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Il “precedente” della Transizione Post-Nazista Alcune pronunce degli anni ’50.

Parte SECONDA

LA TRANSIZIONE TEDESCA POST-UNIFICAZIONE E L’APPLICAZIONE DELLA FORMULA DI RADBRUCH AL DIRITTO PENALE.

1. Il “cammino” dalla Transizione Post-Nazista alla Transizione Post-Unificazione della Germania degli anni ’90.

1.1 Il “precedente” della Transizione Post-Nazista Alcune pronunce degli anni ’50.

Negli anni immediatamente successivi al Processo di Norimberga, la “macchina della giustizia” tedesca si rimise pienamente in moto occupandosi di casi particolari attraverso i quali si voleva sancire un “ritorno alla normalità” e le pronunce erano per tanto “velate” da una denuncia del recente passato di illecito e delle modalità attraverso cui si era “imposto”. Il dibattito di questo periodo era essenzialmente dottrinale, in quanto, i tribunali dell’epoca iniziarono a fare richiamo ad una serie di principi e valori che andavano oltre il solo “diritto positivo” e che erano la colonna portante dell’operato del Tribunale di Norimberga. Ciò anche perché, se dal “modello di Norimberga” non si poteva prescindere, gli organi di giustizia tedeschi non volevano comunque prestarvi una cieca acquiescenza che avrebbe prodotto una implicita legittimazione di quella che, nella Germania del tempo, veniva considerata una “Giustizia dei vincitori”. Non era passato molto tempo dalla morte di uno dei più grandi giuristi e filosofi tedeschi, Gustav Radbruch, il quale, lasciò in eredità la sua “formula sul torto legale” (come veniva definita al tempo) che ancora oggi è conosciuta col nome del suo ideatore e che fu fonte di ispirazione dell’operato dei tribunali tedeschi del tempo. Una fedele riproduzione del pensiero dello stesso Radbruch può rinvenirsi, nella letteratura italiana, nell’opera di Vincenzo Palazzolo. Ai fini del discorso206, i punti rilevanti nella filosofia di Radbruch sono: (a) Il diritto “appartiene alla scienza della cultura” della quale è tipica e complessa manifestazione; (b) l’elemento più caratteristico dell’idea del diritto è il

principio di giustizia; (c) è insostenibile l’idea di una assoluta separazione del diritto dalla morale; (d) il diritto, pur non rinunciando all’autonomia dei valori che gli sono

propri, trova il proprio fine, e perciò, il fondamento della propria obbligatorietà nella

morale; (e) dell’idea del diritto fanno parte, insieme alla giustizia, la conformità allo scopo e la sicurezza (o certezza) del diritto, valore quest’ultimo, che si trova nella

positività di esso. Questi tre principi sono in perenne contraddizione tra loro, contendendosi la signoria sull’ordinamento giuridico. Attraverso la ricostruzione di

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Sarebbe altresì troppo eccessivo soffermarsi sull’intera filosofia di Radbruch per come fedelmente “osservata” da Palazzolo. Di conseguenza non si farà menzione in queste pagine alla filosofia “relativistica” dell’autore tedesco, né al suo “dualismo metodico” che esprime l’irriducibilità del mondo dei valori al mondo della realtà, né sulla teoria dei tre gruppi fondamentali di fini a cui corrispondono le tre forme fondamentali della convivenza umana: Gesellschaft, per l’individualismo; Gesamtheit per il superindividualismo e Gemeinschft per il trans personalismo. Per approfondimento su questi temi si rimanda a V.PALAZZOLO, La filosofia del diritto di Gustav Radbruch e di Julius Binder, Giuffrè, Milano,1983. Riprende lo studio del 1941 dello stesso Palazzolo apparso in Archivio della cultura italiana e si ricorda inoltre che, nel 1957, sempre Palazzolo ebbe a redigere la voce “Gustav Radbruch” per l’Enciclopedia filosofica.

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queste linee di pensiero, Palazzolo tende a inserire Radbruch nella “corrente dell’eticismo” per via soprattutto, della sua “rivalutazione della filosofia del diritto rispetto alla scienza giuridica” e, con riguardo alla concezione dello Stato, gli imputa “motivi giusnaturalistici”. In questi canoni, l’indirizzo seguito dal pensiero del giurista- filosofo tedesco è “antipositivistico”.

Le pronunce che compongono la giurisprudenza del periodo post-nazista potrebbero essere definite come della “prima stagione dell’incontro tra la giurisprudenza tedesca e

la Formula di Radbruch” in quanto questa venne più volte, direttamente o

indirettamente, richiamata. Per forza di cose è molto difficile risalire alla giurisprudenza tedesca di merito del tempo, per questo, nel delineare un quadro di tali vicende, non può che farsi riferimento alle pronunce di legittimità del Bundesgerichtshofes (da ora in avanti BGH o tradotto, Corte federale di Cassazione) e del Bundesverassungsgericht (da ora in avanti BVerfG o tradotto, Corte Costituzionale federale).

Il BGH si pronunciò in tal senso sia in materia civile ed amministrativa, sia, soprattutto, in materia penale. Nella selezione dei casi viene fatto riferimento al paradigma offerto da Walter Ott il quale utilizza le pronunce delle Corti tedesche al fine di tracciare un parallelo tra le soluzioni offerte a seconda che si applichino teorie di diritto positivo o di diritto naturale207. Così, viene preso spunto, prima di tutto, da alcune pronunce in materia civile ed amministrativa dei primi anni ’50. La prima è la Beschluß des BGH in

Zivilsachen n.3 del 1951. Il caso riguardava una causa di risarcimento del danno intentata

da una vedova per l’omicidio del proprio marito e del proprio figlio (disertore rifugiatosi nella casa dei genitori) avvenuto nell’aprile del 1945, quindi poco prima del crollo del terzo Reich. Il dibattito che interessava però la Corte federale di Cassazione riguardava più nello specifico la validità del “Katastrophenbefehl” (ordine di emergenza) che autorizzava l’uccisione di ogni disertore senza processo neppure sommario. Il BGH operò un “adattamento alle Corti della zona britannica” nel negare il valore di legge – e per tale l’efficacia vincolante – al suddetto ordine in quanto “emanato al di fuori di ogni procedura legislativa”. Lo snodo fondamentale lo si trae dalla lettura della motivazione:

“Anche se questo ordine fosse stato promulgato in forma di legge, esso non sarebbe stato giuridicamente vincolante. La legge trova il suo limite là dove si pone in contrasto con le regole del diritto internazionale generalmente riconosciute o con il diritto naturale oppure quando il contrasto della legge positiva con la giustizia raggiunge una misura

207 L’opera di riferimento è W.OTT, Die Radbruch’sche Formel. Pro und contra in Zeitschrift fur

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così insopportabile da far sì che la legge, in quanto ‘diritto ingiusto’ debba piegarsi alla giustizia.”208 Tale pronuncia segna una “svolta epocale” poiché fa un espresso richiamo (anche) ad istanze di “diritto naturale” le quali si sviluppano e concretizzano poi nel riferimento testuale alla “Unerträglichkeitsformel” di Radbruch accompagnata da un richiamo ai diritti processuali dell’individuo, anzi, viene posto un richiamo più generale poiché viene fatto riferimento al “semplice” diritto di avere un processo.

Il Katastrophenbefehl non è soltanto invalido in quanto emanato senza seguire alcuna “procedura legislativa”; secondo la Corte tale ordine non avrebbe comunque potuto avere la validità di una legge in quanto concepito in violazione dei principi del diritto internazionale generalmente riconosciuti, del diritto naturale e perché eccedente quella soglia oltre la quale l’“ingiustizia” diviene “intollerabile”. Queste prime pronunce del BGH, però, si fermano soltanto a fare espresso richiamo alla Formula. Non viene data, al contempo, risposta all’interrogativo su quale sia effettivamente la soglia a cui si fa riferimento; l’unica soluzione a riguardo sta nel bilanciamento, operato dalla Corte stessa, tra la validità dell’ordine (consistente nell’uccidere i disertori senza processo) e i “principi di civiltà” comunemente riconosciuti. Le linee guida tracciate da questa pronuncia vennero seguite dal BGH anche negli anni successivi, si ricordano per tale una serie di pronunce (sempre in materia civile) aventi ad oggetto la questione di validità della Verordnung n.11 del 1941209, dove viene ribadito il principio secondo cui “tali atti

non erano mai stati diritto” e che erano “Unrecht” già nel momento in cui erano stati

emanati. La Corte utilizzò l’espressione ”krasses Unrecht”210 per indicare il contenuto

di provvedimenti legislativi indicati come tali dagli esponenti del regime che li avevano emanati, ma che tali non potevano essere in quanto contrari alle esigenze fondamentali di ogni ordinamento proprio dello Stato di diritto. Se si “rivestiva” l’ingiustizia con la forma di una legge, ciò non le dava comunque la possibilità di diventare diritto e – come tenne a precisare la Corte – “al fine di eliminarla dal panorama giuridico, non c’è bisogno

nemmeno di una abrogazione formale”. Una calzante espressione venne utilizzata da

Erich Kaufmann secondo cui: “lo Stato è padrone della legge, ma non del diritto” a

208

Continuando: “Se nella statuizione del diritto positivo si rinnega del tutto il principio di uguaglianza, allora la legge è privata della sua natura di diritto ed essa non è più in alcun modo diritto. Ai diritto inalienabili dell’uomo appartiene quello di non essere privato della propria vita senza un procedimento legale.” Per come riportato in G.VASSALLI, Formula di Radbruch e diritto penale, Giuffrè, Milano, 2001, p.51

209 La traduzione letterale è “Regolamento”, ma si potrebbe rendere meglio come “Ordinanza”, nella

fattispecie, applicativa della legge nazista sulla cittadinanza del 25 novembre 1941, con la quale tutti gli ebrei tedeschi emigrati all’estero venivano spogliati, nelle forme più articolate, di tutti i loro averi in favore dello Stato tedesco.

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testimonianza del fatto che la semplice attività di emanazione di una legge, qualora questa fosse “intollerabilmente ingiusta”, non legittimava lo Stato ad arrogare a sé la capacità di “aver creato diritto”. Inoltre, si rimarcavano i “canoni” dell’ordine pubblico internazionale e dell’eguaglianza giuridica che dovevano essere rispettati in quanto

“permeanti la concezione del diritto in tutte le nazioni civili”.211

Più da vicino interessano le sentenze del BGH in materia penale, dove l’applicazione di questi principi deve anche “fare i conti” coi principi del diritto penale “classico”, su tutti quello dell’irretroattività. Vale la pena citare anche in questo caso alcune delle diverse pronunce del BGH in Strafsachen prendendo in considerazione tre casi di annullamento con rinvio di sentenze assolutorie del 1952.

Nello specifico, è bene premettere, che nella materia penale, date appunto le problematiche nelle quali si potrebbe incorrere, le suddette Formule, “ostentate” dalla sez. civile della Corte, non vengono “espressamente” citate, tuttavia è abbastanza palese il richiamo (implicito, o meglio indiretto ) fatto ad esse.

La prima pronuncia risale al 29 gennaio 1952212 e riguarda il caso di tre funzionari addetti al trasferimento di ebrei dal Württemberg verso l’Est (verso Riga,Theresienstadt, Izbica ed Auschwitz) i quali erano stati imputati ai sensi del paragrafo 239 del codice penale che al co.3 puniva, seppur in forma estremamente mite, il sequestro di persona seguito da morte del sequestrato. La Corte d’Assise aveva assolto gli imputati in quanto ritenne che “seppur dette deportazioni erano da considerarsi assassinio e sequestro di persona se imputate ai loro promotori e capi, gli esecutori (imputati per quel processo) pur avendo realizzato la fattispecie oggettiva di quel reato non erano consapevoli della volontà di

sterminio dei loro capi e quindi non avevano la coscienza dell’antigiuridicità del fatto”.

Il Bundesgerichtschofes negò decisamente una siffatta interpretazione annullando l’assoluzione con rinvio. La Corte afferma infatti che: “allo Stato non spetta un potere

senza limiti di determinare ciò che è diritto e ciò che non lo è” per confutare tale assunto

richiama l’esistenza, in tutti gli ordinamenti degli Stati civilizzati di un “gewisser

Kernbereich des Rechts” (nucleo essenziale del diritto) che “abbraccia determinati principi del comportamento umano considerati inattaccabili, che si sono formati nel corso dei tempi in tutti i popoli civili su un terreno di comuni concezioni etiche di fondo,

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Così in Beschluß des BGH in Zivilsachen n.16 del 1957 dove la Bundesgerichtschofes fa richiamo anche al Prinicipio di Uguaglianza consacrato all’Art.3 della Costituzione federale: “E’ illegittima ogni legge che discrimini gruppi di persone (…) ai sensi dell’Art.3 Grundgesetz che individua un principio che domina anche l’ordinamento giuridico tedesco e che non poteva essere eliminato con efficacia dalle leggi nazionalsocialiste.” trad. in G.VASSALLI, op.cit., 2001, p.54.

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le quali valgono come vincolanti” e non può essere leso da alcuna legge e alcuna autorità.

Tale “nucleo” viene fatto risalire ai principi di giustizia, umanità ed eguaglianza che si ricavano dalla Costituzione federale e non possono essere “rinnegati” dalle leggi e dai decreti nazisti che, in quanto costituenti una violazione di questi, rimangono “Unrecht”. Nel caso di specie, dato il livello di ingiustizia caratterizzante i decreti sulle deportazioni, gli imputati non possono essere scriminati in quanto “inconsapevoli dell’antigiuridicità delle prescrizioni che andavano ad eseguire” poiché l’aver agito secondo legge non significa automaticamente aver agito secondo giustizia e siccome l’ingiustizia era tale da “disconoscere” qualsiasi effetto vincolante della legge, allora gli stessi imputati non potevano andare assolti per “Widerrechtlichkeit”. Qualche giorno dopo, il 12 febbraio

1952213, il BGH confermò questa linea di pensiero con riguardo al “processo Huppenkothen” dove l’imputato, accusato di “complicità in omicidio” era stato assolto

dalla Corte d’Assise di Monaco in quanto - secondo questa - aveva agito nell’esercizio delle sue competenze giudiziarie. La Cassazione federale respinse questa pronuncia come “erronea” affermando che l’ “aspetto giudiziario”, alla luce dello stato di estremo pericolo in cui il Paese versava, non era bastevole a legittimare l’esistenza del Tribunale costituito dall’imputato. Se di organo giudiziario perfettamente costituito si fosse potuto parlare, allora non si sarebbe successivamente potuta avanzare l’accusa rivolta a Huppenkothen di “complicità in omicidio” per aver mandato a morte i “suoi” imputati. Il Tribunale in questione poteva dirsi tale solo a livello “apparente” e una sentenza capitale da esso emessa non poteva dunque sottrarsi alla fattispecie dell’omicidio illegale, a prescindere dal tipo e dalla fondatezza dall’accusa mossa agli imputati/condannati. Infatti, l’organo giudiziario in questione si rivolgeva ad applicare le disposizioni del regime Nazista e queste, secondo quanto già ricostruito nella precedente pronuncia, non potevano essere qualificate come diritto. La stessa Cassazione, nell’affermare ciò ribadisce un passo che sembra ricalcare la “Verlenungsformel” di Radbruch: “le

prescrizioni emanate dal legislatore nazionalsocialista, non solo non perseguono fini di giustizia, ma addirittura consapevolmente rinnegano l’idea di eguaglianza e in modo madornale disprezzano le comuni convinzioni giuridiche di tutti i popoli civili sul valore e la dignità della persona umana. Per questi motivi (…) tali prescrizioni non formano

diritto già dal momento in cui furono emanate”.

213 Entscheidungen des BGH in Strafsachen 2 del 1952 p.173 ss. Sentenza del “processo Huppenkothen”

dal nome dell’imputato, un alto dirigente della RSHA, proveniente dalle SS, che nell’aprile 1945 aveva istituito in due campi di concentramento tribunali speciali statali, nei quali egli stesso aveva assunto il ruolo di pubblico accusatore, facendo mettere a morte sei persone sotto l’accusa di aver partecipato alla congiura del 20 luglio dell’anno precedente.

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Per chiudere il cerchio va citata anche una terza pronuncia sempre del medesimo anno, ma risalente al 19 dicembre. La Beschluß des BGH in Strafsachen n.3 del 1952 riguarda nello specifico un altro caso di deportazioni forzate di ebrei, con conseguente imputazione di cui al paragrafo 239, ma viene in questo caso annullata la pronuncia di assoluzione della Corte d’Assise di Norimberga-Furth per “difetto di colpevolezza”. In questo caso il BGH fa un passo in avanti ulteriore cercando di identificare gli elementi su cui si deve fondare l’indagine sulla consapevolezza in caso di ignorantia o error facti. Nel caso di specie, la Cassazione federale riteneva inopportuno applicare tali “esimenti” in quanto, date le “delicate” circostanze del caso, ai soggetti imputati veniva richiesta una

“applicazione mentale ulteriore rispetto al normale” che li avrebbe condotti a rendersi

conto delle circostanze nelle quali erano coinvolti. Parafrasando un passaggio della sentenza, il BGH ritiene impossibile che, date le circostanze della situazione, i

“deportatori” non potevano credere che quei trasporti erano effettuati per il semplice

fatto di fornire manodopera al fine di compiere lavori stradali o costruire fortificazioni militari. Alla Corte questo sembrava l’atteggiamento di chi aveva coscienza di ciò che stava accadendo, tuttavia “dissimulava” questa consapevolezza, presentandosi come “mero esecutore di ordini illeciti” ed usufruire così dell’errore sul precetto o dell’errore sul fatto.

Queste pronunce della Corte federale di Cassazione furono “illuminanti” seppur aspramente criticate da una parte della dottrina degli ultimi anni ‘50 e del decennio successivo in virtù di un “eccessivo ricorso al diritto naturale o “sovra-positivo” che avrebbe potuto fomentare l’arbitrio giudiziale rappresentando un pericolo”214

. Tra i vari interpreti che si espressero a riguardo, va citato Antonio Villani, il quale, criticò il continuo ricorso in ogni campo al diritto naturale e alla morale senza neanche porsi il problema della conoscibilità del diritto naturale stesso e senza avere una solida base scientifica che propiziasse tale ragionamento.215

Non va però dimenticato che tali sentenze costituiscono nella storia della giurisprudenza tedesca, una pietra miliare che ha esercitato un’importante influenza anche sulla giurisprudenza dei decenni successivi, su tutte, quella degli anni ’90 sugli “omicidi al muro di Berlino”. Per questi motivi, non sono mancati anche gli interpreti che hanno guardato a queste pronunce in modo favorevole. Tra questi ci si può limitare a ricordare Hermann Weinkauff, il quale fu presidente del BGH e in quanto tale, ne esaltava

214

E.EVERS, Zum unkritischen Naturrechtswusstsein in der Rechtsprechung der Gegenwart in Juristenzeitung, 1941, p.241.

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l’operato affermando che, in quella giurisprudenza si “andava al di là dei richiami alla formula di Radbruch”.216

La Formula veniva considerata “utile" al fine di osservare la possibilità di contrasti tra il diritto naturale e il diritto positivo, ma era viziata da molteplici “confusioni”. Quello che invece voleva affermare il BGH era – secondo la ricostruzione di Weinkauff – “che la preminenza del diritto naturale va affermata nel senso più ampio e radicale.” Questo perché i cardini del diritto naturale sono il principio di uguaglianza, i diritti fondamentali della menschlichen persönlichkeit e quegli ordinamenti elementari che preesistono sia alle leggi che alle costituzioni.217 Alle pronunce fino ad ora viste vanno inevitabilmente accostate le “contemporanee” sentenze del BVerfG che fino ai primi anni ’80 non disdegnò di pronunciarsi sulla questione delle norme considerate invalide sin dalla loro origine per difetto dei caratteri essenziali del diritto. Dato il suddetto “spaccato” dottrinale, la Consulta federale evita di porre in tutte le sue pronunce un “secco” ed esplicito richiamo alla formula di Radbruch, seppur non ne trascura l’applicazione. Nel complesso però, il suo atteggiamento risulta più “prudente” di quello della Cassazione. Il

17 dicembre 1953 viene pronunciata la Beschluß des Bundesverfassungsgerichts n.10 del 1953218 (che sarà seguita da ulteriori quattro pronunce dello stesso canone) con ad

oggetto i rapporti di pubblico impiego (quindi si esce dal campo del penale). L’oggetto della questione era l’Art.131 della legge fondamentale che sanciva l’automatico scioglimento di tutti i rapporti di pubblico impiego dall’8 maggio 1945. In tal senso torna

216 H.WEINKAUFF, Der Naturrechtsgedanke in der Rechtsprechung des Bundesgerichtshofes in Neue

Jurisdische Wochenschrift, 1960, p.1689 ss.

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E’ interessante osservare come, per esemplificare a questi “ordinamenti elementari”, l’autore faccia riferimento alla famiglia, al popolo, allo Stato. Questo richiamo è a “tinte fortemente hegeliane” . Hegel, nel suo Phänomenologie des Geistes pubblicata per la prima volta nel 1807, afferma che La separazione fra la soggettività e il bene viene risolta nell’eticità. Mentre la moralità è la volontà soggettiva, l’eticità è la moralità sociale, ovvero la realizzazione del bene nelle forme istituzionali di famiglia, società civile e Stato. Nella famiglia, il rapporto naturale dei sessi assume la forma di un’unità spirituale. Essa si articola nel matrimonio, nel patrimonio e nell’educazione dei figli. Con la formazione di nuovi nuclei familiari il sistema unitario della famiglia si frantuma nel sistema atomistico della società civile, luogo di scontro di interessi particolari. La società civile si articola in tre momenti: il sistema dei bisogni, l’amministrazione della giustizia, la polizia e le corporazioni. Il sistema dei bisogni nasce dal fatto che gli individui, dovendo soddisfare i loro bisogni, danno origine a differenti classi. L’amministrazione della giustizia concerne la sfera delle leggi, la polizia e le corporazioni provvedono alla sicurezza sociale. L’idea di porre, fra l’individuo e lo Stato, la società civile è stata ritenuta una delle sue maggiori intuizioni Lo Stato è il momento culminante dell’eticità, ossia la riaffermazione dell’unità della famiglia (tesi), al di là della dispersione della società civile (antitesi). Lo Stato è una sorta di famiglia in grande, nella quale l’ethos di

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