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In breve Uno sguardo all’ordinamento italiano: Il principio di irretroattività penale nell’elaborazione della Corte Costituzionale e i rapporti con la Corte EDU.

2. Sistemi CONTINENTALI e sistema CONVENZIONALE: da una prospettiva differenziata ad una possibile “osmosi” tra principi.

2.4. In breve Uno sguardo all’ordinamento italiano: Il principio di irretroattività penale nell’elaborazione della Corte Costituzionale e i rapporti con la Corte EDU.

Si è precedentemente detto che la nostra Costituzione contempla il divieto di retroattività della legge penale “sfavorevole” ai sensi dell’ Art.25/co.2 nelle vesti di “corollario” del principio di legalità. E’ opportuno fare una sorta di “collage” delle sentenze della Consulta che si esprimono sul punto, prima di passare ad analizzare in che misura sono stati recepiti nel nostro ordinamento gli “indirizzi” elaborati a livello europeo in linea di continuità col paragrafo precedente.

Nelle parole della Corte Costituzionale, il principio di irretroattività viene descritto come “fondamentale principio di civiltà giuridica”72

ed “essenziale strumento di garanzia del cittadino contro gli abusi del legislatore espresso dalla “calcolabilità” delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta quale condizione necessaria per la autodeterminazione delle scelte individuali”.73

Infatti, “avuto riguardo anche del principio di responsabilità e della funzione preventiva della pena desumibili ai sensi dell’Art.27 Cost., ognuno dei consociati deve essere in grado di adeguarsi liberamente o meno alla legge penale, conoscendo in anticipo – sulla base dell’ordinamento legale in vigore al momento del fatto – quali conseguenze afflittive potranno o meno scaturire dalla propria decisione: aspettativa che sarebbe per contro, manifestamente frustrata qualora il legislatore potesse sottoporre a sanzione penale un fatto che all’epoca della sua

72 C.Cost sent. n. 148 del 1983 73 C.Cost. sent. n.. 394 del 2006

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commissione non costituiva reato, o era punito più severamente”.74

“Nell’affermazione di cui all’Art.25/co.2 Cost. trova inoltre riscontro il principio dell’irretroattività in tutte le sue espressioni: non soltanto con riferimento alla nuova incriminazione, sulla quale pure la formula costituzionale risulta all’apparenza calibrata; ma anche con riferimento a quella della modifica peggiorativa del trattamento sanzionatorio di un fatto già in precedenza represso.”75

In questi termini viene inoltre precisato che “il divieto di retroattività della norma incriminatrice – ricevendo una “tutela privilegiata” rispetto, in particolare, al principio della lex mitior – si connota come inderogabile, ossia, come valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali.”76

“La circostanza che una determinata norma, di rilievo penalistico, sia contraria a Costituzione, non può comunque comportare – come conseguenza della sua rimozione da parte della Corte – l’assoggettamento a pena, o a pena più severa, di un fatto che all’epoca della sua commissione risultava, in base alla norma rimossa, penalmente leso o soggetto a pena più mite: derivandone, per tale aspetto, un limite al principio della privazione dell’efficacia della norma dichiarata costituzionalmente illegittima, enunciato ai sensi dell’Art.136/ co.1 Cost. e dall’Art.30/ co.3 della legge 11 marzo 1953, n. 87”.77

Questa ricostruzione funge da appendice rispetto a quella che abbiamo presentato come “irretroattività continentale” comprendendo che anche in Italia, le vicende che hanno interessato il principio costituzionalmente riportato, hanno fatto si che questo assumesse quella “forza di resistenza” tipica dei “principi - regola”.

Con riferimento ai rapporti che il nostro ordinamento (soprattutto nella figura della Corte Costituzionale) ha intrattenuto e intrattiene tutt’ora con la suddetta “giustizia penale europea”, non ci soffermiamo sul rango riconosciuto Convenzione Europea che, nel nostro sistema interno delle fonti, viene oggi inquadrata come “norma interposta”78 , bensì su quello che è stato il “dialogo tra le Corti” sulla materia, all’alba del crescente sviluppo della ccdd “tutela multilivello dei diritti fondamentali”.

74 C.Cost. sent. n. 394 del 2006 che richiama C.Cost. sent. n. 364/1988 75 C.Cost. 236/2011 che richiama anche C.Cost.394/2006

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Sempre in C.Cost. sent. n. 394 del 2006 dove la Consulta ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’Art.10/ co.3 della l. n. 251 del 2005, con riferimento alla previsione concernente il limite dell’apertura del dibattimento di primo grado, discrimine ritenuto irragionevole poiché non giustificato da controinteressi di rilievo significativo “non essendo in alcun modo idonea a correlarsi significativamente ad un istituto di carattere generale come la prescrizione, e al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento, legato al rilievo che il decorso del tempo da un lato fa diminuire l’allarme sociale, e dall’altro rende più difficile l’esercizio del diritto di difesa”.

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C.Cost. sent. n. 148 del 1983

78 Per approfondire R.ROMBOLI/S.PANIZZA/E.MALFATTI, Giustizia Costituzionale III ed.,

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I rapporti tra l’ordinamento interno e quello “sovranazionale”, con riguardo al principio di legalità ed al suo corollario dell’irretroattività, hanno trovato sviluppo soprattutto in riferimento all’applicazione della legge penale più favorevole intercorsa successivamente rispetto al compimento del fatto o, se vogliamo, retroattività “in mitius” che nel nostro ordinamento è presentata dall’Art.2 (co.2, co.3, co.4) c.p.79

Alla luce del rilievo che la

fonte convenzionale ha assunto negli ordinamenti nazionali, soprattutto con riferimento (per quello che ci interessa) al suo Art.7, bisogna soffermarsi sull’influenza che questa disposizione ha operato sulle fonti interne, al fine di chiarire meglio il tema dei “mutamenti giurisprudenziali sopravvenuti al fatto”.

A tal riguardo, bisogna fare riferimento al principio di irretroattività della legge penale sfavorevole successiva al momento della commissione del fatto di reato e al suo conseguente principio di retroattività favorevole di cui allo stesso art. 7 CEDU.

Come si è avuto modo di accennare nella parte iniziale di questa trattazione, il fenomeno della successione di norme penali nel tempo, trova le sue fonti normative, prima ancora che nell’art. 7 CEDU, già nell’Art. 25/ co.2 Cost., che eleva a rango costituzionale il principio della irretroattività. Tale principio, rispondendo ad esigenze di certezza del diritto e dell’insindacabile “favor libertatis”, trova il suo ambito di operatività nelle sole leggi penali “sfavorevoli” e viene poi ad integrarsi con la disciplina di cui all’Art. 2 – co. 2, 3 e 4 c.p. Questi ultimi commi dell’art. 2 c.p. contemplano tre distinte ipotesi di successione nel tempo di norme penali: la prima, in cui si applica il principio di irretroattività della nuova legge emanata più sfavorevole per il reo; la seconda, inerente la totale o parziale abolitio criminis, per cui in perfetto coordinamento con l’art. 673/co.1 c.p.p. si applica il principio di irretroattività della legge più favorevole anche qualora su quel fatto si fosse formato il giudicato; e la terza, riguardante l’ipotesi di successione di leggi modificative del trattamento da riservare al reo, da cui consegue che in caso di sopraggiunta modifica più sfavorevole vi sarà irretroattività della legge (art. 2 c.p. primo comma) e in caso di modifica più favorevole varrà il principio della retroattività, salvo vi sia già stata sentenza irrevocabile di condanna. E’ all’interno di questo quadro normativo che si inserisce l’Art.7 CEDU come appare chiaro anche dalla sentenza ECHR Scoppola

vs Italy del 17/09/2009 dove la Corte ha sostenuto che è possibile desumere dal suddetto

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Art. 2 c.p. – co.2 “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. co.3 Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. co.4 Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.”

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articolo, non solo una garanzia per il rispetto del principio di irretroattività della norma penale più sfavorevole, ma anche, se pur implicitamente, il principio della retroattività della norma penale più favorevole, incorporato nella regola per cui: “in caso di differenze tra legge penale in vigore al momento del fatto e legge successiva intervenuta prima della sentenza definitiva di condanna, le Corti nazionali dovranno applicare la norma più favorevole al reo”.

Chiarito, quindi, il rango dell’art. 7 CEDU e la sua portata applicativa rispetto al principio di irretroattività e dell’incorporato principio di retroattività, potrebbero permanere dubbi sulla questione relativa al se questi principi potessero essere estesi anche alle ipotesi in cui, a sopravvenire, non fosse una nuova disposizione più favorevole, ma

un’interpretazione più favorevole del fatto consacrata dalla celebre pronuncia delle

Sezioni Unite della Corte di Cassazione penale del 13 maggio 2010 n. 18288.80 Alla luce di questa sentenza, ci si è chiesti, cioè, se il giudice dell’esecuzione possa applicare il principio di retroattività favorevole (art. 2 co.2 c.p.) e revocare il giudicato penale di condanna (art. 673 c.p.p.) che abbia interpretato più favorevolmente la norma incriminatrice applicata per giudicare il fatto di reato da cui è conseguita condanna per il reo. La questione in esame è stata risolta da un recentissimo intervento della Corte

Costituzionale: la sent. n. 230 del 23/05/2012, ha risposto in senso inequivocabilmente

negativo81. Il caso riguardava la questione di legittimità costituzionale sollevata con

80 C.Cass penale, Sezioni Unite, sent. del 13.05.2010 n. 18288 dove si afferma : “ll mutamento di

giurisprudenza, intervenuto con decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata (la Corte ha precisato che tale soluzione è imposta dalla necessità di garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona in linea con i principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il cui art. 7, come interpretato dalle Corti europee, include nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale).”

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Nello specifico C.Cost. sent. n. 230 del 23.05.2012 (par.3): “Il giudice a quo è chiamato, in effetti, a pronunciarsi sull’istanza di revoca parziale di una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, formulata dal pubblico ministero sulla base del principio affermato dalle Sezioni unite nella citata sentenza n. 16453 del 2011. Come si sottolinea, peraltro, nell’ordinanza di rimessione, il fatto giudicato con la sentenza della cui revoca si discute è stato commesso in data successiva a quella di entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 e, dunque, in un momento nel quale la norma incriminatrice di cui all’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 risultava già formulata nei termini attuali: il che esclude che la successione tra il vecchio e il nuovo testo di detta norma possa venire in considerazione, come fenomeno atto a rendere operante il precetto dell’art. 2, secondo comma, cod. pen., al quale la disposizione processuale dell’art. 673 cod. proc. pen. è, per questo verso, correlata («nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore» – s’intende, alla commissione di tale fatto – «non costituisce reato e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali»). Il problema dirimente, nella prospettiva del giudice a quo, è unicamente quello del modo in cui la norma incriminatrice già vigente al momento della realizzazione del fatto, e tuttora in vigore, debba essere interpretata: se, cioè, essa si rivolga o meno anche agli stranieri illegalmente soggiornanti, a prescindere da quale fosse il regime operante anteriormente alla novella del 2009”. (par.7):” La prima e fondamentale censura svolta dal rimettente – quella di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con l’art. 7 della CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo – trova il suo presupposto nell’orientamento di questa Corte, costante a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, in forza del quale le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte

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ordinanza del Tribunale di Torino nel 2011 in riferimento alla dubbia compatibilità con gli artt. 3, 13, 25, 27 e 117 co. 1 della Costituzione derivante dall’art. 673 c.p.p. che prevede la revoca del giudicato di condanna in caso di abolitio criminis o di declaratoria di illegittimità costituzionale solo della norma incriminatrice, e non anche in caso di intervenuto mutamento giurisprudenziale più favorevole per il reo. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 230, spiega chiaramente che la questione sollevata non può che ritenersi infondata e che non vi è illegittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p. Sicuramente, a parere della Corte, non vi è contrasto tra l’art. 117 co. 1 Cost. in relazione all’art. 7 CEDU ed il 673 c.p.p., poiché già la stessa Corte di Strasburgo, in diverse pronunce, tra cui anche la già citata sentenza ‘Scoppola’, ha osservato da una parte che l’art. 7 CEDU racchiude in sé sia il principio di irretroattività sia quello della retroattività della legge penale più favorevole al reo e dall’altro che il termine “law”, utilizzato nell’articolo CEDU va considerato comprensivo solo delle “leggi”, per gli atti normativi emanati posteriormente al fatto di reato commesso e questo anche in virtù dell’assetto “formalistico” a cui si impronta in nostro sistema. In tal modo, quindi, la Corte EDU avrebbe escluso, e non confermato come invece sosteneva il Trib. di Torino nella propria ordinanza, che il principio in questione sia volto ad operare anche per i mutamenti giurisprudenziali più favorevoli. Richiamando la giurisprudenza di Strasburgo, il Giudice delle leggi ha chiarito anche che il principio di irretroattività della norma sfavorevole ha un fondamento diverso rispetto al principio di retroattività della lex mitior poiché: il primo è uno strumento di garanzia espressivo dell’esigenza per il soggetto imputabile di poter calcolare a priori le conseguenze giuridico-penali della propria condotta (“autodeterminazione individuale”). Questa esigenza non verrebbe tutelata se si ammettesse l’applicabilità di un successivo mutamento peggiorativo della norma sul trattamento penale da infliggere al reo; Il secondo, invece, trova il proprio fondamento nel principio di uguaglianza e quindi nel prevenire situazioni di disparità di trattamento dei destinatari della norma penale su uno stesso fatto di reato. Per escludere in modo

europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione, integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale evocato, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (ex plurimis, tra le ultime, sentenze n. 78 del 2012, n. 303, n. 236 e n. 113 del 2011): ciò, peraltro, nei limiti in cui la norma convenzionale, come interpretata dalla Corte europea – la quale si pone pur sempre a livello sub- costituzionale – non venga a trovarsi in conflitto con altre conferenti previsioni della Costituzione italiana (sentenze n. 303, n. 236 e n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 317 e n. 311 del 2009), e ferma restando, altresì, la spettanza a questa Corte di un «margine di apprezzamento e di adeguamento», che – nel rispetto della «sostanza» della giurisprudenza di Strasburgo – le consenta comunque di tenere conto delle peculiarità dell’ordinamento in cui l’interpretazione della Corte europea è destinata ad inserirsi (sentenze n. 303 e n. 236 del 2011, n. 311 del 2009).”

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ancora più netto il contrasto tra Art.117/co.1 e art.7 CEDU, la Corte Costituzionale rileva che un orientamento giurisprudenziale, per quanto autorevole come quello delle Sezioni Unite della Cassazione, non può avere la stessa efficacia di una norma, stante il divieto di “vincolatività” degli stessi al pari di una disposizione normativa, poiché mancherebbe il carattere di stabilità e generalità tipico di una norma. Un conto, sarebbe che il giudice, per la propria decisione tenesse in considerazione gli orientamenti sincronici della Suprema Corte comunque non vincolanti per lo stesso, ed altro sarebbe, invece, pensare che una pronuncia additiva, un orientamento giurisprudenziale di tipo diacronico possa avere forza di intervenire su un giudicato penale di condanna “mortificandolo” in modo più favorevole per il reo. In quest’ultimo caso, a parere della Corte Cost., si assisterebbe ad una vera e propria sovversione di sistema poiché si creerebbe un rapporto di gerarchia tra giudici dell’esecuzione e le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che vincolerebbero i primi anche al di fuori dello specifico giudizio di rinvio, a differenza invece, di quanto esigerebbe la regola dello “stare decisis” alle generali coordinate dell’ordinamento. Infine, considerare la successione nel tempo tra due contrastanti linee interpretative giurisprudenziali alla stregua di quella tra due atti di produzione normativi significherebbe violare il principio di riserva di legge (altro corollario del principio di legalità) ma ancor di più violare il principio della “separazione dei poteri” che vuole il giudice soggetto alla legge.

Chiariti i punti essenziali sul “dialogo” intercorrente tra la nostra giurisprudenza nazionale (anche costituzionale) e quella europea, bisogna fare il passo decisivo nell’analisi o, in altre parole, bisogna andare a vedere se vi sono possibilità di tendere verso una lettura “trasversale” dei principi inerenti tali sistemi nel tentativo di creare un diritto penale “europeizzato”.

2.5. Verso una possibile “europeizzazione” del diritto penale: irretroattività come

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