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Abbiamo visto fin qui visto, come una relazione, specialmente se d’aiuto, possa subire

1.5 L’esercizio della riflessività nelle best practices

1.5.1 Critical best practice

Secondo Harry Ferguson37 (2008) una definizione immutabile di buone prassi nel lavoro sociale non esiste, ne potrà mai esserci poiché va contestualizzata nel tempo e nello spazio; sebbene in ogni epoca si siano cercati standard per definire cosa andasse bene, la buona prassi è per l’Autore una costruzione sociale di un certo tempo e di un certo contesto, che va costantemente messa in discussione.

Fatta questa premessa, per Ferguson è possibile analizzare le buone pratiche, secondo una prospettiva critica, che significa utilizzare i concetti della sociologia critica38 e mettere in discussione il negativismo della professione, a favore di quanto c'è di buono.

In quest’ottica la bontà della pratica non è tanto data dall'esito della stessa, quanto dall'esito dell'esplorazione dell'esperienza, detto in altri termini, una pratica si considera buona perchè contiene la componente critica, gli operatori sociali hanno usato la capacità di riflettere criticamente. Un breve cenno tuttavia, per comprendere la portata del termine “critico” merita la prospettiva da cui tale termine trae origine che è quella del radical social work. Si tratta di un approccio, sviluppatosi negli anni ’70 in Inghilterra in un momento fondamentale di passaggio da un social work assistenziale a un social work finalizzato a far emergere capacità e potenzialità delle persone, perseguendo obiettivi di giustizia sociale. Il lavoro sociale radicale, diffuso in molti Paesi occidentali come antioppressivo (Dominelli, 2002), poneva al centro della sua riflessione lo studio del potere nelle relazioni e delle strutture sociali sugli utenti39. Il lavoro sociale pubblico era visto come strumento a vantaggio delle classi dominanti e del capitalismo. La pratica richiedeva una visione meno rigida dell'uso del

37 Professore di social work alla University of the West of England e maggiore esponente del filone di critical best practice,

Ferguson ha portato l’approccio di Giddens nel social work e ha espresso critiche nei confronti della pratica basata sulle evidenze empiriche evidence-based practice.

38 La Teoria critica è associata al lavoro di Teodoro Adorno, Max Horkeimer e altri membri della Scuola di Francoforte degli

anni ’30 e ’40 i quali a partire dagli studi di Freud sulle forze interne che agiscono sull’individuo, affermarono che per realizzare cambiamenti sociali era necessario comprendere entrambe le categorie di fattori: forze psichiche interne, e condizioni sociali ed economiche.

39 Nei primi anni ’70 questo pensiero e movimento reagiva al casework con la sua tendenza psicanalitica a ricondurre tutti i

problemi a deficit individuali, considerato da molti un metodo per controllare poveri e oppressi. Nell'Approccio Antioppressivo l'idea centrale è di non contribuire inconsapevolmente alle dinamiche sociali, culturali ed economiche che creano povertà emarginazione e disuguaglianza. Alcuni individui risultano svantaggiati per il modo in cui la società è strutturata. Le discriminazioni operano a livello culturale, personale e strutturale, in maniera diretta o in forma più subdola

potere40 e aperta certamente a influenze antidiscriminatorie e antioppressive in senso post- moderno, ovvero aprendo gli occhi sull'ascolto dell'utente, sulla sua voce, i suoi linguaggi e il contesto (conoscenza situata), tenendo conto che ci sono anche tanti utenti involontari o tanti altri non aiutabili, se non mediante un controllo rispettoso (ibidem). Dovendo sintetizzare contributi e criticità di questo approccio, esso lascia in eredità al social work il significato di non imporre all'utente le scelte degli operatori e di aiutarli a sviluppare progetti di vita (autodeterminazione), secondo valori di giustizia, equità, non discriminazione ed

empowerment.

D'altro canto ci sono dei limiti: nel concreto le realtà sono complesse e superano il semplice schema vittima-oppressore, non è così facile distinguere chi sia l'uno o l'altro. Non è possibile ridurre i problemi della pratica ad una serie di scelte e di opzioni buone o cattive, valutando le situazioni in termini solo di poteri e diritti Ci sono utenti non in grado di affrontare le responsabilità che finiscono per opprimere se stessi e gli altri, così come ci sono operatori che possono sbilanciarsi nell’uso del potere nelle relazioni, privando l'utente di possibilità autonome di soluzione e del “senso” di potercela fare.

Un altro limite di questa prospettiva si riscontra nella valutazione delle pratiche, quindi nell'utilizzo dei criteri antioppressivi per considerare buono un intervento. I rischi sono di porsi obiettivi irraggiungibili, date le risorse e dati anche i servizi formali in cui lavoriamo o di non riuscire a vedere ed esprimere i cambiamenti significativi a livello sociale e personale. Filtrato dei suoi elementi più radicali, l’approccio critico alle buone prassi si può considerare costruttivo (Parton e O’Byrne), nel senso che si tengono in considerazione i contesti specifici, ma anche i diversi punti di vista dei soggetti coinvolti; nel dare priorità e importanza ai modi di conoscenza delle situazioni e ai modi di definire e progettare soluzioni Cooper B.(2001). Fatta questa breve digressione, è necessario tornare alla definizione di approccio critico alle buone prassi che contiene un altro elemento fondamentale che è quello della riflessività, declinato in maniera più operativa rispetto a quanto descritto nel paragrafo precedente.

Prendere in esame buone pratiche secondo un’ottica critica, significa utilizzare in chiave riflessiva la metodologia, le conoscenze teoriche e i principi etici. Significa in pratica: (i) raccontare cosa pensano gli operatori quando ritengono di lavorare bene; (ii) quali ragionamenti portano alle decisioni; (iii) quali emozioni attraversano la relazione d'aiuto; (iv) come questi elementi diventano oggetto di consapevolezza. La riflessività è pertanto intesa come sguardo diretto a se stessi e le condizioni degli altri. Nel testo di Ferguson, tradotto da

40 Sul tema dell’uso del potere Malcom Payne in What is Professional social work? (p121-174) identifica tre tipi di potere nel

social work: legal power, personal influence, professional knowledge and skills. Essi possono essere utilizzati con i clienti direttamente o con alter persone, for clients’ benefit or disadvantage.

Maria Luisa Raineri, vengono tracciate in conclusione alcune indicazioni operative per un social work critico riflessivo che ritengo utile sintetizzare e fa riferimento all’utilizzo dei dati empirici e delle ricerche di sfondo, all’utilizzo del linguaggio, della negoziazione e della fase di assessment (tabella 1.2).

Utilizzo di dati statistici e

ricerche di sfondo Base di comprensione contestuale delle specifiche situazioni. Si rifiuta un utilizzo prescrittivo delle singole metodologie e degli approcci basati sulle evidenze scientifiche.

Fase di assesment Non si da priorità alla raccolta dei dati obbligati dai protocolli. Non si cercano soluzioni certe, ma si stabilisce un nuovo modo di ragionare che tolleri la complessità, l'incertezza, l'ambiguità delle situazioni concrete invece di cercare semplificazioni illusorie e soluzioni considerate certe. Si chiede alla persona di partire dal racconto dalla sua storia, invece di partire dalla compilazione dei protocolli operativi.

Linguaggio È necessario mettere in discussione eventuali ipotesi iniziali sul caso, se costruite mediante un linguaggio che può sottendere giudizi involontari come le espressioni “a rischio”, “non collaborante”, “non idonea”. Si può tentare di decostruire tali definizioni sostituendole con altre che raccontino l'esperienza individuale della persona in maniera più produttiva (principio di decostruzione del modo in cui il linguaggio costruisce le idee). Quest’utilizzo del linguaggio deriva da una visione che lo pone come elemento che contribuisce a dare significato a quello che facciamo, influisce sui comportamenti e modella la stessa identità. Quello che si dice trasmette non solo un messaggio, ma il significato delle relazioni (analisi del parlato). Il coinvolgimento empatico riflessivo può consentire una valutazione migliore (es. non dare per scontato che il luogo migliore per la persona sola, coincida con l'immagine di un ambiente comunitario, poichè il benessere di una persona può dipendere più dal mantenimento delle autonomie che non dalla rimozione dei fattori di rischio).

Negoziazione Significa tollerare l'incertezza, essere flessibili e aperti al riconoscimento delle relazioni di potere esistenti (es. del segretariato sociale su invio di altri servizi in cui occorre ridefinire il problema).

Tab. 1.2. Principali elementi per un social work critico riflessivo.

Fonte: Ferguson (2008). Rielaborazione di Vendemia.

Negoziazione e assessment sono come la base di un intervento competente. Occorre però dire che le tendenze attuali, vedono l’assessment sempre più concepito come griglia da compilare, relazione scritta che segue lo schema predisposto dal servizio e perde il suo essere parte di un processo interpersonale complesso. L’idea alla base di questa tendenza, è di raccogliere tutte le informazioni e di prendere in considerazione tutte le variabili possibili (questo è ancora più vero negli approcci basati sull’evidece-based, ma tracce cospicue di questa tendenza è rinvenibile in tutti i servizi istituzionali).

Naturalmente si tratta di un’aspettativa poco utile e anche irrealistica, che tacitamente lascia intendere che da qualche parte esita una pratica professionale eccellente sotto il profilo

lavoro degli operatori. L’approccio critico riflessivo alle buone prassi, in ultima istanza è appunto finalizzata a rispondere a queste tendenze diffuse e a ridimensionare la preoccupazione degli operatori, di non essere all’altezza di tali aspettative (considerate irrealistiche). Insomma, come direbbe Bauman (2005), lo zelo dell’aggiornamento e la paura di essere carenti, rispetto ai protocolli operativi è antitetica ad un approccio creativo, in cui si negoziano le relazioni.

1.5.2 Tra individualismo e relazionalità: tracce di riflessività nelle teorie