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Dionisio alla prova

Nel documento Ponos. Platone e le fatiche della filosofia (pagine 123-135)

Parte II. Il πόνος della filosofia

1.2 Dionisio alla prova

Il passo da prendere in esame è 340b1-341b3. Esso si situa solo una pagina Stephanus prima dell’inizio del famoso excursus filosofico, la parte della lettera che è oggetto degli studi

319 Questo tema è approfondito in particolar modo da Morrow 1962, 44-60. 320 H. Tarrant 1983.

321 Edelstein 1966, 85-108. 322 Così Morrow 1962, 73. 323 Ivi, 67-68.

più approfonditi, per la dottrina epistemologica in esso proposta324. Come emergerà dalla

discussione, non è opportuno considerare il passo di nostro interesse come parte dell’excursus stesso325: ciò porterebbe infatti ad un’interpretazione fuorviante del suo significato, e non è

nemmeno necessario analizzare la dottrina della conoscenza contenuta nella digressione per interpretarlo. Un primo indizio dell’autosufficienza del passo rispetto all’excursus è la sua struttura ad anello, nella forma A B C B1 A1. Sommariamente, questi sono i contenuti delle

parti: A) Introduzione: c’è una prova per saggiare se una persona possieda una natura filosofica o no. B) Contenuto della prova: si spiega in che cosa essa consista e come si comporta colui che la supera. C) Il modo di vivere del filosofo: colui che ama la filosofia unisce pensiero e vita. B1) Si torna nuovamente al contenuto della prova, spiegando come si

comporta chi fallisce la prova e il perché di tale fallimento. A1) Conclusione: questa è la prova

per distinguere chi è in grado di applicarsi allo studio della filosofia e chi no. Qui di seguito si analizzeranno le quattro parti separatamente, per ragioni di chiarezza e semplicità, per poi riassumere il significato complessivo della prova filosofica che emerge dal passo considerato nella sua interezza.

Platone è invitato da Dionisio stesso a recarsi in Sicilia per la terza volta (361-360 a. C.), dopo il fallimento dei primi due viaggi (388-387 e 366-365 a. C.). Sembra che il tiranno nutra un vivo interesse per la filosofia: così testimoniano sia Archedemo, l’inviato di Dionisio, sia gli altri Siciliani membri dell’ambasceria, sia Archita e i Tarantini (interessati anche all’intercessione di Platone per mantenere i buoni rapporti con il tiranno)326. Di fronte

alle pressioni ricevute sia dall’Italia, sia da Atene stessa, Platone decide di tentare il viaggio, per verificare la verità di ciò che si dice:

A) Dopo il mio arrivo pensai che la prima cosa da fare era verificare (ἔλεγχον λαβεῖν) se veramente Dionisio era divorato dal fuoco della filosofia o se le numerose voci giunte ad Atene erano false. Per fare questa prova c’è un buon metodo (τρόπος τοῦ περὶ τὰ τοιαῦτα πεῖραν λαμβάνειν),

324 Per una trattazione esaustiva del significato dell’excursus si vedano Isnardi Parente 1970, 47-100, e

Trabattoni 1993, 200-244, i quali situano il significato delle dottrine ivi esposte nel contesto del problema della comunicazione filosofica, offrendo una lettura che evita, da una parte, di cadere nelle cosiddette «dottrine non scritte», dall’altra, di limitarsi solo a cercare parallelismi o divergenze con quanto esposto nei dialoghi.

325 Come invece ritiene Krämer 1982, 99. Anche H. Tarrant 1983 ritiene che questo passo sia parte della

digressione filosofica, secondo lui aggiunta in epoca medioplatonica. La sua posizione non si fonda su considerazioni di carattere filosofico, ma su un argomento e silentio: Plutarco, nella sua Vita di Dione, non fa riferimento all’insegnamento che Platone impartì a Dionisio e alla successiva pubblicazione di un’opera scritta da parte di costui. È assai improbabile che Plutarco avesse deciso di non menzionare questo dettaglio, se ne fosse stato veramente a conoscenza (81-82).

326 Ep. VII, 339b-340a. Morrow 1962, 155-173, discute i possibili progetti politici di Platone e Dione per

particolarmente adeguato quando si ha a che fare coi tiranni, specie se sono imbevuti di dottrine male apprese: e io mi accorsi subito, al mio arrivo, che Dionisio si trovava in tale situazione327.

Dionisio è sottoposto ad una prova (πεῖρα) per testare se veramente possieda per la filosofia l’amore che professa, se ne sia infiammato come da un fuoco. Tale prova non deve essere considerata una sorta di iniziazione alla filosofia, o una prima lezione di filosofia in cui si espongono contenuti dottrinali, come è stato fatto dagli interpreti legati alla Scuola di Tubinga, secondo i quali il contenuto di essa corrisponde al contenuto dell’excursus, per cui Dionisio sarebbe stato iniziato da Platone alle dottrine più elevate della sua filosofia328. Il

procedere della discussione fornirà solidi argomenti per confutare questa teoria. Né del resto il significato della prova deve essere considerato come talmente generico da non permettere alcuna determinazione significativa, ritenendo che la locuzione πεῖραν λαμβάνειν significhi solo «fare esperienza di qualcosa»329. È infatti Platone stesso a qualificare la prova come una

confutazione, un ἔλεγχος (ἔλεγχον λαβεῖν)330. Il tiranno, dunque, messo alla prova attraverso

l’ἔλεγχος, mostrerà se nutre un vero amore per la filosofia. Le righe che seguono descrivono in che cosa consista questa prova:

B) A queste persone bisogna mostrare che cos’è veramente la ricerca filosofica e quale impegno e quale fatica (πόνον) essa comporta. E se colui che ascolta è di indole divina, se è veramente filosofo ed è degno di tale ricerca, riterrà che la via (ὁδόν) indicata è la migliore, che bisogna cercare di seguirla subito e che non si può vivere in modo diverso (οὐ βιοτὸν ἄλλως). Allora unisce i suoi sforzi a quelli della sua guida (τὸν ἡγούμενον τὴν ὁδόν)

327 Ep. VII, 340b1-7. 328 Cf. Reale 1987, 106.

329 Così Isnardi Parente – Ciani 2002, nota ad loc. Isnardi Parente 1991, 447 nota 16, fa affidamento, per

dimostrare un tale significato generico dell’espressione, ad un passo di Isocrate, dove essa deve essere necessariamente intesa in questo senso (Antidosis 31). Knab 2006, nota ad loc., commenta che questa posizione non può essere accettata (egli segue la lettura di Reale). Per dimostrare che l’espressione ha una rilevanza filosofica cita un interessante passo dell’Eutidemo, 274e8-275b7, in cui Socrate invita Eutidemo e Dionisodoro a mettere alla prova il giovane Clinia e discutere con lui (λάβετον πεῖραν τοῦ μειρακίου καὶ διαλέχθητον ἐναντίον ἡμῶν, 275b7). Due sono gli aspetti rilevanti di questo passo: in primo luogo, Socrate invita i due sofisti a «persuade[re] questo giovinetto che è necessario filosofare ed aver cura della virtù» (tr. it. Adorno 1966). Dunque, la πεῖρα consiste nell’esortazione alla filosofia: essa dovrebbe servire ad indirizzare il giovane Clinia sulla strada della virtù. In modo non dissimile, la πεῖρα della lettera ha a che fare con la valutazione del perseguimento di una vita filosofica. Inoltre, la prova dell’Eutidemo avviene attraverso la discussione dialettica (διαλέχθητον); nella lettera essa è qualificata, in modo simile, come confutazione (ἔλεγχος). La stessa espressione è usata in modo filosoficamente significativo a Prot. 348a5-6, dove oggetti della messa alla prova sono la verità e gli interlocutori stessi (τῆς ἀληθείας καὶ ἡμῶν αὐτῶν πείραν λαμβάνοντας).

330 Così notano anche Butti de Lima – Ciani 2015, nota ad loc. Per questo motivo non concordo con Edelstein

1966, 75, il quale afferma che Platone «generally talks to tyrants in veiled language, so he does not cross examine them».

e non desiste prima di aver raggiunto lo scopo (τέλος) o di aver acquisito una forza tale che gli consenta di proseguire il suo cammino da solo, senza l’aiuto del maestro (τοῦ δείξοντος)331.

Per comprendere questo passo è bene prestare attenzione al greco: la traduzione «mostrare ... la ricerca filosofica e quale impegno» rende il greco δεικνύναι ... ὅτι ἔστι πᾶν τὸ πράγμα οἷόν τε καὶ δι’ ὅσον πραγμάτων, espressione molto vaga, che a prima vista potrebbe sembrare eccessivamente generica per un filosofo come Platone, ma che può trovare la sua giustificazione nella natura epistolare dello scritto332. La prova, afferma il testo, deve mostrare

quattro cose: che cosa sia (ὅτι ἔστι) il πράγμα della filosofia, cioè in che cosa consista il filosofare; come essa sia (οἷον) – questi due aspetti si potrebbero riassumere, in altre parole, nell’espressione «come stia la faccenda», vista la natura informale del lessico greco usato da Platone333; inoltre, deve mostrare attraverso quali azioni, o difficoltà, essa deve passare334;

infine, che tale processo comporta fatica (πόνον). Dunque, la prova ha lo scopo di mostrare sia la quantità che la qualità degli ostacoli che chi desidera acquisire la sapienza deve superare335. Tre considerazioni emergono immediatamente.

In primo luogo, non si può ritenere, come fa Thomas Szlezák336, che la prova consista

in uno «sguardo anticipatore alla sua teoria nella sua totalità» – così egli interpreta l’espressione πᾶν τὸ πράγμα – in quanto, come si è visto, l’espressione ha un significato generico e colloquiale. Sarebbe eccessivo anche considerare il contenuto della prova come una «prima lezione di filosofia», in quanto nel testo non si afferma che si procede alla trasmissione di contenuti dottrinali e conoscenze filosofiche: la parola «lezione» dà la falsa impressione di una trasmissione univoca di sapere, di un passaggio di contenuti di conoscenza da maestro ad allievo337. Anzi, se la prova è strutturata come un ἔλεγχος, è probabile che si

331 Ep. VII, 340b8-d1.

332 Isnardi Parente – Ciani 2002, nota ad loc.

333 Mi sembra che tale colloquialismo non sia fuori luogo, visto che anche Brisson, nel commentare questo

passo, parla di argot, cioè dell’uso di linguaggio gergale, slang (Brisson 1987, 225). Anche Tulli 1989, 11, nota l’uso gergale del temine, ma fa anche notare che πράγμα è usato anche in altri dialoghi per indicare, in modo generico, l’attività del filosofo: in Ap. 20c5 e Phaed. 60c9 il termine indica l’attività di Socrate; a Theaet. 168b2 indica l’attività del filosofo, che fa uso del dialogo a fini non eristico-agonistici, ma per esortare a seguire la virtù.

334 Il termine πράγμα al purale può avere una sfumatura negativa: si veda LSJ, s.v.

335 Come nota molto bene Trabattoni 1993, 201. Mi sembra che in questo caso la traduzione di Del Corno –

Innocenti 1986 sia più incisiva di quella che ho citato, perché lascia emergere più chiaramente le quattro condizioni che la prova deve saggiare: «Bisogna dunque mostrare loro in che consiste l’agire filosofico, qual è il suo carattere, in quali azioni si esplica, e quanta fatica comporta». In entrambi i casi, comunque, il πράγμα della filosofia è interpretato come un’attività, una ricerca, rispettando la vaghezza e colloquialità dell’espressione greca, in chiara opposizione alla lettura tubinghese che mi appresto subito a trattare.

336 Szlezák 1988, 483-484.

337 Questo tipo di lettura, inoltre, entrerebbe in contraddizione con l’idea stessa di apprendimento che Platone

tratti di una discussione confutatoria in cui il maestro dimostra, appunto confutando le posizioni dell’allievo, quante difficoltà si debbano superare per raggiungere la conoscenza (e come egli non sia pronto ad affrontarle). Ecco dunque che si spiega perché la filosofia debba comportare necessariamente πόνος: se essa non può che passare attraverso le molte difficoltà della confutazione, è necessario non desistere, ma persistere passando senza scoraggiarsi attraverso di esse. Nel momento in cui si trova a dover fronteggiare una difficoltà il vero filosofo dimostra di avere la capacità di resistere superandola. La prova, allora, non mostra le verità ultime della filosofia: essa non fa che indicare la via (ὁδόν) da percorrere; colui che è veramente filosofo si convince che questa sia la migliore nonostante il πόνος che comporta.

In secondo luogo, è interessante notare che la via filosofica non è descritta come un insieme di conoscenze, come un percorso che comporta un impegno meramente teoretico: colui che decide di seguirla si convince che non si può vivere in modo diverso (οὐ βιοτὸν ἄλλως, 340c3). Il πόνος della filosofia sembrerebbe quindi non consistere solo in una capacità di resistere alla confutazione, in un esercizio meramente teoretico, ma in una pratica di vita che risulta essere faticosa e difficile perché richiede impegno e la resistenza di fronte agli ostacoli. L’analisi della sezione C) fornirà altri dettagli a riguardo.

Infine, è da notare che tale pratica si situa in un contesto relazionale, in un rapporto tra maestro ed allievo – anche se, ad essere precisi, le parole maestro ed allievo non compaiono mai: la relazione è tra «colui che guida la strada» (τὸν ἡγούμενον τὴν ὁδόν), detto anche «colui che mostra» (τοῦ δείξοντος), e chi cerca di seguire questa strada unendo i suoi sforzi a quelli della guida338. La fatica della ricerca filosofica è dunque condivisa: il maestro si unisce

all’allievo in tale ricerca339; il loro rapporto può proseguire nel tempo, fino a giungere insieme

al traguardo, o può interrompersi nel momento in cui l’allievo acquisisce una forza tale da poter proseguire il cammino con le sue sole forze, senza bisogno della guida del maestro.

C) Così pensa e così vive chi ama la filosofia. E continua a fare quello che faceva prima, rimanendo però sempre fedele alla filosofia e a quel genere di

pieno a quello più vuoto (Symp. 175d); non è l’immissione di contenuti di conoscenza, proprio come non si può immettere la vista in occhi ciechi (Resp. 518c). Però, diversi studiosi ritengono che si tratti proprio di una lezione: Edelstein 1966, 72; Reale 1987, 106; Trabattoni 1993, 201-202.

338 Si vedano le considerazioni di Isnardi Parente 1970, 104: nelle scuole filosofiche antiche, come riportano

numerose testimonianze, il rapporto che oggi noi consideriamo tra maestro e allievo era visto come un rapporto tra amici, compagni, (un rapporto di φιλία o ἐταιρία) di cui uno più anziano e uno più giovane, «trasponendo su piano filosofico, aristocratico-intellettuale, il concetto nato su piano aristocratico-politico».

339 Anche il questo caso l’espressione greca utilizzata (συντείνας αὐτὸς αὑτόν τε καὶ τὸν ἡγούμενον τὴν ὁδόν,

340c5) è molto vaga, e non è possibile ricavare da essa indicazioni specifiche. Si può però ipotizzare, a partire dall’interpretazione appena data, che anche il maestro condivida il percorso dell’allievo, sia perché partecipa all’esercizio dialettico-dialogico, sia perché deve impegnarsi anche lui in quell’esercizio quotidiano, quella pratica di vita, in cui consiste la filosofia. Si rifletterà su questo punto infra, cap. 6.4.

vita quotidiano (τροφῆς τῆς καθ’ ἡμέραν) che fa di lui un uomo capace di apprendere (εὐμαθῆ), ricordare (μνήμονα) e ragionare (λογίζεσθαι δυνατόν) nel pieno dominio delle sue facoltà, un uomo che avrà sempre in odio il modo di vivere contrario a questo340.

Da questo passo emerge in modo ancora più chiaro che la via filosofica richiede un impegno sia teoretico, sia pratico: l’amore per la filosofia si declina sia in una forma di pensiero, sia in una forma di vita341. Non è però chiaro quali siano le attività che il filosofo

continua a praticare, ma con un diverso atteggiamento filosofico. Platone sembra alludere al fatto che la filosofia non consista in un’occupazione specifica, ma in una «prospettiva» filosofica sulle azioni che si compiono nel corso della vita, che deve essere applicata giorno dopo giorno (τροφῆς τῆς καθ’ ἡμέραν), attraverso un continuo esercizio. Queste poche righe, però, non permettono di trarre conclusioni certe e dettagliate riguardo a questo problema: Platone non spiega in che cosa consista il regime quotidiano che fa di una persona un filosofo. È però degno di nota il fatto che egli elenchi tre capacità proprie di chi è filosofo: egli è un uomo dotato di facilità nell’apprendere (εὐμαθῆ), buona memoria (μνήμονα) e abilità nel ragionamento (λογίζεσθαι δυνατόν). Queste tre caratteristiche sono presenti anche nella descrizione del filosofo fornita nel libro VII della Repubblica, tema che sarà affrontato in seguito342. Non molte persone, però, sono in grado di vivere in questo modo.

B1) E invece quelli che non sono veri filosofi ma possiedono solo una patina

di opinioni, si comportano come chi è rimasto scottato dal sole: vedendo quante sono le cose da imparare (μαθήματα) e quanta la fatica (πόνος) e come sia necessaria, nel seguire la ricerca (τῷ πράγματι), una condotta di vita (δίαιτα ἡ καθ’ ἡμέραν) severa e regolata (κοσμία), giudicano l’impegno difficile per loro, anzi impossibile, e non si sentono in grado di affrontarlo (ἐπιτηδεύειν); alcuni si convincono di avere appreso abbastanza (τὸ ὅλον) e

340 Ep. VII, 340d1-6. L’espressione ἐν αὑτῷ νήφοντα, qui tradotta «nel pieno dominio delle sue facoltà» alla

lettera significa «ritornando in sé». Questa è la spiegazione che è accettata dalla maggior parte dei commentatori, ma non da Pasquali 1967, 77, nota 4. Egli ritiene che νήφοντα non sia un accusativo singolare, in quanto mancherebbe un καὶ che lo congiunga a εὐμαθῆ e μνήμονα, ma che sia un accusativo plurale neutro da riferirsi a λογίζεσθαι δυνατόν. In questo modo la frase significherebbe che il filosofo «è in grado di pensare cose sobrie in se stesso», ma questa esegesi presenta due inconvenienti: primo, si ha una perdita di pregnanza di significato (cosa significa che gli oggetti di conoscenza sono «sobri»?); secondo, non si rende ragione della locuzione ἐν αὑτῷ, che risulterebbe non necessaria se νήφοντα fosse complemento oggetto di λογίζεσθαι.

341 Come fa notare Knab 2006, nota ad loc., il legame tra filosofia e pratica di vita è sottolineato anche in altri

passi della lettera: 328a5 (λόγον καὶ βίον); 330c9-d1; 331a9-b1 (τὸ καθ’ἡμέραν … ζῆν), come in 331d7-8; 336c3-4; 339a1.

di non aver più bisogno di altre fatiche (πραγμάτων)343.

Questo passo è simmetrico rispetto al già commentato passo B), in quanto descrive le caratteristiche di chi non possiede una natura veramente filosofica. Anche in questo caso, un’interpretazione accurata del significato del passo deve fare i conti con la colloquialità del linguaggio utilizzato: ciò in cui la filosofia consiste è descritto come un generico πράγμα, termine che non permette una specificazione esatta dei contenuti. Però, il passo è perfettamente coerente con quanto detto in precedenza, sia in B) che in C), nel considerare l’impegno filosofico come ugualmente teoretico e pratico: infatti, la fatica (πόνος) della via filosofica è dovuta sia alla difficoltà dei contenuti teorici da imparare (μαθήματα), sia alla difficoltà di mantenere una condotta di vita ordinata (l’espressione δίαιτα ἡ καθ’ ἡμέραν è sinonimo di τροφῆς τῆς καθ’ ἡμέραν che si trova poche righe più sopra). L’impegno richiesto dalla filosofia è descritto come una forma di esercizio (il verbo utilizzato è infatti ἐπιτηδεύειν). L’immagine della «scottatura» di chi non è un vero filosofo ha chiaramente richiamato alla mente degli interpreti le immagini del sole e della caverna nella Repubblica. Chi non è in grado si sopportare la fatica della filosofia, e abbandona l’impegno nel momento in cui rimane «scottato», si ritrova a possedere solo «una patina di opinioni»: questa traduzione rende pienamente il significato del verbo greco ἐπιχρώννυμι, un hapax in Platone, che significa «colorare in superficie» (da χρώς, «superficie», ma anche «pelle»). Chi non è vero filosofo possiede delle opinioni, che, trovandosi solo sulla superficie, nascondono una mancanza: è dunque compito della confutazione – qui si tratta di quella di Platone nei confronti di Dionisio – saggiare cosa si trovi sotto questa patina che a prima vista potrebbe ingannare su ciò che le sta sotto344. Platone va oltre nel descrivere l’atteggiamento del non

filosofo, riflettendo sulla particolare natura dell’autopersuasione di costui. Da questo passo emerge, infatti, che chi non è filosofo è consapevole dell’insufficienza della sua conoscenza, perché gli è stato mostrato che ci sono altre cose da imparare e un continuo esercizio «dietetico» da compiere giorno dopo giorno; nonostante ciò, egli si convince di non avere la capacità di affrontare quell’impegno. Anzi, persuade se stesso di conoscere già tutto quanto (non «abbastanza»: la traduzione rende in modo erroneo un significativo τὸ ὅλον) e di non avere bisogno di faticare oltre nell’apprendimento della filosofia.

Infine, il brano si conclude con un richiamo al significato generale della «prova», con

343 Ep. VII, 340d5-341a3.

344 Mi sembra interessante notare la contrapposizione tra la superficialità che il verbo ἐπιχρώννυμι lascia

intendere e la profondità del ritorno introspettivo in sé di chi è veramente filosofo di cui si parla solo poche righe prima (ἐν αὑτῷ νήφοντα, 340d4, cf. supra, 128, nota 340).

la reiterazione del vocabolo πεῖρα che salda la struttura ad anello del passo345:

A1) È questa la prova (πεῖρα) più chiara, la più sicura che si possa fare con

coloro che conducono una vita di piaceri (τρυφῶντας) e non sono in grado di sopportare una continua fatica (ἀδυνάτους διαπονεῖν): se costoro si rivelano incapaci di applicarsi allo studio della filosofia (ἐπιτηδεύειν τῷ πράγματι), dovranno accusare se stessi e non il loro maestro346.

Di nuovo, le parole di Platone non sembrano riferirsi ad una serie di contenuti filosofici che egli avrebbe cercato di trasmettere a Dionisio, ma ad un test utile a valutare la capacità di resistere alla fatica che vivere una vita filosofica comporta. Il πράγμα della filosofia è descritto come qualcosa non semplicemente da imparare, ma da esercitare (ἐπιτηδεύειν). Tale esercizio comporta un impegno costante, e dunque fatica. Filosofo è allora innanzitutto colui che ha la capacità di resistere alla fatica del compito cui si trova di fronte – compito che, come si è visto, non è descritto in modo dettagliato, ma solo accennato utilizzando un vocabolario molto generico.

Quanto detto è sufficiente a dimostrare la scorrettezza della posizione di Slezák, Krämer e Reale, secondo cui la prova consisterebbe in una lezione di filosofia, in una presentazione preliminare del contenuto della filosofia di Platone nel suo complesso. Gli argomenti addotti a sostegno di questo argomento sono stati di carattere sia strutturale, sia argomentativo: in primo luogo, la struttura ad anello del brano fa pensare ad una coerenza interna propria del brano stesso, e nulla dimostra che sia necessario leggerlo alla luce di quanto spiegato successivamente; inoltre, in questo brano non si parla mai della trasmissione di determinate conoscenze filosofiche, ma di un percorso (ὁδός) da seguire – di cui tali

Nel documento Ponos. Platone e le fatiche della filosofia (pagine 123-135)