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Concetto e modelli (astratti) di transizione: un tentativo di classificazione.

3. Certezza del diritto, Giustizia e Funzione della pena nelle esperienze di “Transitional Justice”.

3.2 Concetto e modelli (astratti) di transizione: un tentativo di classificazione.

Nel presentare alcune tra le più importanti teorie proposte, è opportuno seguire un filo di carattere cronologico. Nel 1995 si espresse sul fenomeno Neil J. Kritz presentando la giustizia di transizione come “rielaborazione del passato” e definendola “discussione su

quali forme di rielaborazione del passato di illecito hanno scelto le società dopo il radicale cambiamento, e quali reazioni siano adeguate”.120

Data tale definizione, Kritz raccoglie cinque “opzioni storiche” di rielaborazione tutte molto diverse tra loro. La prima è la “persecuzione penale dell’illecito criminale”, questa viene concepita come la situazione più comune nell’esperienza storica, quasi un modello standard di reazione all’intero sistema precedente che si concretizza attraverso la posizione dei cc.dd. “tribunali ad hoc” nazionali, internazionali o ibridi. La seconda opzione è la “non punizione” che, come facilmente intuibile, è specularmente contrapposta alla prima. Gli strumenti attraverso i quali si realizza possono essere la concessione di una amnistia generale o addirittura la “non repressione di fatto” che si ha quando, onde evitare conflitti con i vecchi detentori del potere che potrebbero arrecare pregiudizio alla popolazione, si concede loro l’impunità. La terza opzione è quella che potrebbe essere definita tra tutte come “maggiormente orientata alla vittima”, in quanto, l’accertamento dell’illecito passato viene affidato alle così dette “Commissioni di verità e

riconciliazione” le quali, come compito fondamentale, hanno il dovere di riconoscere in

forma ufficiale gli accadimenti del passato e fissarli per la memoria delle generazioni a venire. Ciò avviene, ad esempio, attraverso la raccolta di testimonianze delle vittime e dei loro familiari nell’ambito di pubbliche audizioni. La quarta opzione si pone in linea di continuità con quella appena enunciata, ma rispetto ad essa è diversa in quanto ha un carattere maggiormente aggressivo nei confronti dei colpevoli al fine di fornire un concreto “risarcimento delle vittime”, ove per tale si intende un risarcimento “materiale”, come indennizzi per le conseguenze dell’illecito subìto o restituzioni di patrimoni immobiliari illecitamente sottratti o confiscati. Questa è una opzione che spesso viaggia in maniera “speculare” rispetto alle altre citate e per questo non può essere addotto alcun esempio specifico per essa, ma per avere un riferimento concreto basta pensare alla lunga serie di pretese risarcitorie che sono state devolute di fronte ai tribunali del Nord America

120 N.J.KRITZ, Transitional Justice vol.I, 1995 per come riportato in G.WERLE, Volkerstrafrecht, Mohr

Siebeck Tubingen, 2007. Trad. Ita. A.DI MARTINO (cur.), Diritto dei Crimini internazionali, Bononia University Press, Bologna, 2009. p.88 ss.

72 in base all’ “Alien Tort Claims Act”121

. La quinta e ultima opzione è rappresentata da “sanzioni non penali” come ad esempio il licenziamento di funzionari e collaboratori

dell’amministrazione pubblica, comprese polizia e forze armate.

Secondo l’autore, al fine di scegliere quale opzione sia più corretta per il caso concreto, bisognerà pesare – dal punto di vista giuridico – la gravità dell’illecito commesso. Ulteriori condizioni possono essere: il tipo di conflitto che è stato superato (nonché il modo in cui viene superato) oppure il tipo e la gravità delle violazioni dei diritti umani commesse.

Questo però non significa che una volta “pesati” tali elementi si sceglierà quale opzione seguire escludendo di converso le altre, poiché, in linea di massima, queste possono coesistere anche l’una accanto all’altra, procedendo in successione o in parallelo. Lampante in tal senso è il carattere “speculare” dell’opzione risarcitoria nei confronti delle vittime che in quanto tale, si accompagna quasi sempre ad una delle altre opzioni. Nel 2000 si ebbero forse i più importanti contributi in materia provenienti da due autori: Jörg Arnold e Ruti G. Teitel. L’elemento accomunante queste ricostruzioni è la configurazione della giustizia di transizione in termini di “transizione democratica”. Secondo Arnold infatti la Transitional Justice è “l’esperienza che contrassegna il

passaggio da un regime totalitario a un ordinamento democratico”122

e, partendo dalla

ricostruzione di Kritz, elabora tre “modelli” (“Grundmodel”)123.

Il primo modello è chiamato del “colpo di spugna” (“Schlussstrichtmodel”) che, nella sua versione assoluta e integrale, implica la rinuncia a qualsiasi provvedimento di elaborazione del passato e fa riferimento alla seconda opzione sopra citata. E’ bene specificare che, ad oggi, non si ha memoria di alcuna transizione che abbia seguito tale modello. Poi vi è un “modello riconciliativo” (“Aussöhnungsmodel”) che richiama appunto la terza opzione; infine, un “modello punitivo” (“Strafverfolgungsmodel”) che oltre a rifarsi alla suddetta prima opzione, è quello che maggiormente richiama la nostra attenzione perché nella maggior parte dei casi prevede una punizione retroattiva e secondo l’autore è l’unico modello attraverso il quale si realizza pienamente la Giustizia di Transizione perché è l’unico che in maniera decisa porta ad un concreto

121 “Alien Tort Claims Act” o “ATCA” venne adottato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1789 per far

si che i Tribunali (nazionali) potessero pronunciarsi sulla responsabilità civile proveniente da illeciti e crimini internazionali.

122

Così in ESER/ARNOLD, Geleitwort zum Gesamptproject in Strafrecht in Reaktion auf Systemunreht, Iuscrim, Friburgo, 2000.

123

Per approfondire sul punto J.ARNOLD, Einfuhrungsvortrag: Modelle strafrechtlicher Reaktionen auf Systemunrecht in ESER/SIEBER/ARNOLD, Strafrecht in Reaktion auf Systemunrecht, Berlino, 2012.

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“superamento del passato”. Nel presentare questi modelli, l’autore si sofferma – anche eccessivamente – sulla necessità, al fine di “realizzare effettivamente” la transizione, di un ricorso agli unici organi che – per citare Fabrizio De Andrè – “si emozionano nel ruolo più eccitante della legge, quello che non protegge”124

: I Tribunali. Arnold, in altri termini, rimarca la necessità di una punizione al fine di dare una base più stabile e duratura alla nuova democrazia. L’interrogativo che viene subito da porsi è se dal momento in cui si necessita dell’operato di un Tribunale, questo debba essere organo del diritto interno al singolo Stato, oppure, organo internazionale. Interrogandosi in tal senso, cerca di dare una risposta la Teitel. Ruti G. Teitel125 che, sulla falsariga di Arnold, affronta il problema delle transizioni “democratiche”, ma da una prospettiva più ampia, in quanto, sulla scorta delle passate esperienze, tenta di identificare una specificità della

Transitional Justice e una sistematicità del diritto applicato durante le

“democratizzazioni”. Attraverso questo procedimento, l’autrice intende dimostrare come il diritto nascente durante le transizioni non sia un “mero prodotto del fenomeno, ma ne sia invece parte integrante”: la giustizia di transizione è il mezzo della transizione democratica poiché, se non vi fosse una struttura legale di base, l’approccio utilizzato per “superare il passato” non sarebbe esso stesso democratico.126

L’autrice si pone due interrogativi: quali sono gli strumenti giuridici che una società adotta per affrontare il passato e quale sia il valore di tali strumenti per le prospettive democratiche della

società. Le risposte a queste domande derivano dalla formulazione di un “nuovo”

concetto di Transitional Justice e da una analisi delle diverse esperienze modulata in tre

diverse “fasi storiche” da distinguersi a seconda dell’approccio degli “operatori” al

problema.

Secondo la Teitel, la giustizia di transizione è un “sistema giuridico formato da diverse discipline, che viene teorizzato e strutturato al termine di un conflitto o di un regime antidemocratico affinché il paese possa confrontarsi col proprio passato”.

In un successivo articolo127 presenta le suddette “fasi storiche”: la prima si colloca tra la fine della prima guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda e può essere definita come

“fase dei Tribunali militari internazionali”; la seconda è fatta coincidere coi processi di

democratizzazione dell’ America meridionale e dei paesi dell’ex URSS ed è la “fase

124 Cit. F.DE ANDRE’ – “Sogno numero due” dall’album “Storia di un impiegato”, 1973. 125 R.G.TEITEL, Transitional Justice, Oxford University Press, New York, 2000.

126

Riferimento in R.CRISTOFORI, Il fattore religioso nella giustizia di transizione, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 2010.

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della sfiducia nel diritto internazionale”; la terza fase – ancora in atto – è quella della “globalizzazione”.

Alla luce di queste ricostruzioni viene fatto un tentativo di definizione secondo cui per

Transitional Justice deve intendersi: “a conception of justice associated with periods of political change, characterized by legal responses to confront the wrongdoings of repressive predecessor regimes”.128

La definizione del fenomeno “in transition” elaborata dalla Teitel non si discosta molto da quella proposta da Arnold, seppur, a tali simili risultati, gli autori siano giunti attraverso strade diverse. Tuttavia, non tutti sono d’accordo con questa presentazione della giustizia di transizione in termini di “mera democratizzazione”. Una, seppur minoritaria, parte della dottrina ha considerato la suddetta definizione “ingiustamente limitativa” della portata del fenomeno: in tali termini si dovrebbe poter parlare di

Transitional Justice soltanto nella misura in cui si abbia come condizione di partenza la

preesistenza di un regime totalitario alla caduta del quale viene intrapreso il processo di instaurazione (o restaurazione) della democrazia, ma la storia insegna che non è sempre stato così. Tra i sostenitori di questa tesi si annovera Naomi Roth-Arriaza la quale richiama come esempio quello del Rwanda, dove la democrazia esisteva, ma le violazioni commesse hanno portato comunque alla distruzione della società e ad una necessaria ricostruzione tendente a nuove esperienze di giustizia, ma non necessariamente in termini di democratizzazione.129

Più recenti sono le opinioni di diversi autori che hanno cercato di elaborare delle

“classificazioni” delle varie transizioni concretamente avvenute, ma senza buoni risultati.

Mark Freeman nel 2006 afferma: “On one level, there is little that unites any single

transitional context to another; the differences are greater than the similarities. (…) there is one feature that unites all these contexts: the legacy of widespread violence and repression”.130 Partendo da tale assunto, l’autore arriva ad affermare che non è possibile trovare caratteristiche comuni alle diverse transizioni, ma solamente “comuni

strumenti”: i processi; gli organismi investigativi; le riforme della giustizia; i

risarcimenti dei danni. Tali strumenti possono assumere diverse forme a seconda del

processo transitorio in cui operano, ma assolvono al medesimo scopo: “aiutare lo Stato e la società ad affrontare una situazione straordinaria con strumenti straordinari”.

128 Cit. in R.G.TEITEL, op.cit., 2003, p.69.

129N.ROTH-ARRIAZA, Transitional Justice in the twenty first century in ROTH

ARRIAZA/MARIEZCURRENA (cur.), Cambridge University Press, New York, 2006.

130 M.FREEMAN, Truth Commissions and procedural fairness, Cambridge University Press, New York,

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L’identificazione di questi quattro strumenti in Freeman non aiuta quindi a operare una classificazione, ma fornendo un qualcosa di “comune” alle diverse transizioni si rivolge a suffragare la definizione della Teitel.

Alla luce di queste ricostruzioni si possono trarre delle conclusioni. Prima di tutto risulta evidente l’impossibilità di ipotizzare una classificazione delle diverse esperienze concrete di giustizia di transizione raggruppandole in modelli (astratti) “rigidi”. Già nel 1995 Kritz aveva tenuto a specificare che le singole esperienze concrete possono essere classificate all’interno delle sue “opzioni storiche” in base al grado delle violazioni commesse ed alla risposta data dagli Stati, ma sempre tenendo conto che non necessariamente la scelta di far ricadere una transizione all’interno di una delle cinque opzioni porta alla consequenziale esclusione delle altre, in quanto, queste possono operare in successione o

in parallelo. Su questa linea si sono rivolti anche gli autori successivi e soprattutto

Arnold ha teso discostarsi dalla “rigidità” iniziale dei suoi modelli ritenendo che bisognasse fare i conti con esperienze di transizione concrete dove si propende per un modello e poi successivamente, per un altro del tutto opposto al precedente. Benché potesse sembrare corretto nel 2000 raggruppare – in linea di massima – le varie esperienze storiche in tre modelli base, successivamente non si è potuto prescindere da quella che lo stesso Arnold ha definito come una “mobilità dei modelli” che si è potuta apprezzare soprattutto nelle più recenti transizioni Sudamericane, su tutte Argentina e Cile, dove “in corso d’opera” si è radicalmente modificata l’opzione precedentemente scelta ed addirittura in alcuni casi si è arrivati a parlare di “blocco” del processo di transizione.

Ecco perché nel rivolgere l’attenzione ad alcune tra le più importanti esperienze storiche di “Transitional Justice” più o meno recenti, non si può partire da una loro classificazione seguendo i suddetti modelli, anche se questi possono essere comunque utili al fine di osservare l’atteggiamento (o gli atteggiamenti) tenuto dai vari Stati. Una particolare chiave di lettura può essere trovata nella prospettiva adottata in una sua recente opera da Gabriele Fornasari il quale - ponendosi essenzialmente nell’ottica del penalista - osserva all’interno delle diverse transizioni “il ruolo, la qualità e la quantità

del diritto penale utilizzato” 131. Secondo l’autore “un riferimento valido per supportare

quest’ultima affermazione è quello alla soddisfazione degli interessi delle vittime dei

crimini delle dittature” poiché - anche a distanza di anni – la “punizione” degli autori

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di crimini contro l’umanità (e altri) può arrivare ad assumere un “valore simbolico di risarcimento per chi li ha subiti”, ovviamente, tutto sta a vedere attraverso quali mezzi lo Stato ritiene “giusto” tendere a questo risultato.

Un’altra constatazione che deve essere fatta riguarda l’effettiva portata della definizione di “Transitional Justice”. Benché correttamente criticata in quanto “restrittiva”, la definizione che connota il fenomeno in termini di “transizione democratica” sembra la più corretta perché, in realtà, la gran parte delle esperienze storiche conosciute in questa materia parte da una premessa che è la preesistenza e la caduta di un “regime” e la successiva necessità di instaurare o restaurare la democrazia.

Al fine di ricomprendere la totalità delle esperienze storicamente avvenute – come anche quelle in cui si partiva dal fallimento di una democrazia – sembrerebbe però più corretto dilatare la definizione del fenomeno “in transition” ponendo come punto di partenza sempre e comunque una situazione di profonda “anomia” o mancanza totale di regole che può aversi tanto quanto nel caso dell’instaurazione di un regime totalitario o comunque anche in altri contesti dove vengono soppressi i principi dello Stato di diritto e in una più “moderna” connotazione i diritti fondamentali dell’uomo. La giustizia di transizione, si impernia dunque sulla necessità di superare tale passato di illecito – tale anomia – cercando di ricostituire l’ordine delle cose attraverso “ideali” di giustizia. In altri termini, lo scopo della giustizia di transizione è di fermare tale condizione di anomia ed interrompere la spirale di violenze e vendette, ristabilendo un equilibro sociale ed il rispetto della legge.

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