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CONTESTUALIZZARE I SERVIZI SOCIALI RELAZIONALI NELLA GOVERNANCE LOCALE

2.5 Contestualizzare i processi di morfogenesi del welfare

Sono stati tratteggiati fino ad ora, alcuni passaggi salienti nella recente programmazione regionale e locale, che hanno messo in evidenza da una parte i principali condizionamenti in atto a livello normativo e dall’altra parte, sebbene in maniera molto circoscritta (e con riferimento specifico ai risultati emersi da alcuni tavoli di lavoro dei Piani di Zona del Distretto di Parma), le risposte dei soggetti direttamente coinvolti nelle politiche sociali. In questo paragrafo si cercherà di dimostrare come (in parte) si siano poste le basi per la realizzazione di un welfare societario plurale, facendo riferimento ai principali contenuti di questa peculiare forma di welfare. Lo scopo è quello di contestualizzare i processi in atto a livello locale per poter meglio comprendere (mediante gli studi di caso, come si vedrà nel prossimo capitolo), il significato dell’adozione dei servizi sociali relazionali, come modello organizzativo e culturale prevalente.

La proposta di un welfare societario richiede la realizzazione di alcune condizioni, sia di natura strutturale che culturale82. Prima di approfondire questo punto tuttavia, è necessario fare un breve passo indietro, atto a focalizzare i principali contenuti del concetto di welfare. Quando si parla di welfare è inevitabile imbattersi negli innumerevoli e talora controversi dibattiti che hanno animato questo tema e che hanno coinvolto professionalità molto diverse tra loro, politiche, giuridiche, economiche, psicologiche e sociali. Rinunciando, per motivi di tempo e spazio ad una disamina storica, è possibile focalizzare alcune dimensioni evolutive utilizzando le parole di Achille Ardigò83, in quale faceva riferimento al concetto di welfare

state come «fenomeno sociale la cui conoscenza critica e la comprensione delle cui

differenze, variazioni, trasformazioni, nel tempo e nello spazio (delle società moderne) sono da perseguire, avendo riguardo ai sistemi sociali di riferimento, nelle situazioni storiche date» (Ardigò, 1981, p.2).

Egli indicava, come via privilegiata di lavoro, quella di contestualizzare e osservare i sistemi di sicurezza sociale all’interno dei mutamenti, delle trasformazioni e delle aspettative sociali. Nel processo di crisi che investiva i sistemi di welfare, Ardigò scorgeva nella rivoluzione

culturale delle aspettative la riduzione della presenza di Stato e Mercato a favore di «gruppi e

movimenti collettivi in larga misura de istituzionalizzanti rispetto ai modelli organizzativi centralizzati […]; a favore di un pluralismo vitale e non zoppo: tanto di esperienze associative

82 Con questo paragrafo non si ha la pretesa di trattare il tema in maniera approfondita ma solo di cogliere alcuni elementi

significativi utili ad affrontare la fase di ricerca empirica e a trarne alcune conclusioni finali.

83 Si fa qui riferimento al noto saggio Introduzione all’analisi sociologica del welfare state e delle sue trasformazioni,

contenuto in M. La Rosa, E.Minardi, A. Montanari, “I servizi sociali tra programmazione e partecipazione”, Franco Angeli Editore, Milano, 1981, pagg. 41 – 83 .

e gestionali, che di valori esistenziali e ideologico-politici, condivisi. Il tutto nella maggior duttilità e varietà possibile di nuovi rapporti fra privato e pubblico, con la speranza (e con l’avvertenza) che ciò non riconduca al ghetto, alla corporazione, alle logiche di mercato o allo stato assistenziale pre-beveridgiano». (ibidem).

Nelle parole dell’Autore, al centro della crisi del welfare state c’è l’ipotesi di un “neo- corporativismo”, ovvero dell’incorporazione dei grandi interessi organizzati e contrapposti nei centri e processi di decisione dello Stato. Egli ha per questo tematizzato la crisi, come crisi di “scambio di transazione” tra sistema sociale e individui (mondi vitali), per cui occorrerebbe privilegiare l’attenzione verso i mondi vitali o sottosistemi e forme organizzate di privato sociale84. Anche in fase valutativa delle politiche, Ardigò parlava della necessità di superare la

regressione di un’impostazione basata su politiche finalizzate ad «assicurare fabbisogni

essenziali per tutti, secondo misure standard assunte come naturali». Una valutazione che doveva superare nel suo impianto metodologico il confronto quantitativo tra le prestazioni di servizi e di consumi pubblici offerti da un dato sistema, per orientarsi verso variabili più “mobili”, legate alle persone e alle loro abitudini.

Le parole di Ardigò consentono di andare al cuore del tema quando si parla di welfare state, e specialmente quando ne viene messa in discussione la traduzione operativa più diffusa in Italia, quella dello stato assistenziale o stato del benessere sociale, per cui lo Stato deve proteggere certi livelli di reddito, di alimentazione, salute, istruzione, sicurezza pubblica e abitazione, secondo modelli o principi standard.

Riprendendo Cesareo (1981), sappiamo che l’adozione del modello assistenziale in Italia, verso la fine degli anni ’60, si è attuata in termini accentuati e spesso più marcati di quanto sia avvenuto altrove.

La crescita dei bisogni e il parallelo aumento dei servizi in risposta a questi bisogni, ha condotto ad una struttura “bulimica” di vita, di “iper-aspettavitve” verso la pubblica amministrazione, via via sempre meno soddisfatte.

84Già nel 1840, Tocqueville intuisce l’organicità e la centralità dello stato assistenziale come modo di essere e di affermarsi

dello Stato succeduto alla rivoluzione francese. Nel terzo libro della Démocratie en Amerique, Tocqueville scrive con anticipatrice sintesi: “Quasi tutte le istituzioni caritatevoli dell’antica Europa erano nelle mani di privati o di corporazioni; ora sono cadute tutte più o meno nella dipendenza del sovrano e, in molti paesi, sono rette da lui stesso.” Dopo la rivoluzione francese, “lo stato ha intrapreso quasi da solo a dare il pane a quelli che hanno fame, soccorso e asilo agli ammalati, lavoro agli oziosi; esso è diventato il riparatore quasi unico di tutte le miserie. L’educazione, come la carità, è divenuta presso la maggior parte dei popoli dei nostri giorni un affare nazionale. Lo stato riceve, e spesso prende, il fanciullo dalle braccia della madre per affidarlo ai suoi agenti; [ ... ] “L’uniformità regna negli studi come in tutto il resto; la diversità come la libertà, scompaiono ogni giorno. Insomma, lo Stato che sarà poi detto del benessere è la condizione genetica di quel “dispotismo amministrativo” che Tocqueville, come noto, vede per primo concrescere con la sovranità popolare, e contro il quale addita la via dell’associazionismo di semplici cittadini anche in sostituzione dei declinanti poteri intermedi già arroccati attorno alle aristocrazie locali. La via tocquevilliana dell’associazionismo libero di privati cittadini in campo solidaristico sarà seguita,

Donati (1999) parla a questo proposito di crisi del modello interventista in un’ottica che deve tenere insieme più aspetti, per comprendere limiti strutturali ed effetti perversi che lo stesso Stato sociale può generare85.

Adottando un approccio di tipo relazionale, è dunque possibile aggiungere qualcosa in più rispetto al welfare e alla sua configurazione assistenziale; la crisi di questo sistema può essere letta come assenza di solidarietà nei sistemi di scambio tra pubblico e privato che nella loro interdipendenza presentano un empasse, un blocco rispetto a cosa sia “il bene comune” e come realizzarlo86. Questo paradigma, detto anche della doppia contingenza consente di poter spiegare la crisi, fornendo indicazioni sulla necessità di ridurre l’asimmetria comunicativa nel sistema dei servizi, e di dare riconoscimento ai mondi vitali. Il modello di benessere perseguito è pertanto quello agito da tutti gli attori, in maniera responsabile e non passiva, mediante regole che favoriscano le soluzioni decentrate e negoziali e che diano spazio all’autonomia.

Un esempio concreto del riconoscimento e della valorizzazione dei mondi vitali è legato, ad esempio, allo sviluppo delle politiche sociali per la famiglia. Riconoscere il principio di cittadinanza della famiglia implica una svolta radicale nel modo di concepire il welfare state, e modifica le strutture portanti dell’intera organizzazione della società. Tali politiche, infatti, chiedono titolarità di cittadinanza non solo per gli individui (come tali o appartenenti a categorie sociali), ma per la famiglia come categoria intermedia, a favore della quale non operare solo in maniera assistenziale (per sgravarla dalle responsabilità familiari), ma per renderla autonoma (concretizzando il passaggio ad un rapporto sussidiario).

Recentemente, all’interno del Piano Nazionale per la Famiglia, approvato con Delibera del Consiglio dei Ministri il 7 giugno 2012, la famiglia è stata definita come «luogo di solidarietà relazionale fra coniugi e fra generazioni» che prevede politiche “esplicite” e “dirette” sui nuclei familiari, i quali sono considerati non più solo come risorse strumentali al raggiungimento di altri fini (di inclusione sociale o sviluppo demografico), ma come obiettivo a sé stante. Fare politiche esplicite e dirette significa, pertanto, sia realizzare interventi mirati alle persone come soggetti individuali di diritto (che non richiedono un riferimento al legame di coppia), sia interventi al nucleo87.

85 Per motivi di spazio non è possibile entrare nel merito delle motivazioni che hanno condotto alla crisi degli attuali modelli

di welfare, basti qui dire che l’aumento della spesa pubblica e i forti squilibri in termini di equità economica ha incrementato disuguaglianze e povertà. A queste si aggiungano la peculiarità della crescita demografica e dell’invecchiamento della popolazione di questi anni.

86 Donati propone la distinzione tra Teoremi e Paradigmi di crisi del Welfare State. I primi centrati più sull’individuazione

dei nessi causali o correlazioni tra crisi e determinate variabili per lo più legate al rapporto tra pubblico e privato. I paradigmi invece sono orientati per lo più a dare indicazioni di politica sociale.

87 Nel Piano si fa specifico riferimento ad interventi ad esempio di imposizione fiscale o di sostegno concesso in ragione del

La realizzazione di un welfare “familiare sostenibile e abilitante” è nelle finalità del Piano, basato su un principio guida che è quello della capacitazione o empowerment delle famiglie, anziché del mero assistenzialismo.

A fare da cornice a questa nuova visione della famiglia e del welfare, il Piano contiene un esplicito riferimento alla necessità di “non consumare” capitale sociale, inteso sia come legame interno (bonding) e di connessioni associative tra pari (brindging), sia di tipo reticolare fra attori sistemici che operano a differenti livelli.

In quest’ottica il principio del “miglioramento delle condizioni di vita” delle famiglie più bisognose cede il passo alla necessità di “incidere sulle capacità di vita”, e «attivare circuiti societari tra Stato, mercato, terzo settore, privato sociale e famiglie senza i quali», si dice, «diventa impossibile uscire dallo stato di bisogno».

Il Piano nazionale prevede diversi interventi che dovranno essere realizzati all’interno della programmazione regionale e locale. Tra gli altri, le agevolazioni per l’accesso alla casa di giovani coppie e il sostegno al lavoro di cura familiare con lo sviluppo sia della rete dei servizi per l’infanzia (come i nidi aziendali), che dei servizi per genitori e figli adolescenti, in affido o adozione; i tempi di cura (con un rafforzamento dei congedi familiari e parentali e una maggiore flessibilità lavorativa); il sostegno ai costi di educazione e al lavoro di cura. Ma ciò che qui interessa sottolineare sono gli orientamenti culturali su cui si basano gli interventi e gli strumenti previsti tesi a dare concretezza ai cambiamento prospettati.

Per quanto riguarda gli orientamenti, il Piano prevede che gli interventi alle famiglie, e quindi il nuovo welfare, sia improntato a supportare la domiciliarità (domus oriented), il sostegno ai carers (family centred) e allo sviluppo di una comunità attiva che sostenga questi nuclei (community oriented).

2.5.1 Una morfogenesi realizzata solo in parte

Se dovessimo focalizzare l’attuale processo di morfogenesi a livello regionale, potremmo dire che fino all’introduzione di nuovi strumenti, come il profilo di Comunità e l’Atto di indirizzo della Conferenza Territoriale Sociale e Sanitaria, l’enfasi è stata centrata per lungo tempo su strumenti operativi come i Piani di Zona, intesi come strumenti centrali nella gestione e organizzazione delle risorse, in attuazione delle priorità e degli indirizzi indicati a livello provinciale.

E’ chiaro, che lo sviluppo di comunità non possa che avvenire a livello locale, e l’introduzione di questi strumenti impone di ragionare a livello più ampio, cercando di

cogliere le connessioni sui mutamenti in atto. Nelle indicazioni fornite dalla Regione, l’enfasi viene posta sull’importanza dei processi, e quindi delle relazioni che si stabiliscono per riuscire ad esprimere un’analisi sulle risorse solidaristiche, piuttosto che sui livelli di benessere percepiti.

E’ possibile a questo punto ricorrere alla metodologia dei cicli morfogenetici /morfostatici finalizzati a mostrare quali forme culturali e strutturali sono emerse nel tempo (Archer, 1998)88.

Facendo riferimento a questa metodologia, è possibile presentare i tre momenti del processo di analisi, distinti in condizionamento strutturale e culturale, interazione sociale ed elaborazione (Fig.2.1)

E’ possibile pertanto osservare che, in un arco di tempo abbastanza ristretto (2008-2011, T1-

T4), si assiste ad una forte spinta culturale a favore della centralità delle relazioni familiari e

comunitarie a livello nazionale, regionale e locale, mediante una serie di condizionamenti normativi. Al tempo T2-T3 le interazioni dei soggetti pubblici e di privato sociale direttamente coinvolti nelle politiche sociali producono una presa di coscienza circa la necessità di modificare il proprio modus operandi, in una logica che si distanzia da quella consulenziale e individuale, per aprirsi ad una “logica di gruppo”, di connessione delle persone, dei bisogni e in particolare delle relazioni (la necessità di una connessione tra i servizi appare ormai una consapevolezza maturata da tempo). Morfogenesi culturale e strutturale non sembrano tuttavia viaggiare in parallelo, con un vuoto che di fatto permane a livello strutturale; il rischio, è un incremento della distanza tra quanto auspicato e desiderato in termini di cambiamento, e quanto nella realtà dei fatti realizzato. Nella tabella di seguito riportata, è possibile osservare che al tempo T4 resta aperto il problema di come configurare

un modus operandi diverso, poiché la spinta culturale non ha dato vita ad una struttura di lavoro che consenta alle famiglie e ai soggetti informali di partecipare concretamente ai cambiamenti in atto, in forma più ampia e di gruppo, come invece ci si auspicava. Al tempo T4 gli strumenti della programmazione non hanno incrementato o modificato i rapporti con i gruppi familiari e informali del territorio.

88 In estrema sintesi, questa metodologia è legata da una parte all’osservazione delle influenze causali che vengono esercitate

dalle strutture sociali e culturali sull’interazione sociale e socio-culturale; dall’altra sull’esito delle interazioni sociali e socio-culturali che possono elaborare (morfogenesi) o riprodurre (morfostasi) le relazioni esistenti.

Fig. 2.1. Trasformazioni del welfare. Morfogenesi strutturale e culturale nella Regione Emilia Romagna.

A conclusione di questo capitolo, si cercherà pertanto di trarre alcune considerazioni finali sugli aspetti che potrebbero favorire la realizzazione di struttura organizzativa in grado di porre al centro le politiche per la famiglia e per un welfare di tipo societario.

Restano tuttavia da approfondire alcuni contenuti che i cambiamenti culturali in atto, sembrano portare con se: mi riferisco allo sviluppo di comunità e al lavoro di rete.