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Tra individualismo e relazionalità: tracce di riflessività nelle teorie psicologiche di nuova generazione

Abbiamo visto fin qui visto, come una relazione, specialmente se d’aiuto, possa subire

1.5 L’esercizio della riflessività nelle best practices

1.5.2 Tra individualismo e relazionalità: tracce di riflessività nelle teorie psicologiche di nuova generazione

Come si è visto, l'approccio critico emerso negli '70 in risposta alle “istituzioni totali” e totalizzanti che miravano a controllare la vita degli individui, come gli ospedali psichiatrici, ha scommesso sul lavoro di sviluppo della comunità che, di fronte ai problemi, si organizza in forme di mutuo aiuto. Compito dei servizi diventa quello di supportare le reti in questo percorso. Anche nell'approccio critico resta però aperta una distanza e un’aspettativa di risultato, da parte degli utenti verso gli operatori pubblici. D’altra parte, i servizi continuano a dare per scontata l'esistenza di reti di prossimità.

L'evoluzione del lavoro tecnico, riflesso di cambiamenti teorici e di nuovi scenari di welfare, offre strumenti che nel tempo cambiano le proprie finalità: dal prevalere di “progetti di aiuto” si passa ai piani che si concentrano sull'individuo. “Progetti educativi individualizzati” o “Progetti Assistenziali Individualizzati” sono i termini codificati anche dal legislatore (L328/00), e che per l'operatore non rappresentano solo delle griglie o dei progetti da compilare, ma esprimono un cambiamento di prospettiva: la necessità di riconoscere più aiuti a chi ne ha bisogno e la necessità di fornire aiuti non generici, ma calibrati sulle esigenze e caratteristiche delle persone.

L'affermazione di questo principio, il cui valore non viene messo in discussione sotto il profilo etico, comporta il riaffermarsi di una distanza: ancora una volta il rapporto tra operatore e utente non si è liberato da quella asimmetria che caratterizza i processi di relazione e comunicazione. E ancora una volta l’individualizzazione conquista la scena a discapito della personalizzazione e della relazionalità.

Si pone il problema allora di cercare costrutti teorici ed operativi che consentano di dare alle relazioni in giusto peso e una reale finalità.

Nel tentativo di trovare una risposta a questa esigenza e di dare anche concretezza a tale pensiero, credo possa essere utile prendere ad esempio alcune situazioni tipiche, per altro frequenti nei servizi, che sono quelle degli affidamenti familiari a nuclei o anche a comunità

che spesso falliscono e che decretano lo sgretolarsi di progetti che tanto parevano idonei per le caratteristiche del minore o per la condizione ambientale. I fallimenti possono essere dettati dall’interruzione del progetto (che determina il cambiamento di comunità o di famiglia), da un progetto che non termina mai (che pur dovendo essere temporaneo, accompagna i bambini fino al diciottesimo anno di età) o da un progetto che termina, ma che non trova nel rientro in famiglia una condizione soddisfacente di cura e accudimento. Si tratta di situazioni estreme naturalmente, le più drammatiche e purtroppo anche le più diffuse tra i vissuti di un operatore sociale, ma pur tuttavia esistenti. Il quesito allora è cosa fare, quali strumenti utilizzare per sviluppare un approccio che superi quelli tradizionali.

Per fare questo ho provato a ripensare alla situazione di una madre che dopo alcuni anni potè ristabilire una situazione di convivenza con i propri figli, dopo aver superato un problema di abuso alcolico, aver formalizzato la sua separazione dal marito e sostanzialmente ristabilito un equilibrio (apparente) di tutte le principali funzioni da lei svolte (di lavoro, di gestione della casa, di un nuovo legame sentimentale, di gestione dei figli). Poco tempo dopo l’avvio di questa nuova fase della vita e di recupero, gli educatori domiciliari osservarono una ripresa dell’abuso etilico e di problematiche economico-lavorative. In poco tempo, pur avendo introdotto cambiamenti significativi all’interno del sistema, le cose non funzionarono. E così anche la terapia prevalentemente centrata sul trattamento psicologico e farmacologico dell’abuso etilico, non ebbe esito prolungato.

Di seguito (tabella 1.3) ho provato a sintetizzare tale situazione ipotizzando un metodo di lavoro improntato ai tre modelli teorici prevalenti, fin qui trattati: quello psicodinamico, quello sistemico e il modello relazionale elaborato da Folgheraiter che ha tentato di applicare la sociologia relazionale di Pierpaolo Donati al social work.

Come si evince dallo schema la definizione del problema e dell’intervento assumono connotazione nettamente diverse. Ho provato ad ipotizzare in particolare che solo in un approccio relazionale sia imprescindibile lavorare sulla riflessività facendo riferimento ad alcuni costrutti psicologici che superano quelli di “giochi relazionali” del modello sistemico o delle “motivazioni inconsce” di quello psicodinamico.

Modelli di lavoro Psicodinamico Sistemico Relazionale Il problema è L’abuso di alcol e di

comportamenti aggressivi e conflittuali con il coniuge

La genitorialità e la relazione di coppia che esprimono disagio sintomatico

La relazione con se stessi e con le reti di prossimità

La causa

del problema è Mancato superamento nella vita intrapsichica della donna, di conflitti e mancato soddisfacimento di bisogni e pulsioni nella relazione con le figure di attaccamento più importanti, quindi il padre, la madre e i fratelli

Gli schemi di relazione e i giochi relazionali all’interno del sistema della coppia genitoriale (fase di distacco dal sistema familiare di origine)

La relazione con i propri pensieri e con le modalità di fronteggiamento intraprese

(relazione tra se e gli altri)

Le reti familiari e sociali sono

Risorsa o carenza. In questo caso permettono che le cose accadano, non

intervengono.

Sono sistemi di relazione che contribuiscono a mantenere un equilibrio problematico

Sono reti di

fronteggiamento non scontate che hanno un loro livello di

osservazione della situazione

Prima finalità

dell’intervento Eliminare/modificare il comportamento di abuso dell’alcool tramite terapia farmacologica e terapia psicologica individuale centrata sugli elementi psicodinamici interni Introdurre strategicamente e mediante tattiche comunicative specifiche, processi informativi nuovi all’interno dei sistemi Rigenerare le reti di fronteggiamento attorno al problema, potenziando il coping Seconda finalità

dell’intervento Lavorare sui problemi economici abitativi e lavorativi che creano conflitto con assunzione di compiti diretti del servizio sociale

Introdurre nuovi sistemi formali o informali di sostegno

Il coping può essere potenziato solo agendo sugli schemi relazionali sociali e cognitivi

Risultato atteso Eliminazione della patologia per modificare i comportamenti con effetti anche sulla relazione di coppia e con i figli

Dare nuovo equilibrio al sistema di coppia e genitoriale ponendolo in relazione con altri sistemi di supporto

Aiutare i diversi attori a prendere contatto con i propri pensieri e con la capacità di influire sulle relazioni.

Caring e riflessività.

Il rapporto operatore

famiglia È terapeutico, la relazione è guidata dall’operatore esperto che introduce sull’individuo stimoli alla motivazione, e al

superamento delle resistenze

È tra sistema famiglia e sistema agente di cambiamento che introduce nuove

informazioni nel sistema famiglia

È reciprocitario, ovvero le parti sono impegnate a trovare uno spazio di utilità per l’altro

Tab. 1.3. Analisi di una situazione sociale secondo tre modelli teorici di riferimento.

Fonte:Studio di un caso da me trattato di allontanamento di minori dal contesto familiare, permeato da conflittualità e abuso etilico.

Credo che il passaggio a un modello di lavoro di tipo relazionale, senza in questa sede approfondire, per ragioni di tempo e spazio, tutto ciò che può andare a confluire sotto la dizione di intervento di rete, potrebbe trovare arricchimento operativo, da alcuni costrutti teorici della psicologia di nuova generazione, che superino i confini tratteggiati dai modelli psicodinamici e sistemici. Modelli che come detto, da una parte mirano a comprendere le ragioni più o meno consce dei propri comportamenti e dall’altra a mediare le interazioni tra sistemi comunicanti. Nessuno di questi modelli però sembra soddisfare appieno quell’esigenza di riflessività sentita sia da parte di chi opera nei servizi, e sia nel lavoro a favore delle persone che a questi servizi accedono. Un incremento di riflessività, che, come già chiarito, avrebbe l’utilità di sviluppare relazioni che fanno riferimento l’una all’altra (refero) e si connettono tra loro stesse, affrontando i problemi non più in una cornice individualistica ma relazionale.

La riflessività consentirebbe di guadagnare un valore aggiunto nell’affrontare i problemi, riconoscendo gli elementi positivi e funzionanti della pratica e incrementando capitale sociale, ovvero relazioni più consapevoli e reciprocitarie. Quindi non solo relazioni che superano la singola criticità (per problemi abitativi, di alloggio, di reddito o educativi) ma che si fortificano e autoalimentano attraverso il contributo che ognuno può dare.

Tra i costrutti teorici, appartenenti alle teorie psicologiche cognitivo - comportamentali di nuova generazione credo ce ne siano alcuni, particolarmente interessanti. Interessanti perché dal mio punto di vista offrono qualcosa in più in termini operativi a quel tanto difficile e agognato “ ma come faccio?” nelle difficoltà di tutti i giorni a mantenere fede e coerenza, ad un approccio davvero improntato alle relazioni.

Tra questi il primo che tratto è quello dell’assertività, che viene descritta come “qualità di chi è in grado di far valere le proprie opinioni e i propri diritti pur rispettando quelli degli altri” (definizione tratta da Zingarelli 1986).

Ma ciò che qui interessa è che tra i sei elementi caratterizzanti il comportamento assertivo un ruolo centrale è rappresentato dalla consapevolezza dei diritti della persona, inteso come principio universale che deve poter valere per se stessi e per gli altri. Questo implica “rispetto di sé e del proprio benessere in relazione a quello degli altri secondo un principio di reciprocità”.

Nel costrutto dell'assertività il nucleo centrale è costituito dall'idea di libertà come capacità di affrontare i condizionamenti ambientali (con i suoi vincoli e le sue risorse) e di esprimersi mediante la comunicazione verbale e non verbale in maniera più consapevole.

Questo concetto può essere di grande interesse per conciliare quindi nella teoria e nella pratica di una tecnica comunicativa la necessità e l'opportunità di agire un servizio sociale fondato sui legami di reciprocità, da tradursi in co-responsabilità e co-progettualità.

Lo stesso contenuto dell'assertività, può essere analizzato in chiave sociologica, seguendo lo schema AGIL di Donati, comprendente: (i) i limiti e i vincoli entro cui sviluppare il proprio benessere senza andare a discapito degli altri (dimensione economica A), (ii) l'insieme dei diritti e dei bisogni che si traducono in obiettivi da raggiungere (G); (iii) l’integrazione di rapporti interpersonali costruttivi (I); (iv) l'insieme dei valori e delle convinzioni sociali che costituiscono il riferimento per valutare la realtà esterna (dimensione culturale L).

L'assertività è uno degli esempi che le teorie psicologiche di nuova generazione ci offrono accanto ad altri costrutti come quello di “schema mentale” utilizzato nella Schema Therapy di Jeffrey Young41 che non devono trarre in inganno, facendo pensare all'utilizzo di automatismi per “guidare” o addirittura controllare la relazione con l'altro. Al contrario la letteratura esistente in materia ci dice come gli schemi, le modalità agite dai soggetti sono intrinsecamente relazionali. Gli schemi mentali sono relazionali e si costruiscono sempre nella relazione con l'altro. Questo concetto è assolutamente innovativo se si pensa alle ripercussioni operative che può avere. Nella relazione operatore-utente una cosa è tentare di costruire relazioni più simmetriche partendo comunque dal presupposto che l'altro viva una condizione di disagio che ha origini, evoluzioni e prognosi individuali, introspettive, che dipendono cioè dal singolo (come negli approcci terapeutici psicodinamici ancora fortemente presenti tra gli operatori sanitari dei servizi). Diverso invece, è pensare di lavorare mediante progetti centrati sulla valorizzazione di esperienze relazionali significative, di un empowerment che nelle occasioni di incontro e di lavoro congiunto su determinati compiti, tra operatore e utente, possa dare concretezza a relazioni che evolvono. In questo approccio teorico, infatti, gli

41 La Schema Therapy è un nuovo sistema di psicoterapia che integra elementi di terapia cognitiva comportamentale, della

Gestalt, della psicoanalisi, della teoria dell’attaccamento, della psicoterapia costruttivista, della psicoterapia focalizzata sulle emozioni, in un modello esplicativo chiaro ed esaustivo formulato dal Dr. Jeffrey Young. La Schema Therapy si è dimostrata particolarmente utile nel trattamento di ansia e depressione cronica, disturbi dell’alimentazione (anoressia, bulimia, disturbo da alimentazione incontrollata), difficili problemi di coppia, difficoltà di lunga data nel mantenere relazioni sentimentali soddisfacenti e nell'aiutare a prevenire la ricaduta nel disturbo da uso di sostanze. E’ dimostrata, inoltre, la sua efficacia nel trattamento di pazienti con difficoltà complesse e con grande resistenza al cambiamento Paragonata alla terapia cognitivo- comportamentale standard, la Schema Therapy attribuisce un maggior valore alle emozioni; enfatizza il rapporto terapeutico tra paziente e terapeuta come veicolo di cambiamento; assegna inoltre maggiore importanza all’analisi dei rapporti primari nell’infanzia come origine delle difficoltà attuali. Il focus è il concetto di “schema mal adattivo precoce”, ossia un tema costituito da ricordi, emozioni e sensazioni che viene elaborato lungo tutto l’arco della propria vita che genera dei comportamenti disfunzionali. Tuttavia, pur essendo fonte di sofferenza, gli schemi vengono mantenuti dalla persona in quanto rappresentano il conosciuto, il familiare a cui non ci si vuole distaccare. Lo schema mal adattivo precoce avrebbe origine secondo Young nei “bisogni universali” che ogni persona percepisce ma non sempre vede soddisfatti; la frustrazione di questi bisogni, soprattutto in giovane età, porta alla creazione dello schema mal adattivo precoce.

schemi vengono appresi nelle relazioni e in esse possono trovare sviluppo e cambiamento, attraverso il continuo esercizio nelle esperienze di vita . In esso non si cercano le cause passate ma si vive la relazione attuale, esistente. Senza entrare nel merito della psicoterapia, che ci condurrebbe ad un frame di curing (obiettivo della Schema Therapy, è insegnare al paziente come rafforzare un mode o stato emotivo, dell’adulto sano e dargli più spazio in modo da trovare modalità adattive di soddisfacimento dei propri bisogni più profondi), ciò che qui interessa sottolineare è il valore aggiunto in termini di relazioni che l’operatività può trarne. Tornando al caso esemplificato della madre che ristabilisce una relazione di convivenza con i figli minori, i concetti di coping e schema relazionale riportano l’attenzione all’evolversi nel tempo della relazione con le proprie emozioni e con le aspettative legate a sé e agli altri. La madre che pur aveva ottenuto cambiamenti di singole variabili (casa, lavoro, reddito, dipendenza) e che aveva attorno a sé nuove reti di sostegno (cooperativa sociale di cui faceva parte, colleghi, volontari), non aveva affrontato adeguatamente la relazione con gli altri (adulti, figli, operatori, amici), le emozioni che queste relazioni provocavano, e il fatto di vivere le relazioni non più come fini a se stesse o strumentali, ma come intrinsecamente connesse. Per dirla secondo i principi dell’approccio relazionale, l’unità agente non era stata aiutata a ‘vedersi’ e a ‘pensarsi’ in relazione con e per altre relazioni.

Così l’operatore dovrebbe lavorare per restituire a quel “sociale che è in atto” un certo grado di consapevolezza e relazionalità, che è «il nocciolo di quella pratica emancipativa quale il

social work da sempre vuole essere» (Folgheraiter, 2011, p. 334).

Senza questo lavoro, difficilmente i social worker potranno davvero agire come catalizzatori di legami sociali e di relazioni che “funzionano” e che sono capaci di «produrre una positività relazionale all’interno del processo di coping, che porterà presto alla soluzione di un determinato problema comune». (Folgheraiter 2007, p.268).

CAPITOLO 2

CONTESTUALIZZARE I SERVIZI SOCIALI RELAZIONALI