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Verso una possibile “europeizzazione” del diritto penale: irretroattività come “principio di responsabilità”.

2. Sistemi CONTINENTALI e sistema CONVENZIONALE: da una prospettiva differenziata ad una possibile “osmosi” tra principi.

2.5. Verso una possibile “europeizzazione” del diritto penale: irretroattività come “principio di responsabilità”.

“Se fra i credenti la pena non è espressione di un amore che perdona (ad imitazione del modello di Dio) ciò significa che chi punisce è caduto in balia di satana”. (2 Cor 2, 11).

Se la pena non ha come scopo il ricostituirsi della comunione col condannato, se questi non percepisce di restare pur sempre «fratello» anche nella pena, se la sua condizione ne fa un proscritto, un emarginato, un declassato (secondo lo spirito del capro espiatorio)

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non può più parlarsi di «ministero di riconciliazione» in senso cristiano. Poiché “Dio non

ci ha destinati alla sua collera ma all'acquisto della salvezza”.(1 Ts 5, 9).

Secondo il Nuovo Testamento, perciò, anche la cosiddetta sfera giuridica non può mai costituire un ambito della vita autonomo dal principio dell'amore. Quest'ultimo, piuttosto, deve contribuire a plasmarla in modo essenziale! Il «principio della riconciliazione» è il motore di un diritto “codeterminato” in senso cristiano e di una pena cristianamente giustificabile.82

Questo “incipit” dedicato all’opera di Eugen Wiesnet serve a comprendere a fondo la “fallacia” della teoria retributiva della pena e di conseguenza rapportato al tema principale – ad abbandonare nella pratica la suddetta “biforcazione” tra sistemi “continentale” e “convenzionale” attraverso una lettura assiologicamente orientata dei principi su cui si imperniano, onde evitare appunto le ricadute suddette (tra cui anche una “deformazione” di carattere neo retributivo della “direttrice funzionale” della pena). Riportando testualmente un passaggio del già citato lavoro di Giovannangelo De Francesco “più in generale, deve osservarsi come la pretesa di attribuire ai principi del diritto penale una valenza assoluta ed inaccessibile alla dimensione dell’esperienza umana e sociale non corrisponda al nucleo ed al significato essenziale che quei principi dovranno esprimere nei contesti in cui vengono chiamati ad operare. Ciò non significa, a ben vedere, che siffatti principi possano finire all’opposto, col risolversi in fredda

“razionalità strumentale” rivolta a obiettivi contingenti, con l’effetto di renderli

insensibili al profondo sostrato assiologico che dovrebbe nutrirne e modellarne i contenuti”.83

A ben vedere, quest’ottica è del tutto opposta rispetto a quella sopra citata dove ci si interrogava sulle differenze tra i sistemi nazionali e sopranazionali poiché porta ad osservare i principi del diritto penale in chiave “dinamica” senza più soffermarsi su una mera esposizione di quelli che sono i rispettivi limiti dei suddetti sistemi, ma cercando di fornire una soluzione “evolutiva” rivolta alla composizione di un sistema “perfetto” (o, per meglio dire, “giusto”). Nell’osservare la questione attraverso tale ulteriore chiave di

82 E.WIESNET, Pena e Retribuzione: la riconciliazione tradita, trad.ita. L.EUSEBI, Giuffrè, Milano,

1987, p.111 - 114.

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(…) “Ne deriva, come ulteriore corollario, che nell’implementazione del contenuto dei principi potranno (e dovranno) intervenire tutte quelle istanze in grado di accentuare il più possibile la vocazione a trasmettere ai partecipanti a quell’ordine gli stessi valori in cui questo si incarna, sul presupposto che tra i medesimi venga a figurare in veste prioritaria quello di coltivare delle finalità consone a quei diritti fondamentali dei consociati, cui anela potentemente un assetto dei rapporti umani alieno al predominio incondizionato del potere punitivo”. Così in G. DE FRANCESCO, Pauca dicta sui fondamenti e sui principi del diritto penale in RIDPP, 2013, p.1337 ss.

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lettura bisogna considerare la possibilità di una “osmosi tra i diversi principi” o, in altri termini, una loro reciproca “interazione” sì da poterne declinare la dimensione assiologica in vista dell’adozione di “scelte in grado di assumere i pur diversi interessi

(individuali e collettivi) coinvolti dalla risposta penale in una prospettiva di sintesi armonica ed esente da squilibri incompatibili con un diritto giusto.”84

Il risultato di questo approccio è quello che Giovanni Fiandaca definisce come “diritto

penale europeizzato”85 quale riflesso sia di un complesso intrecciarsi di fenomeni nazionali e sopranazionali, sia dell’attività delle Corti europee. La necessità di gestire un tale tipo di diritto penale implica la capacità di “ripensare i concetti penalistici in un’ottica trasversale” e di riflesso “al di la degli aspetti tecnico-normativi”. Quello che emerge è la suddetta “interazione tra i principi” come osserva a riguardo anche Valerio Onida – “emerge come dato saliente una spinta poderosa (…) nel senso di una maggiore osmosi ed armonizzazione delle giurisprudenze nazionali (anche costituzionali) e sopranazionali nel campo dei diritti fondamentali, e il significato culturale che essa assume. Da un lato gli standard elaborati a livello europeo vincolano di fatto e di diritto le giurisprudenze nazionali, dall’altro queste concorrono continuamente alla definizione di quegli standard, in un processo di tipo circolare.”86

E’ proprio seguendo questa logica che si riesce a far acquistare significato all’esperienza proveniente dalle istanze sovranazionali e su tutte, quella della giurisprudenza della Corte EDU che è così diversa e per questo così “utile”.

Come visto nel precedente paragrafo, anche per via dell’inevitabile dialogo “incrociato” che la Corte di Strasburgo intrattiene con gli ordinamenti di civil law e di common law, questa tende a privilegiare un metodo “antiformalistico” attraverso il quale finisce per soffermarsi più sul nucleo minimo essenziale dei principi che sulla forma. Questo modus

operandi, con riferimento al principio di legalità e nello specifico alla garanzia

intertemporale, ha teso collegare le logiche dell’irretroattività penale a quella sorta di “presupposto trascendentale” della colpevolezza insito nella “accessibilità” e nella

“prevedibilità” delle soluzioni incriminatrici esaltando per tale quell’”intima

connessione tra principi”: il diritto fondamentale di ciascun cittadino viene configurato

come diritto “alla previa conoscenza o conoscibilità dei fatti penalmente vietati”.87

84 Cit. G. DE FRANCESCO, in op.cit., p.1339.

85 Così in G.FIANDACA, Quale diritto penale per l’Europa? in Identità, diritti, ragione pubblica in

Europa di I. TRUJILLO/ F.VIOLA (cur.), Il Mulino, Bologna, 2007.

86 V.ONIDA, I diritti umani in una comunità internazionale in Il Mulino riv., 2005, p.79.

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Nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo (ma più in generale anche in quella della Corte del Lussemburgo), il presupposto della conoscibilità della norma di condotta è da intendersi, oltre che nel senso di possibilità astratta di conoscenza, anche in quello di possibilità concreta in rapporto al significato interpretativo attribuito dai giudici alla norma oggetto del singolo processo e proprio per questo – come afferma Francesco Palazzo – “non è più in gioco il primato della legge e del principio democratico ad essa soggiacente, bensì la libertà di autodeterminazione dell’individuo dinanzi ad un diritto che si realizza essenzialmente nel dictum del giudice”.88 Prima di continuare ad approfondire il discorso circa i risvolti che l’operato della Corte ha prodotto, è opportuno chiarire meglio alcuni concetti appena richiamati facendo riferimento attivo alla giurisprudenza nazionale e a quella sovranazionale.

Lo sforzo di fonte europea si rivolge alla possibilità di incrementare una “partecipazione” dei singoli ai valori dell’ordinamento. L’attenzione deve soffermarsi prima di tutto – sempre secondo Palazzo89 sul collegamento funzionale che può esserci tra

determinatezza e conoscibilità della norma e suggerisce l’autore – questo può ritrovarsi

soprattutto nella notissima sentenza della nostra Corte Costituzionale n.364 del 24

marzo 1988 sull’Art.5 c.p. nonché in altre pronunce che si sono episodicamente espresse

sul principio di determinatezza: “I principi che la Corte Costituzionale ha posto a base della declaratoria di incostituzionalità dell’Art.5 c.p. (…), riguardano anche la formulazione stessa delle norme penali e concorrono a definire il principio di determinatezza della norma impugnata di cui all’Art.25/Co.2 Cost., in base al quale devono sussistere requisiti minimi di riconoscibilità ed intelligibilità del precetto penale rappresentanti anche i requisiti minimi di razionalità dell’azione legislativa in difetto dei quali la libertà e sicurezza giuridica dei cittadini sarebbero pregiudicate”.90

L’apertura verso le Corti europee posta nel nostro ordinamento dalla sentenza del 1988 su tutte, sta nel configurare la possibile invocazione della “conoscibilità” della norma, oltre che come una possibilità astratta, anche come un giudizio da effettuare in concreto, in rapporto cioè sia al significato interpretativo attribuito alla norma in quel dato processo, sia alle caratteristiche peculiari oggettive e soggettive della vicenda di cui si tratta hic et nunc. Proprio in questa seconda prospettiva, il problema della determinatezza di una norma tende a convertirsi per il tramite del criterio di conoscibilità dell’interpretazione

88 F.PALAZZO, Legalità e determinatezza in Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Ed.

scientifiche italiane, Napoli, 2006, p.49 ss.

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In F.PALAZZO , Legalità penale: considerazioni su trasformazione e complessità di un principio ‘fondamentale’ in Quaderni Fiorentini XXXVI, 2007, p.1279 ss.

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giudiziale – o in quello del divieto di retroattività della legge penale o in quello della colpevolezza del soggetto agente. In ogni caso la determinatezza cessa di essere un attributo dell’espressione legislativa e, dunque, una condizione di validità della disposizione “erga omnes”.91

In altri termini, è calzante a riguardo l’opinione secondo cui “l’esperienza europea ha da essere opportunamente identificata nello sforzo costante di ampliare lo sguardo sulla potenzialità di incrementare una partecipazione dei singoli ai valori dell’ordinamento: la

ratio sottesa alle libere scelte d’azione92, dovendo coniugarsi ad un rapporto vivificante

tra i consociati e l’assetto di quei valori, cui non può rimanere estraneo lo stesso operato della giurisprudenza, risiede nell’ottica del suo presentarsi o meno come uno sviluppo prevedibile da parte di quanti potrebbero venire raggiunti da un addebito di rilevanza penale. In tale scenario, sembrerebbe, d’altronde, tutt’altro che censurabile il richiamo al

diritto quale base di riferimento dell’irretroattività di cui all’Art.7 CEDU”.93

In questa accezione, il concetto di “diritto” lascia emergere, invero, una densità di significati che il (solo) richiamo alla fonte-legge non sarebbe in grado di rendere compiutamente. Per questi motivi, quello richiamato in Fiandaca come “diritto

fondamentale alla previa conoscenza o conoscibilità dei fatti penalmente vietati” viene

sufficientemente garantito dalla predeterminazione normativa di quei fatti, “senza che sia necessario che l’atto normativo fonte sia a sua volta costituito da una legge parlamentare”94

.

Per comprendere ancora meglio l’influenza adoperata dalla Corte di Strasburgo sulla elaborazione dei principi oggetto dell’analisi, bisogna osservare i vari passaggi avvenuti nella sua giurisprudenza dove si è affermato soprattutto che “il principio di legalità di

cui all’Art.7 CEDU si riferisce al diritto di origine tanto legislativa quanto giurisprudenziale ed implica delle condizioni qualitative, fra le quali accessibilità e prevedibilità della norma”.95

Come già ampiamente anticipato, la Corte tende applicare la garanzia in materia di legalità penale al di là dei reati e delle pene formalmente intesi o, in altri termini, qualificabili come “penali” in base al diritto interno dei singoli Stati. Come ha avuto

91 Secondo l’espressione usata da F.PALAZZO in op.cit. in Quaderni fiorentini XXXVI, 2007, p.1319. 92

Riprendendo il “sintagma” sempre in C.Cost sent. 364 del 1988.

93

G.DE FRANCESCO, op. cit. in RIDPP, 2013, p.1340.

94 Così testuale in E.NICOSIA, CEDU e diritto penale, Giappichelli, Torino, 2006, p.56

95 Il riferimento alle condizioni di “accessibilità” e “prevedibilità” può ritrovarsi (ad esempio) in: ECHR

18139/91 Tolstoy – Miloslavsky vs UK del 13.07.1995; ECHR 14307/88 Kokkinakis vs Greece del 25.05.1993; Si rinvia poi anche alla parte successiva per le sentenze sul “caso Krenz” della ECHR del 22.03.2001.

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modo di constatare Alessandro Bernardi – “tali nozioni risultano oggetto di una valutazione autonoma da parte degli organi della Convenzione la quale finisce (di fatto) per abbracciare tutte le norme e tutte le misure considerate intrinsecamente penali”.96 Nel paragrafo precedente questo approccio della Corte veniva presentato come estensivo della

portata della garanzia di cui all’Art.7 a tutti gli istituti penali, non soltanto sostanziali, ma

anche processuali ed ibridi ed in questa “rielaborazione” ne viene fuori una “identificazione degli illeciti” operata dal garante convenzionale in base alla natura degli stessi ed alla gravità della sanzione per essi prevista. Non bisogna dimenticare che anche nel sistema convenzionale – come in quello interno – la legalità penale è volta a garantire la sicurezza giuridica dei cittadini e a porli in condizione di conoscere i comportamenti loro vietati. E’ proprio da questo punto che parte la più volte richiamata necessità di “osmosi” dell’elaborazione “convenzionale” con quella “interna” onde evitare di finire nuovamente nel baratro di un “victim centred approach”. La soluzione va ricercata in una analisi più accurata dei requisiti prima richiamati: La Convenzione non prescrive né la riserva di legge né la necessità di una norma scritta in materia, ma più correttamente rimette agli Stati la scelta formale delle legittime fonti penali, concentrando la propria attenzione sugli aspetti sostanziali della previsione legale ovvero sulla “qualità della

fonte penale” che – per tornare al suddetto inciso giurisprudenziale – deve essere

“accessibile” e “prevedibile” e deve inoltre “definire gli illeciti in modo chiaro”.

Il primo requisito, quello dell’ “accessibilità”, è comparso sulla scena “convenzionale” già negli anni ’70 con riferimento al parallelo concetto di legge di cui agli Artt.9, 10 e 11 CEDU. In particolare la Corte affermò che “il cittadino deve poter disporre di

informazioni sufficienti (…) sulle norme giuridiche applicabili a un dato caso”.97

Il secondo requisito della “prevedibilità”98 è perfettamente dipinto come “parametro di

valutazione ex ante, ispirato al modello della prognosi postuma”99 o, in parole povere, la Corte deve accertare se, al momento della commissione del fatto, l’autore fosse capace di prevedere le conseguenze legali della propria azione od omissione e, di conseguenza, di

96 A.BERNARDI, Commento ad Art.7. Nessuna pena senza legge.

97 ECHR 6538/74 Sunday Times vs UK del 26.04.1979, par.49 in www.echr.coe.int. 98

Più in generale è interessante osservare a riguardo il lavoro di Gianmarco Gometz che qualifica la certezza del diritto stessa come “prevedibilità”. L’autore, nello specifico, partendo dalle “ambiguità” che può celare il concetto di certezza del diritto, ne tenta una ridefinizione nella chiave della prevedibilità “conseguibile soltanto mediante la conoscenza delle disposizioni normative” la cui formazione deve essere però una attività “partecipata” onde evitare di ricadere in concezioni eccessivamente “strette” (nel senso del formalismo) della certezza del diritto che “ piuttosto che su giustificazioni di carattere etico-politico, tendono a fondarsi su pregiudizi teorici”. Per approfondire si rimanda a G.GOMETZ, La certezza giuridica come prevedibilità, Giappichelli, Torino,2005.

99 Così in F.GANDINI, Successione di leggi in materia di recidiva e divieto di applicazione retroattiva in

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regolare la propria condotta. La Corte di Strasburgo fa poi un passo in avanti affermando che il requisito della “prevedibilità” costituisce in realtà il prodotto di due ulteriori principi: quello di “determinatezza” e quello, apparentemente inedito, di

“interpretazione ragionevole” della norma penale. Con riferimento alla “determinatezza

(o chiarezza)” la Corte sostiene che “si può considerare legge solo una norma enunciata

con una precisione tale da permettere al cittadino di regolare la propria condotta, eventualmente facendo ricorso a consigli chiarificatori”100 ma al contempo, nel giudizio concreto sulle norme, lascia ampia discrezionalità agli Stati, affermando che “il testo

delle leggi non può (…) presentare una assoluta precisione” e “una delle tecniche normative tipiche consiste nel ricorrere a categorie generali piuttosto che a liste esaustive”. Una delle espressioni più calzanti utilizzate a riguardo dalla Corte fu quella

secondo cui “numerose leggi si servono di formule più o meno elastiche, al fine di evitare

una rigidità eccessiva e da potersi adattare ai mutamenti delle situazioni”.101 L’altro principio di “interpretazione ragionevole”102 delle norme penali sembra di primo impatto

richiamarsi al “principio di tassatività” dell’ordinamento italiano che vieta l’estensione analogica delle fattispecie incriminatrici. La Corte ha affermato a riguardo che “l’Art.7

CEDU non si limita a proibire l’applicazione retroattiva del diritto penale a detrimento dell’imputato, ma consacra altresì di non applicare estensivamente o analogicamente la legge penale (contra reum)”.103

Tale affermazione della Corte viene successivamente “limata” nel suo rigore in quanto, seppur si rivolge a circoscrivere l’attività giudiziale affermando che l’interpretazione “ragionevole” porta con sé come corollari necessari il divieto di analogia e l’obbligo di interpretazione restrittiva, di riflesso pone anche la legittimità di una “interpretazione

storicamente prevedibile” quando sussista una giurisprudenza esaustiva consolidata e

quando l’ampliamento della portata normativa di una disposizione trae la propria giustificazione dal mutamento delle condizioni socio-culturali. Questa ultima evoluzione sa, invero, di ricaduta verso un ruolo “creativo” del giudice nella materia penale104 e produce un’inevitabile slittamento del discorso sul piano della colpevolezza. Si pone poi l’ulteriore delicato problema di come conciliare suddetta esigenza di “prevedibilità” con le necessità evolutive della giurisprudenza: come siano cioè ammissibili i mutamenti di

100

Sempre in ECHR Sunday Times vs UK del 26.04.1979.

101 ECHR 17862/91 Cantoni vs France del 15.11.1996, par.31 102 v. sul punto anche paragrafo precedente.

103

ECHR 14307/88 Kokkinakis vs Greece del 25.05.1993, par.52.

104 Interessante ed esaustiva sul punto è la ricostruzione della recente pronuncia ECHR 45558/99 K.A &

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giurisprudenza senza che questi incappino nella violazione del principio di legalità e nel divieto di retroattività. L’apertura a riguardo avviene nel momento in cui la Corte di Strasburgo introduce un interessante limite o vincolo interpretativo per il giudice:

“L’Art.7 CEDU non vieta la chiarificazione graduale delle regole della responsabilità penale mediante l’interpretazione giudiziaria da una causa all’altra, a condizione che il risultato interpretativo sia coerente con la sostanza dell’infrazione.”105

Sono per tale illuminanti sul punto le considerazioni fatte da Francesco Palazzo: “La

sostanza dell’infrazione è un criterio altamente valutativo e di ardua individuazione, dal

quale viene a dipendere la determinatezza della fattispecie: il risultato interpretativo è infatti ragionevolmente prevedibile, e dunque la norma sufficientemente determinata, in quanto sia riconducibile al suddetto criterio. Se non fosse individuabile una ‘sostanza dell’incriminazione’ la disposizione sarebbe originariamente ed irrimediabilmente affetta da indeterminatezza. In altri termini, il concetto di ‘sostanza dell’incriminazione’ sembra essere molto prossimo a quello di tipo criminoso in cui si sostanzia e si esprime l’omogeneo contenuto di disvalore del reato, e che costituisce il reale asse portante del divieto di analogia”. In definitiva, la determinatezza di una fattispecie sussiste allorquando il legislatore sia stato in grado di esprimere attraverso di essa un contenuto di disvalore “omogeneo” o “tipico”, così da consentire al giudice di svolgere la sua opera di concretizzazione della fattispecie astratta sul fatto storico “lungo le corpose e complesse cadenze della sostanza dell’illecito più che dentro impossibili e poco affidabili geometrie linguistiche”. Il risultato di questa elaborazione è una sorta di “esaltazione” del ruolo dell’interprete (il giudice, ma più in generale i soggetti che si approcciano alla “lettura” della fattispecie incriminatrice ) che dovrà nel concreto “ponderare” maggiormente le proprie scelte in virtù della nuova elasticità acquisita dalla norma penale la cui portata non sarà più soltanto limitata alla “staticità” della legge scritta.

Per quanto in un contesto del genere si possa avere timore rispetto alla possibilità di eventuali “inopinate estensioni della sfera dell’illecito” anche “ex post facto” in realtà dalle suddette ricostruzioni può emergere un ulteriore aspetto qualificante della dimensione contenutistica e teleologica dei principi fondamentali in materia penale. Essenziale è in tal senso un passaggio in cui viene ripercorsa l’analisi appena esposta: “i principi sono in grado manifestare una dimensione assiologica in linea con il ‘volto’ umanistico dei nostri assetti ordinamentali, laddove si rendano disponibili ad armonizzarsi con gli scopi che appaia legittimo perseguire nell’incessante opera di

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adattamento ai diversi contesti della loro valenza ermeneutica e politico-culturale.” Dopo questa puntualizzazione apre ad un “ossimoro”(cit.): “in tale prospettiva, risulta congruo affermare come in tali principi sia destinata ad albergare una dimensione a carattere assiologico – funzionale, vale a dire, per l’appunto, quella collegata alla necessità di uniformarli all’obiettivo di assicurare per loro tramite un esito di giustizia compatibile con il loro intrinseco finalismo rispetto alla materia di volta in volta esaminata”.106

Attraverso questa chiave di lettura, si realizza pienamente la visione di carattere “trasvarsale” dei sistemi nazionali e sopranazionali e muta radicalmente l’approccio ai principi con fatto specifico riferimento al principio di irretroattività che – riprendendo

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