Sul concetto di πόνος
1. Introduzione: riflessioni a partire da Cicerone
Si devono all’azione dei migliori – e per migliori intendo quelli che sono disposti alla fatica (οἰ θέλοντες πονεῖν) – tutte le scoperte utili all’umanità.
Xen. Cyn. XII, 18
Recuperare tutta la ricchezza di significato delle parole greche è sempre difficile, e ogni traduzione, o spiegazione, si rivela limitata perché riesce a cogliere solo alcuni aspetti dei concetti che tali parole esprimono. Questa difficoltà emerge in modo particolare nel momento in cui si affronta lo studio della parola πόνος: essa, come si dimostrerà nella prima sezione di questa discussione, ricopre un’area concettuale molto ampia, che spazia dal semplice lavoro, alla fatica fisica, alla fatica della battaglia, alla sofferenza (fisica e psichica), al travaglio del parto, fino ad essere riletta da Platone – di questo si occuperà la seconda sezione – in chiave filosofica per esprimere la fatica, la sofferenza e il travaglio intrinsecamente legati alla ricerca e alla vita filosofica. Sarebbe però riduttivo, nonché semplicistico e banalizzante, affermare che la fatica e la sofferenza accompagnano la ricerca filosofica, come se si trattasse di elementi legati ad essa estrinsecamente, elementi che non giocherebbero alcun ruolo nel dare forma e orientamento alla ricerca stessa, o che potrebbero essere facilmente evitati (o che dovrebbero esserlo, proponendo come ideale filosofico un’apatia di stampo stoicheggiante). Questa ricerca, al contrario, si prefigge di dimostrare come per Platone πόνος sia parte integrante della vita umana in generale e, soprattutto, della
vita del filosofo.
Queste poche parole introduttive hanno già messo in luce il primo ostacolo che questo studio deve affrontare: che cosa significa πόνος? Lavoro, fatica, dolore, sofferenza, travaglio sono traduzioni possibili che riescono a cogliere alcune sfaccettature di questo concetto complesso. Si dovrà, dunque, comprendere di volta in volta quale traduzione riesca meglio, a seconda dei diversi contesti, a rendere il concetto che si esprime attraverso πόνος. Non si tratta di un problema nuovo: già Cicerone, fine lettore, interprete e traduttore della filosofia greca, aveva dedicato una breve discussione alla ricostruzione del valore di questo vocabolo. A questa trattazione è dedicato il paragrafo 35 del libro II delle Tuscolane, libro interamente dedicato al problema del dolore fisico e a come il filosofo debba far fronte ad esso. Non è importante, ai fini di questa ricerca, ricostruire la posizione filosofica di Cicerone e le fonti su cui il libro II si basa: in esso troviamo una forte polemica antiepicurea, portata avanti attraverso le risorse messe a disposizione dalla filosofia stoica – che, comunque, non è esente da critiche – e in particolar modo da Panezio di Rodi, il quale è sicuramente la fonte
principale dei materiali trattati nel libro II24. La definizione di πόνος è introdotta in un
contesto che richiama da vicino alcuni temi trattati in modo approfondito nelle Leggi di Platone. Il paragrafo 34 di Tusc. II, infatti, è un paragrafo di transizione che mira a legare quanto precedentemente trattato con il paragrafo oggetto della nostra ricerca attraverso un riferimento alle leggi dei Cretesi, stabilite da Minosse, secondo il disegno di Giove (Cicerone si richiama all’autorità dei poeti), e da Licurgo. Tali leggi mirano ad educare i giovani attraverso le fatiche (labores), sottoponendoli a prove di caccia, corsa, resistenza alla fame, alla sete, al freddo e al caldo. Questo riferimento permette a Cicerone di soffermarsi su una precisazione terminologica importante:
c’è una certa differenza tra fatica (labor) e dolore (dolor); sono concetti senz’altro assai consimili, ma una differenza c’è. Labor è l’esecuzione psichica o fisica di un’opera o d’un compito particolarmente gravoso; dolor un moto violento del corpo, alieno dalla nostra sensibilità. Questi due concetti quei Greci la cui lingua è più ricca della nostra li chiamano con un solo termine. In conseguenza di ciò, una persona attiva essi la chiamano persona «che ha il gusto» o meglio «l’amore del dolore», noi più propriamente «laboriosa», perché altro è laborare, altro dolere. O Grecia a volte povera di termini, tu che sei sempre convinta di averne gran copia! Altro, ripeto, è laborare, altro dolere. [...] Eppure c’è tra questi due concetti una certa analogia: l’abitudine alle fatiche rende più facile la resistenza al dolore25.
Dalle parole di Cicerone emerge immediatamente, come è stato messo in luce dai commentatori, che l’argomento affrontato non è un problema filosofico, espressione originale del pensiero dell’autore, ma un problema di traduzione, di fronte al quale Cicerone mostra un certo imbarazzo26. Nel momento in cui deve rendere in latino il vocabolo πόνος, egli si rende
conto che tale termine greco ricopre un’area concettuale molto ampia, che il latino rende perciò attraverso due termini distinti. In primo luogo, πόνος può significare ciò che in latino è
24 Questi problemi sono trattati in modo approfondito nell’ampia introduzione all’edizione commentata del libro
II delle Tuscolane curata da A. Grilli (1987). Per una trattazione concisa ma pregnante del valore del dolore nelle
Tuscolane in generale, si veda Prost 2016.
25 Cic. Tusc. II, 35-36, tr. it. Grilli 1987, corsivi del traduttore, il quale ha intelligentemente lasciato le parole
latine per far meglio comprendere il ragionamento di Cicerone, ed evitare una traduzione che sarebbe tanto problematica quanto limitata. Marinone 1976 traduce labor con «travaglio». Burzacchini – Lanzi 1997 traducono con «fatica». I traduttori inglesi Douglas e King propongono di tradurre labor/laborare con «toil», ma si dimostrano ben consapevoli della parzialità ed insufficienza di tale traduzione (cf. J. E. King 1966, Douglas 1990, note ad loc.). Per quanto riguarda la lingua francese, Humbert 1968 traduce con «effort».
reso con labor, cioè «l’esecuzione psichica o fisica di un’opera o d’un compito particolarmente gravoso (functio quaedam vel animi vel corporis gravioris operis et
muneris)». Πόνος è dunque il travaglio e la fatica sopportati dal soggetto agente nel momento
in cui si trova ad affrontare un compito difficile e gravoso, che richiede impegno e capacità di resistenza alla fatica stessa. Bisogna inoltre notare che anche secondo Cicerone tale compito può essere sia del corpo che dell’anima: labor, dunque, non è solo la fatica delle prove fisiche cui sono sottoposte le persone – o, come nel caso preso in esame nel paragrafo precedente, i giovani Spartani che devono affrontare labores per mostrare la loro capacità di resistenza al dolore fisico. Si dà anche il caso di un labor dell’anima, cioè di una sofferenza e di una fatica proprie dell’anima stessa nel momento in cui deve affrontare delle prove particolarmente difficili. In secondo luogo, πόνος può significare ciò che in latino è reso con dolor, un «moto violento del corpo, alieno dalla nostra sensibilità (motus asper in corpore alienus a
sensibus)». La parola greca può anche più semplicemente avere il valore di «dolore fisico»,
inteso come un movimento improvviso e violento del corpo, la cui dolorosità dipende dalla violenza del movimento, che lo distingue da tutte le altre sensazioni, in quanto disturba la normale sensibilità.
Queste due valenze diverse di πόνος potrebbero essere definite come valenza «soggettiva» e «oggettiva» della parola27. Infatti, πόνος inteso nel primo significato di labor
pone l’accento sull’attività del soggetto che deve far fronte alla fatica di raggiungere un obiettivo, portare a termine un compito. Dunque, πόνος è la fatica del soggetto agente capace di resistere alle difficoltà che si trova ad affrontare per portare a termine l’opera che intende compiere. Si riesce così a notare chiaramente l’aspetto teleologico di tale concetto: πόνος è una forma di dolore sopportata in vista di un fine, per raggiungere uno scopo. Esso, dunque, significa un mezzo in vista di un fine28. Questa affermazione necessita però di ulteriore
specificazione per evitare pericolosi fraintendimenti: πόνος non è il mezzo con cui si raggiunge un fine, analogo ad un coltello usato per tagliare una mela. Se così fosse, si rischierebbe di leggere in πόνος una masochistica ricerca del dolore – fraintendimento in cui, come vedremo a breve, Cicerone stesso cade. Πόνος è il mezzo attraverso cui si raggiunge l’obiettivo: il soggetto agente, nel momento in cui prova la fatica di portare a termine un determinato compito, è consapevole che non può raggiungere il proprio obiettivo se non resistendo al dolore stesso. Laborare o, in greco, πονεῖν, indica non la ricerca in quanto tale della fatica, quanto piuttosto la capacità di sopportarla e di non cedere ad essa per portare a
27 Questa distinzione è proposta da Prost 2004, 20.
28 Così H. King 1988, 59, la quale però non approfondisce il concetto, rischiando di cadere nel fraintendimento
termine ciò che ci si è prefissati, a cui tale fatica inevitabilmente si lega.
Invece, nel secondo caso, se si intende πόνος nel senso di dolor, si pone l’accento sull’aspetto «oggettivo» del termine. Il dolore infatti è causato da una sollecitazione degli organi di senso che produce un movimento contro natura e violento (purtroppo, in questo breve passo Cicerone non specifica quale sia la causa di tale movimento – aspetto comunque non necessario ai fini della presente argomentazione). Si sottolinea così la natura «altra» della sensazione dolorosa rispetto alla sensibilità normale (motus ... alienus a sensibus). Questa definizione di dolore come movimento violento del corpo è sicuramente mutuata da Panezio, ma non può non richiamare alla mente le definizioni di dolore che Platone stesso offre nel
Filebo e nel Timeo29. Si può completare questa distinzione tra valenza «soggettiva» e
«oggettiva» del termine aggiungendo che si tratta anche di una distinzione tra valore attivo e valore passivo di esso. Nel primo caso, infatti, l’attenzione si concentra sull’attività di resistenza e sopportazione del dolore, attività compiuta in vista del raggiungimento di un fine, mentre nel secondo caso si sottolinea la passività del soggetto, che si limita a ricevere un particolare tipo di movimento sensoriale, uno stimolo disturbante.
Cicerone sottolinea come queste due valenze di πόνος non siano tra di loro indipendenti e non si escludano a vicenda. C’è un legame tra i concetti di labor e dolor: «l’abitudine alle fatiche rende più facile la resistenza al dolore (consuetudo enim laborum
perpessionem dolorum efficit faciliorem)» e, come l’autore chiosa alla fine del paragrafo 36,
«la fatica stessa crea, per così dire, il callo al dolore (ipse labor quasi callum quoddam
obducit dolori)». Il dolore subito diventa dunque occasione per fortificare la resistenza alla
fatica e, specularmente, l’abitudine alla fatica facilita la sopportazione del dolore30. Nel
concetto di πόνος l’aspetto soggettivo e quello oggettivo, l’attivo e il passivo, sono legati da un rapporto biunivoco. Il dolore subito richiede una risposta attiva da parte del soggetto agente, che deve essere in grado di sopportarlo per portare a termine le proprie opere. Attraverso l’esercizio si costruisce l’abitudine alla fatica, che a sua volta modifica la risposta del soggetto agente nei confronti del dolore da sopportare, creando, per così dire, un «callo»
29 Grilli 1987, 50-64 e nota ad loc., dimostra con chiarezza, facendo riferimento ad Aulo Gellio, Noctes Atticae,
12,5,7-13, che la fonte principale di Cicerone è uno scritto di Panezio sul dolore. Per le definizioni platoniche di dolore, si veda Phil. 31d ss. e Tim. 64a-65b. Anche Aristippo (SSR IV A 172), definisce il dolore come τραχεῖα κίνησις, mentre definisce il piacere come λεία κίνησις. È interessante notare che in questa testimonianza, riportata da Diogene Laerzio, il dolore non è detto λύπη o ἀλγηδών, come ci si potrebbe aspettare, ma πόνος. Putroppo non c’è modo di riflettere in modo approfondito, in questa sede, su questa interessante scelta lessicale e, più in generale, sulla testimonianza di Diogene Laerzio, molto complessa ed articolata.
30 Questa precisazione di Cicerone non può non suggerire echi aristotelici, in particolare per quanto riguarda la
trattazione delle virtù etiche nell’Etica Nicomachea: queste, infatti, sono acquisite e perfezionate proprio attraverso l’abitudine e l’esercizio. Come si impara a diventare coraggiosi, o temperanti, solo compiendo azioni coraggiose, o temperanti, così, per Cicerone, si impara a sopportare il dolore solo sperimentando il dolore stesso. Cf. Ar. Eth. Nic. 1103a14 ss.
che rende più forti nella resistenza al dolore stesso31.
Bisogna però mettere in luce anche i limiti di questa interessante trattazione ciceroniana, per evitare di incorrere nell’errore di sovraimporre quanto dice Cicerone all’autore oggetto principale del nostro studio: si rischierebbe infatti di leggere Platone attraverso una «lente» di matrice stoica, senza riuscire a cogliere tutte le diverse sfumature che egli dà al concetto di πόνος. Tre sono in particolare le mancanze e gli errori in cui Cicerone pare incorrere. In primo luogo, nel momento in cui afferma che «questi due concetti [labor e dolor] quei Greci la cui lingua è più ricca della nostra li chiamano con un solo termine [πόνος]», Cicerone si serve di tale considerazione come punto d’appoggio per lamentare una carenza lessicale della lingua greca stessa che, a detta sua, sarebbe povera di parole per esprimere il dolore e dunque confonderebbe il labor e il dolor. Questo commento è gratuito e del tutto falso. La lingua greca, infatti, presenta, come già detto, una ricca varietà di termini per esprimere il dolore fisico, come λύπη, ἄλγος, ἀλγηδών e ὀδύνη, che hanno sfumature di significato diverse. Bisogna però precisare che Cicerone non sbaglia nell’affermare che la parola πόνος può anche essere utilizzata per esprimere il dolore fisico, proprio come in latino a volte la parola labor può essere usata in luogo di dolor32.
Inoltre, questa posizione eccessivamente semplicistica secondo cui πόνος esprime anche il dolore fisico tout court fa emergere una certa confusione nella discussione dell’«amore per la fatica». Si nota l’imbarazzo di Cicerone nel tradurre la parola greca φιλόπονος, alla lettera «amante della fatica», che egli rende in latino con «amans doloris», commentando che la parola latina «laboriosus» sarebbe più appropriata. In realtà la parola greca φιλόπονος non significa «amante del dolore», traduzione ciceroniana che farebbe pensare ad una sorta di atteggiamento masochistico di ricerca deliberata e perseguimento del dolore, ma «amante della fatica, laborioso», in latino «amans laboris», perciò perfettamente corrispondente al termine «laboriosus»33.
Infine, il limite maggiore della trattazione ciceroniana si riscontra proprio nell’analisi del concetto di labor e dei suoi rapporti con il dolor. Mentre la prima definizione di labor indica come esso si possa riferire ad una fatica propria dell’anima nel portare a termine i propri compiti, tutta la trattazione successiva appiattisce il labor al solo significato di fatica fisica. Tutti gli esempi portati da Cicerone si limitano alla descrizione della fatica del corpo: nel paragrafo 35 si afferma che il marciare di Caio Mario alla testa delle sue truppe sotto la
31 Cf. anche Cic. Tusc. II, 40. 32 Cf. Dougan 1979, nota ad loc.
33 Cf. Marinone 1976, nota ad loc.; Grilli 1987 pensa che questa stonatura di Cicerone sia dovuta alla sua fonte
calura è un laborare; il paragrafo 36 richiama gli esercizi fisici imposti dai legislatori Spartani già citati nel paragrafo 34; per mostrare come l’abitudine alla fatica renda più facile la sopportazione del dolore si fanno esempi tratti dalla guerra e dagli agoni sportivi. Il paragrafo 37 descrive le fatiche della vita militare, le marce, i duri allenamenti e le battaglie. I paragrafi 38 e 39 descrivono la capacità dei soldati di sprezzare il dolore causato dalle ferite, attraverso il duro allenamento e le continue battaglie, citando a titolo di esempio un passo da una tragedia di Ennio in cui si richiama un episodio dell’Iliade, dove Euripilo si fa curare da Patroclo senza dolersi per la sua ferita34. Il paragrafo 40 cita l’esempio degli atleti olimpici, i
quali sono talmente abituati alla loro ferrea alimentazione che un solo giorno di digiuno causa loro enormi dolori, contrapponendoli ai gladiatori che sopportano invece ogni fatica ed ogni dolore fisico. In tutto ciò, non vi è alcun riferimento ai πόνοι dell’anima. Gli esempi portati da Cicerone, proprio perché limitati alla sola fatica fisica, mostrano già che il concetto di πόνος si riferisce in modo immediato alle fatiche fisiche dell’esercizio ginnico, della competizione atletica e della guerra. È a partire da questi significati concreti di πόνος che si potrà comprendere come esso possa essere metaforizzato per esprimere la fatica e la sofferenza dell’anima. Cicerone, però, pur mostrando di essere consapevole di poter riferire il laborare all’attività dell’anima, non approfondisce questo aspetto, che sarà invece il tema della seconda parte di questa ricerca35.
Nonostante questi errori e mancanze, il brano di Cicerone permette di porre alcuni elementi fondamentali per lo studio del significato del concetto di πόνος: la distinzione tra il suo valore soggettivo e quello oggettivo, l’attivo e il passivo, la loro dipendenza reciproca, e l’aspetto teleologico. Si ha un πόνος quando il soggetto agente deve affrontare un fattore di turbamento che altera lo stato di quiete (aspetto oggettivo e passivo), ma si mette all’opera (aspetto soggettivo e attivo) per poter superare questo ostacolo e raggiungere un obiettivo (aspetto teleologico). Il πόνος, dunque, si configura come una prova da superare in vista di un fine. Cicerone, inoltre, offre alcuni spunti per comprendere il rapporto fra πόνος ed esercizio: la risposta attiva del soggetto agente nei confronti del dolore, infatti, se inserita all’interno di un esercizio che la rende abituale, fortifica la resistenza al dolore stesso e, maggiore è l’abitudine alla fatica, maggiore è la capacità di sopportare il dolore36. L’abitudine
34 Il. XI, 575 ss.
35 Mancanza ancor più grave in quanto Cicerone stesso distingue il dolor del corpo dall’aegritudo, il dolore
dell’anima (sul tema si veda Prost 2016). Se il laborare fisico crea il «callo» al dolore del corpo, il laborare dell’anima potrebbe, allo stesso modo, migliorare le capacità dell’anima stessa di far fronte all’aegritudo. Cicerone, però, non esplora questa possibilità.
36 Nuovamente, un’eco dell’Etica Nicomachea sembrerebbe essere qui presente. La capacità di fronteggiare il
ad essere sottoposti a prove, allora, migliora la capacità di superare le prove stesse e raggiungere i fini desiderati.
Questi sono gli aspetti chiave del concetto, che permetteranno di chiarire le diverse sfumature di significato da esso assunte nei diversi contesti in cui verrà analizzato e di comprenderne, di volta in volta, il significato nella sua pienezza.
l’abitudine ad esso. Più avanti si approfondirà questo nodo concettuale in relazione a Platone (cf. soprattutto Sezione II, Parte II, cap. 5), e si mostreranno sia i punti di contatto che le divergenze fra Platone e Aristotele.