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Abbiamo visto fin qui visto, come una relazione, specialmente se d’aiuto, possa subire

1.4 Il gioco della relazionalità nel social work: dai modelli teorici alla metodologia di intervento

1.4.2 Perché soffermarsi su Helen Perlman?

Con Helen Harris Perlman34 si supera la dicotomia esistente a proposito di trattamento sociale diretto-indiretto, nel senso che l'azione centrata sull’individuo e quella diretta a mobilitare le risorse non sono distanti, ma agite in maniera unitaria dallo stesso operatore sociale che utilizza e interviene sulle risorse, nella misura in cui è riuscito ad entrare nel problema e a cogliere il nesso con le stesse. Il punto centrale è quello di lavorare con la persona “sul problema” e “sui rapporti” con la situazione e con le risorse esistenti. Il libro della Perlman al quale si fa riferimento si intitola Relationship. The heart of halping people del 1979.

Helen Perlman parte dal presupposto che la vita dell’individuo sia un continuo processo di soluzione dei problemi, che si realizza attraverso l’analisi delle situazioni, la riflessione e la scelta delle soluzioni possibili.

Questo processo si attua attraverso il continuo “colloquio interno” della persona che esamina i problemi in modo razionale, tenendo però anche conto dei sentimenti.

A un certo punto, tuttavia, si possono incontrare delle difficoltà che postulano la necessità di un aiuto, di un intervento esterno per far funzionare in modo corretto i meccanismi che

34 Helen Harris Perlman (1906-2004) è morta all’età di 98 anni a Chicago dove ha studiato e iniziato la sua professione di

social worker. Essa rappresenta una figura pionieristica nel lavoro sociale che ha arricchito con numerose pubblicazioni e

contributi. Docente all’Università di Chicago, Helen Perlman è ricordata specialmente per la sua opera più celebre e utilizzata nelle scuole di servizio sociale ovvero Social casework: a problem solving process, pubblicato nel 1957 e tradotto in oltre 10 lingue. Il suo pensiero fu innovativo in quanto riuscì a staccarsi dalla sua stessa matrice psicanalitica, mettendo in discussione i percorsi terapeutici di lunga durata e credendo in interventi a breve termine, focalizzati su compiti specifici che riconoscevamo maggiore autonomia e libertà alle persone assistite. La figura di Helen Perlman ha ricevuto gli onori di numerose associazioni internazionali, come la National Association of Social Work e il Council of Social Work Education e delle Università del Sud della Florida, del Minnesota e della Boston University.

regolano il processo di problem-solving. Difficoltà che possono collocarsi a livelli diversi. Si può assistere a situazioni di incapacità nella comprensione del problema, per eccessivo coinvolgimento emotivo (ansia); il formarsi di circoli viziosi per la persistenza di stereotipi verso soluzioni in passato risultate valide, ma non adeguate al problema attuale; incapacità nell’individuazione di soluzioni alternative (cristallizzazione); carenza di risorse e strumenti utili alla soluzione del problema o scarsa conoscenza degli stessi; resistenza al cambiamento. L’assistente sociale deve tener conto di tali difficoltà e agire, avendo come obiettivo principale, quello di impegnare il soggetto alla riflessione e al lavoro sui propri sentimenti, sulle idee e i comportamenti, in relazione al problema e alle risorse.

Il processo di aiuto comprende tre operazioni essenziali: (i) il problema deve essere compreso;

(ii) i sentimenti devono essere espressi, ripensati e chiariti; (iii) questo processo di riflessione

deve portare alla modifica delle risposte comportamentali che la persona dà al suo problema. Si tratta di un processo di apprendimento sociale, ovvero di apprendimento di nuovi modelli di comportamento per far fronte ad un problema. Con il modello centrato sul compito di William Reid e Laura Epstein (1972), il riferimento alle teorie cognitiviste (che già c’era in Perlman), in particolare a Beck, diventa esplicito e non si affrontano più le cause remote dei problemi, ma i fattori attuali che li causano. L'accento è posto su due aspetti interessanti che ritengo utile riportare: il primo concerne la reciprocità dei compiti, che qui è intesa come equa spartizione di impegno e responsabilità, più che come concetto dotato di qualche forma di relazionalità (nel senso del refero, muoversi in funzione dell'altro e con riferimento all'altro). Il cambiamento è effettuato soprattutto attraverso azioni e compiti che il cliente e l'operatore intraprendono al di fuori del colloquio, in questo senso la reciprocità diventa impegno, responsabilità e peso spartito in due. Il secondo aspetto è quello della verifica e revisione dei compiti da parte dell'operatore all'interno del colloquio. Il tipo di colloquio al quale si fa riferimento è quello di Carkuff (1979), che si rifà proprio alla revisione dei compiti. Questo riferimento teorico, per altro, è molto utilizzato nella pratica, se si pensa alla fase del contratto e del progetto, che devono essere condivisi e stipulati di persona, prevedendo precise azioni. In sintesi, soffermarsi su Helen Perlman può essere utile per due motivi. Il primo, riguarda il fatto che il modello della Perlman tende a superare lo schema diagnostico dei principali modelli psicodinamici, rivalorizzando al massimo gli aspetti dell’ “hic et nunc”. Il secondo aspetto, riguarda la ricerca di cambiamenti e l’assunzione di decisioni, che nella prassi quotidiana rappresentano un elemento talora fin troppo preponderante. Perseguire cambiamenti continui non significa farli propri e neppure sviluppare intorno ad essi reale

Se il modello della Perlman, allora, descrive ancora un processo d’aiuto fatto di relazioni asimmetriche e di distanza tra tecnico e situazione problematica, esso si rivela utile nel richiamare l’attenzione al momento presente e alle azioni concrete da poter mettere in pratica, entro i confini di una riflessione congiunta che investa, operatore e famiglia coinvolta.

In conclusione, i modelli psicodinamici possono offrire all’operatività del social work la distinzione importante tra processi terapeutici volti ad intervenire sulla personalità dell'utente/paziente, e processi di apprendimento sociale, nel senso specificato dalla Perlman, di apprendimento di nuovi modelli di comportamento per far fronte ad un problema. Nella pratica, questo conduce al tema del rapporto tra professionisti, in particolare psicologi e assistenti sociali che possono lavorare in maniera congiunta oppure in maniera individualista, seguendo le strade del tecnicismo che parallele avanzano, ma che con difficoltà trovano punti d’incontro.