzioni di svolgere un lavoro di sostegno a favore delle organizzazioni di terzo settore, nonché delle reti associative familiari. Il Piano richiama in particolare la responsabilità di attivare programmi di solidarietà tra

famiglie.

Per la promozione di “forme di alleanze tra famiglie”, si riconosce anche la necessità che all’interno di normative regionali e locali trovi spazio per gli operatori la possibilità di avere «autonomia e flessibilità nel lavoro sul campo, che consiste nel coordinamento delle iniziative da parte del mercato, del terzo settore, delle reti informali e della stessa famiglia » (p.6). Per potenziare e sostenere le funzioni della famiglia secondo un principio di sussidiarietà, il Piano individua due strumenti: da una parte, sotto il profilo degli obiettivi da realizzare, è necessaria l’attivazione di «servizi sociali relazionali, come l’educazione dei figli, la mediazione familiare e l’assistenza domiciliare…» (p.7). Dall’altra parte, come garanzia dei diritti di cittadinanza della famiglia92, il Piano prevede che nella legislazione nazionale e regionale venga introdotto il principio secondo cui «le misure adottate devono contemplare degli strumenti adeguati volti a monitorare gli effetti degli interventi stessi»93.

Come si è già detto in precedenza (paragrafo 2.1) in tema di governance e di relazioni che stanno alla base di tale modello, per agire collettivamente sui problemi e sui bisogni di una comunità è necessario l’esercizio di un ruolo “guida”94da parte degli enti pubblici e una

capacità di prevedere strategie di valutazione continua, orientata ad azioni sempre nuove e flessibili.

Il lavoro di rete è la metodologia con cui può essere adottato lo sviluppo della comunità. La sua essenza relazionale si realizza nella reciproca utilità per gli operatori, da una parte, e per le reti, dall’altra, di trarre vantaggi in termini di conoscenza e risoluzione dei problemi.

Secondo Folgheraiter con l’inizio della «relazione di guida» la rete di fronteggimaento diviene formale95

, anche se questo grado di formalizzazione può attraversare diverse fasi di

sviluppo, ed evolvere anche in relazione al ruolo che la guida svolge.

92 Che viene definita nel Piano come realizzazione di “una soggettività sociale avente propri diritti”.

93 Per quanto concerne il monitoraggio e la valutazione delle misure adottate e dei servizi alla persona, si dice

che è necessario rafforzare una cultura ancora limitata, talora assente. Il Piano propone in particolare un sistema di Valutazione di impatto familiare che si applica in particolare sulle materie tributarie, tariffarie e fiscali. Rispetto alle risorse per le politiche familiari, il piano però non contiene specifiche disponibilità rimandando alle decisioni di finanza pubblica, sulla base delle quali verrà definito il disegno di legge di stabilità. Ciò rappresenta un evidente limite alla realizzazione dei contenuti indicati.

94 Il concetto di Guida trova origine nel metodo dell’indagine operativa nota come “analisi dei sistemi ODG,

Osservazione-Diagnosi-Guida” come definito da Donati (1991, cap.5)

95 Interessante è questo concetto di formale, che come spiega l’Autore non identifica relazioni professionali o

Parlare di relazione tra servizi e terzo settore, significa parlare del rapporto tra soggetti pubblici e comunità locale e ancora più nel dettaglio, tra operatori e realtà della comunità locale, dai singoli volontari alle diverse organizzazioni informali. Tali rapporti, per essere funzionali, devono necessariamente basati su qualche forma di “regolazione” e contrattualizzazione, che fanno emergere numerose questioni in termini di controllo e di posizione degli eventuali destinatari finali (nei casi in cui vengono offerti servizi).

Secondo alcuni autori (Borghi, 2005; Bifulco e Vitale, 2005), l’idea di incorporare le dimensioni contrattuali nelle politiche sociali è senza dubbio dotata di forza attrattiva (Vitale, 2005) e frequentemente associata al concetto di “attivazione” che richiede una serie di condizioni istituzionali, affinché si realizzi la cittadinanza sociale intesa come reale autonomia, indipendenza e personalizzazione all’interno delle politiche socio-sanitarie. Dal modello dell’avente diritto, al modello dello scambio reciproco: è questa la prospettiva chiaramente auspicata96 (Castel, 2004 p.84).

In un articolo di Tommaso Vitale (2005)97, viene mostrato come un fattore discriminante nelle fasi di contrattualizzazione sia il ruolo esercitato dalla pubblica amministrazione a livello locale. Nella disamina dell’Autore, per la verità, l’interesse è centrato sul ruolo dei destinatari, rispetto all’utilizzo di dispositivi contrattuali specifici come i voucher (in particolare per l’assistenza domiciliare) e i budget di cura socio-sanitari (ci si riferisce ad uno studio di caso relativo l’ASL 2 di Caserta).

Senza entrare nello specifico della ricerca (che per altro si focalizza sul cittadino-consumatore di determinati servizi e della relazione asimmetrica che si realizza con i provider di tali prestazioni), quel che qui interessa mettere a fuoco è la posizione di chi è coinvolto progettualmente (singolo, nucleo familiare, gruppo informale) nel rapporto con l’amministrazione.

Si pensi, ad esempio, al rapporto che le APS (associazioni di promozione sociale, costituite al fine di svolgere attività di utilità scoiale a favore di associati o terzi senza finalità di lucro) possono avere con gli enti pubblici, mediante la possibilità di fare convenzioni, remunerare i propri soci, gestire servizi e organizzare attività rivolte ai soci (legge 7 dicembre 2000 n. 383).

grado di formalizzazione di una rete dipende da «una crescente consapevolezza e dalla capacità di disporsi in un processo riflessivo che enfatizzi le potenzialità della rete come originale struttura interattiva» (ivi, p.606)

96 Robert Castel afferma che “l’insieme dei dispositivi della protezione sociale sembra oggi attraversato da una

tendenza all’individualizzazione, o alla personalizzazione, dal momento che punta a collegare la concessione di una prestazione alla considerazione della situazione specifica e della condotta personale dei beneficiari. Un modello contrattuale di scambi reciproci fra chi richiede risorse e chi le procura si sostituirebbe così, al limite, allo statuto incondizionato dell’avente diritto.”

97 L’articolo presenta alcuni risultati intermedi della ricerca “Politiche attive e Piani dei servizi”, diretta dalla prof.ssa Ota de

Leonardis (Università degli Studi di Milano – Bicocca) all’interno del progetto COFIN “Un piano dei servizi per il governo della città” coordinato dal prof. Francesco Karrer (Università di Roma “La Sapienza”).

Queste formule, consentono certamente ai servizi di esplicare alcune funzioni in modo più efficiente, più libero da vincoli burocratici e più vicino ai luoghi di aggregazione implicati nello svolgimento delle attività.

E’ chiaro che questa dimensione, molto tecnica e contrattualistica del rapporto istituzioni- società civile, rimanda ad una visione, per tornare al tema conclusivo di questo paragrafo, di un operatore che naturalmente non è onnisciente e si avvale insieme all’Ente, di strumenti che cerchino di creare le condizioni migliori affinchè si lavori a favore delle relazioni nella comunità. Ci sono situazioni in cui l’operatore potrà coordinare direttamente iniziative e progetti, altre in cui la “competenza” andrà esercitata più opportunamente dai soggetti (organizzati o meno) già leader, già riconosciuti dal contesto di riferimento.

Il passaggio necessario (per un’azione community oriented) è quello di chiedersi fino a che punto le persone coinvolte in iniziative di sviluppo di comunità (che prevedono l’offerta di servizi o la realizzazione di eventi), siano realmente messi nelle condizioni di sviluppare la loro presenza, con la possibilità di incidere nella realizzazione dei processi di attivazione e contrattualizzazione.

Chiedersi se si stiano realizzando quelle forme di coordinamento e integrazione, come dovrebbe avvenire in una logica di local governance.

Il rischio, è che si configuri uno scenario già visto, ovvero che chi, alla fine, “fruisce” di un evento o ancor più di un’iniziativa e un servizio, si senta diverso dagli “altri” e adatti il proprio comportamento al contesto di vincoli e opportunità che gli sono offerti (Ranci Ortigosa, 2002 p.3), senza sentirsi anch’egli “competente” e capace di mettere in gioco