Parte II. Il πόνος della filosofia
4.4 Conclusioni: immaginario, pedagogia e protrettica
Le analisi di Halliwell corroborano i risultati già raggiunti nella discussione precedente riguardante l’uso di immagini nei dialoghi. Platone sfrutta il materiale culturale che ha a disposizione per spiegare attraverso di esso in che cosa consista la fatica della filosofia: l’uso di queste immagini ha un valore innanzitutto illustrativo e conoscitivo. Quanto detto a riguardo delle immagini eroiche vale anche per le immagini belliche e agonistiche, come si è già mostrato in precedenza. Socrate utilizza le modalità di comunicazione che la sua cultura mette a disposizione per mostrare come la filosofia sia una scelta di vita che comporta fatica e difficoltà da superare, nei confronti delle quali il filosofo deve comportarsi come un eroe, o come un atleta: egli è Eracle al bivio, posto di fronte alla scelta, è Odisseo che attraversa il mare del ragionamento, senza lasciarsi travolgere dai flutti che lo minacciano, è il lottatore nell’agone olimpico. È l’uomo che, nel fronteggiare le difficoltà, non lascia che esse turbino il corretto ordine della sua anima, ma ha la capacità di resistere ad esse, nello stesso modo in cui Odisseo affronta le proprie. Allo stesso tempo, tali immagini mostrano anche ciò che il filosofo non deve essere: egli non deve comportarsi come Achille e lasciare che ogni difficoltà produca una sovversione del proprio ordine interiore.
L’analisi della poesia nella Repubblica, inoltre, mette in luce che l’uso di immagini eroiche in particolare non ha valore solo illustrativo e conoscitivo, ma anche, e soprattutto,
mimetico-paideutico. Gli eroi offrono modelli di comportamento che sono imitati: essi
mostrano il modo in cui affrontare le difficoltà, generando una risposta emulativa nel fruitore
490 Ivi, 100: «we need to consolidate the recognition that such citations function, in part at least, as a dramatic
image of an ingrained cultural practice and the mentality which informs it». Su questo tema si veda anche Havelock 1963, cap. 8.
491 Questo è l’argomento centrale dell’articolo di Halliwell, e il punto è sottolineato a più riprese (cf. ad es. 104,
della poesia. Il filosofo trova un modello da imitare nei racconti poetici: egli deve ponderare la propria scelta di vita come un nuovo Eracle, affrontare la discussione filosofica con la stessa fermezza e resistenza di Odisseo. Nonostante la discussione della poesia contenuta nei libri II e III si soffermi sui soli modelli divini ed eroici, in precedenza si è cercato di mettere in luce come eroismo ed agonismo facciano parte di campi concettuali affini, inseparabili l’uno dall’altro. Si può dunque provare a suggerire che il valore mimetico-paideutico non debba essere confinato ai soli modelli divini ed eroici, ma valga anche per i modelli bellici ed agonistici: il filosofo trova un modello di comportamento da imitare nella fermezza del soldato in battaglia, nella resistenza dell’atleta che affronta l’agone olimpico. Si proverà ad offrire qualche riflessione sull’argomento, che corrobori l’ipotesi qui avanzata, più avanti (in particolare nel capitolo 6.3).
Tale valore mimetico-paideutico non può essere separato dal valore protrettico: proponendo questi modelli, si esorta il filosofo a seguirli. Di scarso valore sarebbe, infatti, un modello educativo se esso non fosse percepito come degno di essere imitato. Il valore paideutico-protrettico dei modelli di comportamento permette dunque di comprendere la portata di quella che è stata sopra definita come la «riscrittura della cultura tradizionale» operata da Platone. Se Omero era «educatore della Grecia», ora è Platone a rivaleggiare con il poeta e a porsi come nuovo educatore, proponendo nuovi modelli di comportamento. Con «nuovi», si è visto, non si intende dire che essi operino una rottura completa con la tradizione precedente, introducendo modelli fino ad allora sconosciuti. I nuovi modelli, invece, sono costruiti attraverso un confronto critico con la tradizione: si tratta di modelli «vecchi» riletti in una nuova chiave filosofica.
5 Il πόνος della filosofia nei libri VI e VII della Repubblica
È opinione comunemente diffusa, in particolar modo nella bibliografia di lingua inglese, che l’immagine del filosofo come eroe, come ἀγωνιστής, sia assente nei libri centrali della Repubblica. In particolar modo, nei libri VI e VII, non ci sarebbe spazio per un Eracle o un Odisseo nella discussione su chi sia il filosofo e come egli debba essere educato492.
Certamente immagini e metafore non sono assenti nella seconda parte dell’opera (basti pensare alle immagini del Sole, della Linea e della Caverna), ma Platone abbandonerebbe l’insieme di immagini finora studiato per descrivere la vita del filosofo attraverso «metaphors less glittering than the athletic sort», come quella del timoniere della nave (488a-489a)493.
L’assenza di tale intreccio di metafore eroico-agonistiche sarebbe il riflesso di una radicale revisione da parte di Platone della figura del filosofo che governa la città. Se i guardiani del libro III erano descritti come ἀθληταὶ τοῦ μεγίστου ἀγῶνος, e successivamente nel libro IV come coloro che posseggono la capacità di prendere le migliori decisioni nell’interesse di tutta la città (428a-429a), tutto ciò sembrerebbe essere assente dalla descrizione del filosofo nel libro VII. Ora, il filosofo sarebbe solo un pensatore assorto nella contemplazione delle idee, avulso dalla vita mondana e privo di un sapere che possa essere messo in pratica, sia in sede etica che politica. È utile riportare le parole di Julia Annas come spunto introduttivo per poter poi verificare la tenuta di tale posizione:
for the developments of Sun, Line and Cave have made the philosopher’s knowledge appear to be no longer practical, but rather theoretical, and we can distinguish two conceptions of the philosopher that correspond to this: the practical one, and what (following Irwin) I shall call the contemplative one494.
Ci sarebbero dunque nella Repubblica due differenti ritratti del filosofo, tra di loro inconciliabili. Da una parte, il filosofo descritto fino al libro IV del dialogo, in possesso di un sapere di tipo pratico. Con tale espressione Annas intende un tipo di sapere applicabile sia in sede etica che politica: filosofo è colui che sa dare ordine sia alla sua stessa anima, sia alla
492 N. Smith 1999 commenta: «literary images of the hero as a noble agonistes have no more place than narrative
does in either the higher education of Plato’s future rulers or in their subsequent political apprenticeships. [...] I do not think a plausible case can be made for the idea that Plato’s conceptions of mathematics (say) or practical politics included a place for the contemplation of Heracles, Odysseus, or Bendis – or for those characterized as being like them in the relevant heroic ways» (129).
493 G. R. F. Ferrari 2003, 34.
494 Annas 1981, 260-261. Il riferimento presente nel passo citato è chiaramente a Irwin 1977. Una posizione
comunità politica (261-264). Dall’altra, il filosofo descritto nel libro VII, il quale invece sarebbe solamente colui che usa «abstract thinking» (253) per contemplare la realtà ideale495.
La contemplazione delle idee, secondo Annas, sarebbe il fine stesso – e fine ultimo – della vita filosofica. Conoscere le idee non comporterebbe alcun effetto né nella vita etica («Why should exclusive study of Forms lead to psychic harmony?», 264), né nella vita politica: tutto ciò che non si trovi al di fuori della caverna sarebbe «mere rubbish» (ibidem).
Secondo l’Autrice americana tale incoerenza si fonderebbe su un errore di Platone, il quale non distinguerebbe la ragione teoretica dalla ragione pratica496. Platone sarebbe
eccessivamente ambizioso nel confidare che il ragionamento teoretico e quello pratico non possano mai entrare in conflitto: la ragione per lui sarebbe una sola ed opererebbe sia nel contesto pratico, sia nella contemplazione delle idee497. Chiaramente, una tale lettura si fonda
su un filtro aristotelico498. Infatti, si dà per scontato un quadro interpretativo che fa
riferimento all’Etica Nicomachea: ci dovrebbe necessariamente essere una distinzione fra virtù dianoetiche ed etiche, e, nella ragione stessa, fra ἐπιστημονικόν e λογιστικόν, ciascuno con proprie e distinte forme di sapere, gradi di certezza ed ambiti di applicazione499.
L’impossibilità di rintracciare nei libri centrali della Repubblica sia questa distinzione, sia riferimenti che facciano pensare ad una possibilità di applicazione pratica del sapere filosofico, ha condotto alla conclusione che l’ideale di filosofo proposto da Platone in questo luogo sarebbe di carattere solo teorico-contemplativo. Però, non si può certo imputare a Platone di non utilizzare la distinzione fra ragione teoretica e ragione pratica operata dal suo allievo. A mio parere, questa mancanza non dovrebbe condurre alla conclusione che egli è in errore e che fa affermazioni tra loro inconciliabili, ma che è necessaria una prospettiva diversa nel leggere il dialogo: una prospettiva che accetti l’assenza di tale distinzione e cerchi di comprendere l’argomentazione platonica attraverso se stessa – non attraverso le posizioni di Aristotele.
Nelle letture di Annas, Irwin ed altri, il filosofo dei libri VI-VII è solo «contemplativo»: non ci sarebbe spazio per il πόνος della filosofia in questi libri500. Anzi,
495 Nightingale 2004 addirittura ritiene che la descrizione del filosofo offerta nell’immagine della caverna
rappresenti «an idealized figure who makes a journey no human being could ever accomplish» (98).
496 Anche Gill 1985, 17, vede in tale mancata distinzione un motivo di accusa nei confronti di Platone. Ma già
Robinson 19532, 71, riteneva che la filosofia fosse intesa nei libro IV come eccellenza morale, nel libro VII
come eccellenza intellettuale.
497 Annas 1981, 265.
498 Annas 1981 stessa lo ammette: «Aristotle, in his Nicomachean Ethics (especially the sixth book) reacts
sharply against Plato in a way we find sympathetic» (265).
499 Per la distinzione fra virtù dianoetiche ed etiche si veda Eth. Nic. I, 1102a5 ss., e per la distinzione fra
ἐπιστημονικόν e λογιστικόν Eth. Nic. VI, 1138b18 ss.
500 Trovo che anche qui ci sia un’eccessiva influenza aristotelica, in particolar modo per il modo in cui Aristotele
l’ideale contemplativo del filosofo affermerebbe esattamente il contrario: la filosofia non comporterebbe più alcun πόνος, dal momento che essa sarebbe mera contemplazione e il filosofo avrebbe raggiunto uno status superumano, quasi divino501.
Questo capitolo e il successivo provano a confutare questa posizione. Il presente capitolo prende le mosse da una considerazione quasi banale: è falso che le metafore ginniche, belliche ed eroiche siano assenti dai libri VI-VII. Si studierà dunque come anche l’educazione del filosofo in questi libri sia descritta come un compito difficile e faticoso, che richiede resistenza e perseveranza, attraverso l’uso di metafore ginniche (5.1), e paragonando la dialettica ad una battaglia (5.2). Inoltre, anche l’immagine della caverna pone l’accento sulla dolorosità e faticosità del processo di liberazione dalle catene e di ascesa (5.3). Dunque, anche il percorso educativo del filosofo nel libro VII è descritto esattamente nei termini di un πόνος. A questo punto, però, si potrebbe comunque obiettare che tale fatica riguardi una conoscenza comunque meramente teoretica, non pratica: dimostrare solamente che la fatica è connessa all’apprendimento delle materie di studio lascerebbe comunque spazio alle obiezioni di Annas, secondo cui Platone, descrivendo il filosofo come colui che è in possesso di una conoscenza solo teorica, tradirebbe il significato stesso della giustizia, perché essa si rivela nell’azione502. Il capitolo successivo, allora, si occuperà di chiarire quale sia l’esperienza
pratica del filosofo, e quali πόνοι essa comporti. In questo modo, si affronterà direttamente il tema già spesso anticipato, ma mai trattato, di quale sia l’esperienza pratica in cui si concretizza la vita filosofica.