• Non ci sono risultati.

I modelli sistemico-relazionali e l’utilizzo del colloquio di aiuto

Abbiamo visto fin qui visto, come una relazione, specialmente se d’aiuto, possa subire

1.4 Il gioco della relazionalità nel social work: dai modelli teorici alla metodologia di intervento

1.4.3 I modelli sistemico-relazionali e l’utilizzo del colloquio di aiuto

Si è visto come in Reid ed Epstein ci fosse già un'attenzione alle relazioni sistemiche. Questo tuttavia, non consentiva ancora all’intervento sociale di superare i confini di un modello educativo, finalizzato ad insegnare all’utente adeguate modalità di soluzione dei problemi. All’interno del servizio sociale, il vero cambiamento si osservò pertanto con il tentativo di abbandonare il modello medico.

Questo avvenne quando iniziò a diffondersi il principio secondo cui utente e servizio sono due sistemi sociali in relazione.

Ci si sposta così verso una seconda fase di sviluppo dei modelli teorici (anni ‘70), in cui si assume la teoria dei sistemi come quadro esplicativo dei fenomeni stessi e si teorizzano interventi in una prospettiva unitaria e globale, dando origine a modelli orientati ad una visione integrata del servizio sociale (Perino, 2010).

Tra questi modelli definiti olistici o integrati si possono distinguere: il modello esistenziale formulato a partire dalle idee espresse da Gordon nel 1969 e riprese successivamente da Germain (1979); il modello unitario che è stato elaborato da Goldstein nel 1973; il modello integrato elaborato da Allen Pincus e Anna Minahan nel 1973. In Italia, lo sviluppo di un modello sistemico relazionale partì negli anni '80, facendo seguito alle riflessioni sulla teoria generale dei sistemi di Von Bertanlaffy e delle sue applicazioni operative ai problemi familiari. Annamaria Campanini e Francesco Luppi furono i primi a proporre la costruzione di un modello teorico partendo da un valore centrale per il servizio sociale, ossia il rispetto della

persona umana nella sua dignità e libertà. Un valore tradotto in atteggiamenti quali l’accettazione e l’autodeterminazione. In questa nuova cornice teorica, l’assistente sociale deve porsi come strumento che introduce informazioni nuove, non sostituendosi mai alla persona e non offrendo modelli rigidi a cui adeguarsi, ma facilitando il cambiamento e la riorganizzazione del sistema stesso, rispettandone i tempi, le caratteristiche e le finalità. Inoltre, attraverso la neutralità, secondo questi Autori, l’operatore assume una posizione non giudicante che consente, pur nel rispetto del mandato istituzionale, il superamento di valutazioni legate a stereotipi che eludono il contesto relazionale in cui la persona è inserita. A differenza dei modelli psicodinamici, l'epistemologia che sta alla base della teoria sistemica si fonda sul concetto d’informazione: il suo metodo di ricerca è costituito dall'analisi delle relazioni tra variabili, e operativamente questo si traduce in una relazione che considera la complessità e globalità della condizione della persona (Campanini, 2004).

L'approccio sistemico consente nella prassi di considerare l'incontro con l'utente-famiglia come se fosse un microcosmo, con la sua storia e i significati elaborati nella rete di rapporti che lo caratterizzano. Relazioni e interazioni tengono in piedi il sistema. Il concetto d’interazione consente di vedere l'interdipendenza delle parti e la reversibilità delle relazioni che comporta cambiamenti per tutto il sistema. Alla base dei processi interattivi, dei cosiddetti sistemi aperti, vi è poi il concetto di retroazione, di feedback, che favorisce il cambiamento a seconda dell'esito positivo o negativo.

Adottare questa chiave di lettura significava ragionare in termini nuovi, abbandonare la visione meccanicistica - causale dei fenomeni, per acquisire un’ottica che portasse a considerare i membri di una famiglia o di un gruppo sociale come elementi di un circuito di interazione, in cui il comportamento dell'uno influenza il comportamento degli altri (ma non ne è causa diretta). Alla base di questi modelli c’è la concezione del ruolo dell’operatore sociale come “agente di cambiamento” personale, familiare e sociale. L’obiettivo di cambiamento sostituisce gli obiettivi di cura del modello medico. L’assistente sociale, partendo dalla comprensione della dinamica sociale e psicologica in cui si trova il cliente, deve definire gli obiettivi di cambiamento da raggiungere e i mezzi per conseguirli. Questa definizione di obiettivi e mezzi è il progetto d’intervento. Il concetto di strategia35 diventa una delle parole centrali di questi modelli. L’approccio sistemico mette in guardia inoltre dall’illusione di aver risolto una situazione, eliminando il sintomo; la mancata azione sugli schemi relazionali potrebbe cronicizzare ulteriormente la situazione.

Fatte queste premesse teoriche, è possibile chiedersi cosa possa offrire l'approccio sistemico in termini di relazionalità, e quali sono invece i rischi ai quali è necessario porre attenzione. Per fare questo ho deciso di utilizzare lo strumento di social work che ha trovato maggiore approfondimento nella cornice sistemica, ovvero il colloquio di aiuto.

Come già accennato, il colloquio di aiuto è definito da Maria Teresa Zini e Stefania Miodini (1997), autrici di un testo di riferimento per molti assistenti sociali, quale «strumento per costruire un ponte metaforico con l’altro […] uno spazio mentale e fisico, dove temporaneamente convivono due soggetti in interazione complementare (up-down), di cui uno è l’assistente sociale con la responsabilità della conduzione e del controllo della relazione

di aiuto, e l’altro è l’utente» (ivi, p.25). Insieme, «operatore ed utente, costruiscono un

processo dinamico che ha insite le potenzialità di una comunicazione paritaria dal punto di

vista delle persone, modalità che nell’evolversi dell’intervento favorisce nell’utente

l’acquisizione di nuovi apprendimenti».

Il colloquio si inserisce in un processo di valorizzazione che è finalizzato a sostenere l’utente in una posizione up per stimolare tutte le sue risorse e favorirne la responsabilità e l’autonomizzazione anche dalla relazione con il servizio stesso . Esso s’iscrive all’interno di un modello teorico che le stesse autrici precisano essere quello sistemico – relazionale, dal quale vengono riprese alcune idee di fondo36. Come sottolineato dalle due autrici, la scelta

dell’approccio sistemico - relazionale «permette di acquisire consapevolezza che ogni intervento (dell’assistente sociale) deve essere strategico e intenzionale, effettuato anche con il singolo, ma inserito nei suoi sistemi di riferimento socio affettivi» (ivi, p.28)

Concetti fondamentali di questa cornice teorico-operativa sono: (i) la circolarità, ossia la consapevolezza di diventare parte di un sistema interattivo aperto all’influenza reciproca, (ii) la neutralità come capacità di costruire alleanze temporanee e provvisorie e non creare invece coalizioni, (iii) l’ipotizzazione, ovvero la costruzione di ipotesi di lettura che sono un riferimento e non verità assolute, (iv) l’omeostasi/cambiamento come condizioni necessarie all’evoluzione familiare.

La pragmatica di Watzlawick sta alla base di tutte le indicazioni operative che vengono fornite per la conduzione di buoni colloqui che siano strategici, quindi che utilizzino consapevolmente il processo di influenzamento e alcune tattiche della comunicazione verbale

36Il modello sistemico fu il primo modello di Terapia Breve Strategica applicata a vari disturbi psicologici. I padri fondatori

furono Watzlawick, Milton Erickson, Haley. Numerose ricerche hanno confermato la validità dei protocolli operativi sperimentati con elevato tasso di efficacia ed efficienza di qualunque altra psicoterapia, su alcune forme rilevanti di patologie, quali i disturbi fobici ossessivi generalizzati e i disordini alimentari (Nardone, Watzlawick 1990, Nardone1991,1993,1995,1998, Watzlawick, Nardone 1997). Per ulteriori approfondimenti si rimanda al sito www.centro di terapia strategica.org.

e non verbale, come le domande circolari, le affermazioni “specchio”, le prescrizioni (mediante il contratto) e le “ristrutturazioni”.

Sebbene tale base teorica rappresenti certamente un punto di riferimento insostituibile (non si vuole qui mettere in discussione gli assunti teorici della pragmatica della comunicazione, né tantomeno la sua trasposizione nel social work, in quanto tale), è possibile individuare alcune criticità, specialmente alla luce dei grandi cambiamenti e rinnovamenti avvenuti all’interno dei servizi in questi anni.

La prima criticità riguarda la possibilità di considerare le relazioni comunicative come qualcosa di sostanzialmente controllabile, cadendo forse nell’errore di confondere l’utilizzo pur appropriato di una tecnica comunicativa, con la possibilità di controllo di una relazione, in cui, di fatto, entrano in gioco attori diversi che si muovono su livelli differenziati e sempre più tecnologici di comunicazione.

La seconda criticità si collega allo sviluppo delle competenze che le famiglie dimostrano sempre più di avere, rispetto alle quali è forse riduttivo prevedere che esse siano solo

potenzialmente messe sullo stesso piano di chi detiene competenze tecniche. La pratica

quotidiana è piena di esempi in cui le famiglie arrivano ai servizi dotate di maggiori informazioni di quelle possedute dagli operatori, utilizzano network di comunicazione rapida, dimostrando di non essere “inferiori”, sul piano delle competenze e non solo. Anche sul piano della negoziazione e dell’esercizio della propria posizione di diritto, le famiglie appaiono ben attrezzate (si pensi al ricorso non solo alle figure legali private verso le pubbliche amministrazioni e ad associazioni di categoria, ma anche alla stessa facoltà di accedere al difensore civico laddove previsto).

Pertanto la “potenzialità” di un rapporto paritario è fortemente presente nella pratica quotidiana ed è certamente più significativa e concreta rispetto al passato, sostenuta da una normativa che ha ampliato la partecipazione e il protagonismo delle famiglie. Per queste ragioni, forse anche la formazione stessa alla professione richiederebbe un utilizzo dello strumento del colloquio che parta da assunti diversi.

In conclusione, il colloquio di aiuto, come strumento d’azione e (per quello che qui interessa maggiormente) come strumento comunicativo inserito in un modello sistemico, mantiene di fatto una distanza relazionale tra due sistemi, mantenendo in ombra e in secondo piano il potenziale effetto emergente della relazione e il potenziale aumento di simmetria comunicativa basato sulle competenze reciproche.

l'operatore rimane un sistema “esperto” di fronte ad un sistema patologico, pur nel riconoscimento delle relazioni in cui la persona è inserita.

Da ultimo, si fa qui cenno al concetto di “gioco relazionale”.

Zini e Miodini (1997) affermano l’importanza di scoprire i giochi relazionali ovvero l’insieme di regole familiari, che orientano il funzionamento di un nucleo e che se trasgredite provocano il cambiamento delle relazioni. Questo non significa tuttavia (come precisano le Autrici), che aogni individuo non sia lasciata la possibilità di scegliere tra strategie diverse, all'interno dello stesso gioco (elemento che evita all'approccio sistemico di cadere in una forma di determinismo).

Si tratta di un concetto interessante, anche se nella pratica quotidiana e nella formazione degli assistenti sociali la ricerca di questi “giochi relazionali” può avere due distorsioni. La prima è di riportare l'attenzione a un modello di intervento esplorativo, quasi psicodinamico, che continui ad osservare e a concentrarsi sull’insight e sulle cause pregresse dei problemi; dunque spostando l’osservazione dall’individuo al “sistema famiglia”, ma senza cambiarne la sostanza. In secondo luogo, la “metafora del gioco” porta con sé gli elementi della “scaltrezza”, della furbizia che occorre esercitare “per vincere”. Si tratta di un elemento che può indurre a una certa diffidenza verso le famiglie e verso quelle regole ancora sconosciute. L’errore in cui è possibile cadere è quello di sentire costantemente la necessità di “scovare” chi stia “barando” all'interno della partita, e chi è bravo a mettere in difficoltà gli altri.

Come detto, in questa sede si ritiene utile evidenziare le ripercussioni operative che alcuni principi dell’approccio sistemico possono avere sui professionisti, ricordando che essi sono inseriti in contesti in cui anche l’organizzazione del Servizio ha una forte influenza. Basti pensare a tutta la mole di lavoro e progettualità economico-abitativa di cui i servizi sociali sono investiti e che richiedono la continua verifica dei “criteri” di accesso e di applicazione dei Regolamenti. Applicare regolamenti e verificare criteri significa porre costantemente l’attenzione agli elementi giusti, funzionanti e trasparenti di una famiglia, eliminando tutto ciò che non è evidente, chiaro e razionalmente coerente. Cosa vuol dire questo? Certamente che il concetto di gioco relazionale non si sposa proprio al meglio con la realtà, rischiando di inferire negativamente, proprio su quel “relazionale” che è insito nella sua stessa definizione. A conclusione di questo paragrafo e dei modelli che hanno fatto la storia del social work, si riprendono le parole di Maria Dal Pra Ponticelli (1985), quando afferma che in ciascuno di essi sono rinvenibili elementi di stabilità, cioè principi e i valori del lavoro sociale, i quali dovrebbero trovare sviluppo con le modificazioni e gli adattamenti connessi alle evoluzioni storico-culturali. Non è possibile avvicinarsi ai singoli modelli pensando di poterne trovare

uno in grado di rappresentare la complessa realtà che l’assistente sociale deve affrontare, né si può pensare che un modello possa operare cambiamenti in qualsiasi situazione. Pertanto, sarebbe improprio e limitativo rifarsi nella pratica ad un solo modello operativo.