Parte II. Il πόνος della filosofia
5.1 Metafore ginniche in Resp VI e
I libri VI e VII della Repubblica sono ricchi di metafore ginniche, utilizzate da Platone per descrivere le qualità naturali che una persona deve possedere per poter diventare filosofo e per spiegare il modo in cui questa deve essere educata. Nonostante ciò, questa ricchezza è spesso passata sotto silenzio, forse perché la complessità dei temi trattati in questi libri, nonché la presenza delle tre famose immagini del Sole, della Linea e della Caverna, ha suscitato dibattiti la cui vastità ha oscurato quelli che, a prima vista, potrebbero sembrare dettagli minori, o addirittura irrilevanti, di questa parte dell’opera.
501 Cf. Nightingale 2004, 99. Mi sembra che l’opera di Nightingale sia l’esempio più chiaro delle conseguenze in
cui si incorre nell’adottare uno schema di pensiero aristotelico per interpretare Platone: l’Autrice interpreta l’immagine della caverna alla luce della θεωρία aristotelica, raggiungendo la conclusione che la figura di filosofo di cui parla Platone è umanamente irrealizzabile, perché è colui che, assorto nella sola attività contemplativa, ha superato lo status umano per diventare egli stesso un dio.
Se, dunque, emergerà in modo lampante la falsità dell’affermazione, condivisa da molti studiosi, secondo cui non ci sarebbe spazio per immagini atletiche in questa parte dell’opera, e il filosofo non sarebbe più il nobile ἀγωνιστής descritto in precedenza, bisognerà comprendere quale funzione abbiano queste immagini nel contesto dell’educazione del filosofo delineata in questi libri e, soprattutto, quali informazioni offrano sul modo in cui questa avviene. In altre parole, il focus dell’intero capitolo non riguarda i contenuti, ma la
forma dell’educazione: apparirà chiaro che la nozione aristotelica di θεωρεῖν risulta
inadeguata ad una piena comprensione del ritratto del filosofo offerto da Platone e che anzi si è commesso un grave errore nel cercare di sovraimporre al testo platonico uno schema di pensiero aristotelico. Non si studieranno, dunque, i contenuti di conoscenza che la ragione «teoretica» apprende, ma le sue modalità di funzionamento e il modo in cui essa debba essere educata, cercando di comprendere quali informazioni le metafore qui analizzate offrano riguardo a questi problemi.
In questo capitolo, però, sarà necessario occuparsi anche, seppur brevemente, di alcune metafore ottiche. Queste, al contrario delle metafore ginniche, sono già state oggetto di molti studi, perché fondamentali per la comprensione delle immagini più importanti di questi libri, il Sole e la Caverna e, più in generale, di tutta le teoria della conoscenza platonica, che ruota attorno alla «visione» delle idee. Proprio per questo motivo, però, nelle pagine che seguono le metafore ottiche non saranno studiate in modo approfondito, ma solo nella misura in cui si intrecciano alle metafore ginniche ed aiutano a chiarirne il significato503.
In precedenza sono stati studiati i principi che sottendono all’educazione ginnica, evidenziandone in particolar modo tre: i principi di movimento ed esercizio, di giusta
proporzione, e di simmetria e perfezione504. Non si può certo pretendere che, nell’utilizzare
metafore ginniche per spiegare l’educazione dell’anima, Platone applichi pedissequamente ed esplicitamente questi principi, come se avesse una sorta di «manuale di ginnastica» da seguire punto per punto. Però, questi principi costituiscono dei validi punti d’appoggio concettuali per comprendere le modalità in cui deve procedere l’educazione del filosofo: egli rimane – come era nel libro II – l’ἀθλητὴς τοῦ μεγίστου ἀγώνος, e perciò deve essere adeguatamente allenato; anzi, il suo allenamento diventa ancor più duro e difficile nei libri VI e VII perché deve misurarsi con un πόνος ancora più grande, quello necessario per raggiungere la conoscenza dell’idea del bene.
Innanzitutto, Socrate critica l’educazione che viene generalmente impartita a chi
503 Per lo studio delle metafore ottiche nel corpus dei dialoghi rimando agli studi di Paquet 1973, Napolitano
1994, 2007 e 20132.
desidera diventare filosofo, perché imperfetta e sproporzionata:
ai nostri giorni – precisai –, quelli che si dedicano alla filosofia lo fanno da giovani, nell’età dell’adolescenza (μειράκια ὄντα), nei ritagli di tempo, lasciati dalla amministrazione della casa e delle finanze domestiche, sicché non appena ne assaggiano le parti più complesse – e la parte più difficile è appunto la dialettica (λέγω δὲ χαλεπώτατον τὸ περὶ τοὺς λόγους) – subito se ne ritraggono. E tieni conto che questi di cui parliamo sono già quelli che passano per filosofi più provetti (οἱ φιλοσοφώτατοι ποιούμενοι)505.
Le persone che vantano di aver ricevuto la migliore formazione non si rendono conto che la loro preparazione è ben distante da quella necessaria per diventare veri filosofi, perché sono state educate in modo errato: infatti, si dedicano alla filosofia nel momento, nel modo, e secondo il livello di difficoltà sbagliati. L’attività che praticano manca sia di giusta proporzione, sia di perfezione, perché non porta al pieno sviluppo di tutte le capacità intellettuali.
Il momento è sbagliato perché si comincia lo studio della filosofia troppo presto: il μειράκιον, cioè il giovane che non è ancora adulto, non ha raggiunto un livello di sviluppo delle capacità intellettuali tale da poter sostenere questo tipo di studio. Il principio secondo cui i giovani debbano essere introdotti alla filosofia solo nel momento in cui l’anima è sufficientemente sviluppata per sostenerne la fatica è, come si vedrà, ripetuto a più riprese e approfondito nel corso dei libri VI e VII. Errato è anche il modo in cui ci si dedica alla filosofia, trattata come un passatempo di secondaria importanza rispetto alle faccende amministrative e finanziarie506. Di conseguenza, il livello che si può ottenere non può che
essere proporzionale al tempo e all’attenzione dedicati alla disciplina: infatti, non appena raggiungono le parti più difficili, queste persone si ritirano, non essendo in grado di affrontarle, e non arrivano ad esercitarsi nella parte più difficile di tutte, cioè quella
505 Resp. 497e9-498a4. Tr. it. Radice 2009 leggermente modificata. Radice traduce l’espressione μειράκια ὄντα,
ἄρτι ἐκ παίδων con «da giovani, nell’età della preadolescenza». Egli dunque ritiene che si tratti di un’endiadi. Però, il μειράκιον è il giovane adolescente, non il preadolescente. Infatti, l’espressione ἄρτι ἐκ παίδων significa «immediatamente dopo la fanciullezza» (per un uso identico della stessa espressione si veda Xen. Hell. 5.4.25); l’età che immediatamente segue è quella del μειράκιον, che però non è ancora uomo, ἀνήρ. Dunque, la successione delle età è παῖς, μειράκιον, ἀνήρ, e Platone intende dire che si erra a cominciare l’educazione filosofica nel momento di passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza. Traducono correttamente Ferrari – Griffith 2000 con «those who tackle philosophy at all come to it as adolescents, straight after childhood».
506 Adam 1902, nota ad loc., legge diversamente il passaggio, e traduce τὸ μεταξὺ οἰκονομίας καὶ χρηματισμοῦ
con «in the interval before entering upon» le occupazioni economico-finanziarie. Dunque, secondo Adam, questi giovani si occupano di filosofia prima di occuparsi delle faccende domestiche, non tra una faccenda e l’altra. Comunque, l’aspetto importante è che, qualsiasi traduzione si accetti, la filosofia è considerata meno importante rispetto all’occuparsi di economia e finanza.
riguardante i λόγοι, la dialettica. Così, raggiungeranno l’età adulta pensando che partecipare in qualità di uditori (ἀκροαταί, 498a5) a qualche discussione filosofica sia già una gran cosa, e sia sufficiente per potersi dire filosofi, senza rendersi conto che in questo modo non sono all’altezza della vera filosofia, proprio perché, essendo solo uditori, non si esercitano nella parte più importante, la dialettica appunto, che richiede la partecipazione al dialogo507. Tutti
questi errori, poi, si ripercuotono sulla vecchiaia: proprio gli anziani, che potrebbero dedicare tutto il loro tempo alla filosofia, «si spengono assai più che il sole di Eraclito, talché non ci sarà più verso di riaccenderli» (498b1-2).
Bisognerebbe invece fare tutto il contrario:
finché si è bambini o adolescenti, si ricorra a una educazione e a una filosofia da ragazzi (μειρακιώδη παιδείαν καὶ φιλοσοφίαν), e già il darsi cura dei corpi perché fioriscano e si irrobustiscano è rendere un buon aiuto alla filosofia (τῶν τε σωμάτων ... εὖ μάλα επιμελεῖσθαι, ὑπηρεσίαν φιλοσοφίᾳ κτωμένους). Col passare del tempo, quando con gli anni l’anima va
maturando, allora si potenzino gli esercizi che la riguardano (προϊούσης δὲ
τῆς ἡλικίας, ἐν ᾗ ἡ ψυχὴ τελεοῦσθαι ἄρχεται, ἐπιτείνειν τὰ ἐκείνης γυμνάσια). Poi, quando la forza diminuisce, e si è superata l’età per ricoprire cariche politiche e militari, finalmente chi vuol vivere beatamente questa vita e in più coronare la vita vissuta quaggiù con un destino ultraterreno altrettanto degno, non abbia più remore, vada pure libero al pascolo, e oltre al filosofare non faccia nient’altro che attività marginali508.
L’educazione filosofica deve essere dunque commisurata all’età del discente e la difficoltà dell’esercizio proporzionata alle capacità di apprendimento, sia in quantità che, soprattutto, in qualità. Età diverse, infatti, richiedono tipi di esercizio diverso: nei giovani le capacità dell’anima razionale non sono ancora sviluppate (seppur, comunque, presenti per natura509) e
per questo motivo sarebbe dannoso sottoporli ad una fatica indirizzata a questa parte dell’anima prima che essa sia abbastanza «robusta» da poter sopportare la fatica stessa. Allora, bisogna far sì che i giovani si dedichino alla cura dei corpi perché, come si è visto nelle Leggi, è in questa parte della vita che la crescita è più veloce e sono dunque necessari molti πόνοι per indirizzarla nel modo corretto. Comunque, la cura del corpo non risulta essere
507 Il tema della dialettica sarà affrontato nel paragrafo successivo, 5.2. 508 Resp. 498b4-c5. Corsivi miei.
fine a se stessa: un corpo robusto è una buona ὑπηρεσία per la filosofia510.
Come gli esercizi del corpo devono essere potenziati nel momento in cui il corpo stesso ne ha più bisogno, perché sta crescendo più velocemente, così anche gli esercizi dell’anima devono seguire la stessa regola: quando l’anima comincia a maturare (τελεοῦσθαι ἄρχεται), allora bisogna potenziare gli esercizi che la riguardano (ἐπιτείνειν τὰ ἐκείνης γυμνάσια). Come si specificherà alla fine del libro VII, è all’età di venti anni che gli aspiranti filosofi, concluso il periodo di esercizi ginnici obbligatori, devono essere introdotti allo studio della matematica e, successivamente, di tutte le altre discipline previste511.
C’è dunque un rapporto di simmetria inversa fra educazione del corpo e dell’anima: da giovani bisogna esercitarsi nei πόνοι del corpo per favorirne la crescita «dritta» e proporzionata nel momento in cui ne ha più bisogno; poi, nel momento in cui la crescita del corpo rallenta, comincia invece a diventare più veloce la crescita dell’anima. Per questo motivo è necessario ridurre gli esercizi del corpo e potenziare quelli dell’anima, in modo che anch’essa, proprio attraverso i πόνοι cui è sottoposta, possa crescere in modo corretto.
Queste riflessioni portano Socrate a dover riprendere dall’inizio l’intero problema dell’educazione dei reggitori della città. Infatti, questo tema era stato affrontato nel libro III in modo cursorio, affermando che la selezione dei governanti sarebbe dovuta avvenire mediante prove (si tornerà su questo argomento nel capitolo successivo, in particolare 6.1). Però, non si era ancora specificato che i reggitori devono anche essere filosofi: è dunque necessario rivalutare la loro educazione sin dall’inizio, a partire dall’indagine riguardante le qualità naturali che questi devono possedere.
È difficile trovare persone dalla natura adatta, perché, per poter diventare filosofi, è necessario che posseggano contemporaneamente qualità di due caratteri opposti. Da una parte
gli uomini dotati di intelligenza, memoria, perspicacia, acutezza e di tutte le altre qualità connesse, sai bene che non sono predisposti a unire a queste doti anche una spontaneità di natura e una apertura mentale tali da permettere loro uno stile di vita tranquillo e riflessivo; piuttosto la loro stessa acutezza di ingegno li trascina dove capita, cosicché perdono ogni sicurezza interiore (εὐμαθεῖς καὶ μνήμονες καὶ ἀγχίνοι καὶ ὀξεῖς καὶ ὅσα ἄλλα τούτοις ἕπεται οἶσθ’ ὅτι οὐκ ἐθέλουσιν ἅμα φύεσθαι καὶ νεανικοί τε καὶ μεγαλοπρεπεῖς τὰς διανοίας οἷοι κοσμίως μετὰ ἡσυχίας καὶ βεβαιότητος ἐθέλειν ζῆν, ἀλλ’ οἱ τοιοῦτοι ὑπὸ ὀξύτητος φέρονται ὅπῃ ἂν τύχωσιν, καὶ τὸ βέβαιον ἅπαν αὐτῶν
510 Sulla nozione del corpo come ὑπηρεσία dell’animasi veda in particolare Tim. 44d. 511 Cf. Resp. 537b e infra.
ἐξοίχεται)512.
È chiaro che i filosofi devono avere una buona predisposizione all’apprendimento, in modo che lo studio risulti loro facile (εὐμαθεῖς), e che per questo devono essere dotati di una buona memoria (μνήμονες) e di un ingegno pronto (ἀγχίνοι)513. Le loro doti intellettuali sono
descritte anche attraverso la metafora visiva: hanno la vista acuta (ὀξεῖς). Però, Socrate sottolinea che sono queste stesse qualità che, sempre per natura, possono essere d’intralcio all’educazione del filosofo. Infatti, le persone che possiedono questa acutezza d’ingegno spesso non hanno, insieme alle doti appena menzionate, anche quelle capacità di vigore e grandezza del pensiero (νεανικοί τε καὶ μεγαλοπρεπεῖς τὰς διανοίας) tali per cui desiderano vivere la vita in modo ordinato (κοσμίως), tranquillo e fermo (μετὰ ἡσυχίας καὶ βεβαιότητος)514. Anzi, è proprio la loro stessa ὀξύτης, l’acutezza del loro ingegno, che è causa
della loro instabilità: non sono in grado di rimanere fermi e saldi, non hanno nulla di βέβαιον, ma sono trascinati di qua e di là dalle loro stesse doti (φέρονται ὅπῃ ἂν τύχωσιν).
Per questo motivo, essi devono anche possedere qualità opposte di fermezza e resistenza che, però, possono a loro volta essere dannose:
invece i caratteri stabili e non volubili, quelli su cui si può fare particolare affidamento, e che pure in battaglia restano impassibili davanti al pericolo, anche di fronte all’apprendimento si comportano nello stesso modo: sono impacciati e tardi, come insonnoliti, tanto è che quando si tratta di sobbarcarsi la fatica dello studio, risultano completamente addormentati e intorpiditi (οὐκοῦν τὰ βέβαια αὖ ταῦτα ἤθη καὶ οὐκ εὐμετάβολα, οἷς ἄν τις μᾶλλον ὡς πιστοῖς χρήσαιτο, καὶ ἐν τῷ πολέμῳ πρὸς τοὺς φόβους δυσκίνητα ὄντα, πρὸς τὰς μαθήσεις αὖ ποιεῖ ταὐτόν· δυσκινήτως ἔχει καὶ δυσμαθῶς
512 Resp. 503c2-7.
513 L’aggettivo ἀγχίνοος significa alla lettera «che ha la mente (νόος) vicina (ἄγχι)», dunque si riferisce ad una
persona dall’intelletto, per così dire, sempre «pronto» e «presente». A Od. XIII, 332 è una qualità che Atena attribuisce ad Odisseo.
514 Il sostantivo βεβαιότης e l’aggettivo βέβαιος indicano la fermezza e la capacità di mantenere la posizione (cf.
Crat. 437a). Già il buon guerriero di Archiloco, pur essendo brutto e con le gambe un po’ storte, era ben saldo
sui propri piedi (ἀσφαλέως βεβηκὼς ποσσί, fr. 114 West). In Platone l’aggettivo βέβαιος è utilizzato per indicare la stabilità dell’opinione e del discorso vero: βέβαιος è la δόξα ἀληθής (Tim. 37b8; Leg. 653a8) o il λόγος ἀληθής (Phaed. 90c9); come si precisa nel Timeo, la stabilità del discorso dipende dalla stabilità del suo oggetto: i discorsi sono affini alle cose di cui sono espressione. Un ente βέβαιος, stabile ed immutabile, si manifesta all’intelletto producendo una conoscenza altrettanto stabile (Tim. 29b; cf. anche Phil. 59b-c). Si nota quindi che per Platone c’è una perfetta analogia fra la qualità morale del filosofo, la forma di conoscenza che possiede, e le caratteristiche dell’oggetto di tale conoscenza. Nella Repubblica anche il piacere puro è detto essere βέβαιος (586a6), così come il βίος stesso del guardiano, che è saldo perché μέτριος (446b7). Vegetti 2003c, 410, commenta, in riferimento proprio alla descrizione del dialettico, che «il tipo umano del “dialettico”, la sua formazione, le sue capacità, il suo stesso ethos, coincidono con i caratteri del suo sapere metodico fino a confondersi con loro».
ὥσπερ ἀπονεναρκωμένα, καὶ ὕπνου τε καὶ χάσμης ἐμπίμπλανται, ὅταν τι δέῃ τοιοῦτον διαπονεῖν)515.
La stabilità e la fermezza, pari a quelle del soldato in battaglia, sono necessarie a contrastare l’eccessiva mobilità di un intelletto acuto che è trascinato in tutte le direzioni dalla sua stessa perspicacia. Al tempo stesso queste qualità, seppur necessarie, possono essere d’intralcio, perché, come il corpo che rimane fermo, non si lascia smuovere (δυσκινήτως), e non si sottopone al πόνος della ginnastica non può crescere bene (ciò che in precedenza è stato definito «principio di movimento»), così anche l’anima che rimane ferma, come narcotizzata, di fronte alla fatica dello studio non è in grado di imparare (è in una situazione δυσμαθῶς), proprio perché l’apprendimento richiede la capacità attiva di sobbarcarsi questo πόνος (per apprendere, infatti, l’anima deve διαπονεῖν)516.
Dunque, chi vuole diventare filosofo deve possedere al tempo stesso fermezza e stabilità, e mobilità ed acutezza intellettuali che gli permettano di affrontare la fatica dello studio senza scoraggiarsi517. Però, il solo possesso di queste doti naturali non è sufficiente a
rendere qualcuno filosofo, perché queste stesse qualità possono essere dannose se non correttamente educate. Per questo motivo, si ribadisce che è necessario rivedere ed approfondire il programma educativo:
allora andranno saggiati (βασανιστέον) alle prove di cui s’è già detto – quella della fatica, della paura e del piacere – e poi a un’altra prova, che ora
515 Resp. 503c9-d5.
516 Dunque, l’anima deve avere la qualità della fermezza, ma questa non deve degenerare nell’immobilità, non
deve essere δυσκίνητος. Anche più avanti Socrate specificherà che la situazione di aporia causata, ad esempio, da alcuni problemi matematici, serve proprio a mettere in movimento l’intelligenza (κινοῦσα ... τὴν ἔννοιαν, 524e5-6).
Inoltre, il participio ἀπονεναρκωμένα richiama l’immagine della torpedine marina (νάρκη) del Menone (80a-b). La confutazione di Socrate riduce in uno stato di aporia Menone, che si sente come intorpidito, incapace di rispondere e di trovare una via d’uscita. La situazione si ripete poco oltre (84a-c), quando Socrate riduce in uno stato di aporia lo schiavo che cerca di risolvere il problema geometrico. Però, Socrate precisa, la «scossa» della torpedine marina non è dannosa, ma vantaggiosa: lo schiavo, ora che sa di non sapere, potrebbe voler cercare la soluzione al problema. L’ottativo ζητήσειεν, 84b10, indica la potenzialità: l’essere ridotti in stato di aporia non implica per ciò stesso che si desideri cercare. Non si può indagare in questa sede quali siano le condizioni, intellettuali e/o emozionali, che spingono chi si trova in stato di aporia a cercare: in questi passi della Repubblica Platone sembra suggerire che ci sia anche un’inclinazione naturale in gioco. Rimando a Napolitano 2014 per uno studio del problema, ma si vedano anche le brevi riflessioni infra, 226, nota 595. Sull’immagine della torpedine marina si veda Napolitano 2007, 245-253. Dunque, Platone sembra suggerire, attraverso il participio ἀπονεναρκωμένα, che alcune persone, quando si trovano in uno stato di aporia e devono affrontare un problema, sono come intorpiditi e incapaci di faticare per trovare la soluzione, irrigiditi perché δυσκίνητοι, incapaci di muoversi. Altri, invece, di fronte all’effetto narcotizzante della confutazione, rispondono in modo diverso, e sono spinti a cercare dalla loro stessa acutezza di ingegno e facilità di apprendimento (che, però, potrebbe anche portarli fuori strada, se non controllata da una qualità di fermezza e resistenza).
517 Queste qualità che Socrate attribuisce al filosofo nella Repubblica sono molto simili a quelle che Teodoro
aggiungiamo, dato che prima l’avevamo trascurata; intendo dire l’esercizio nelle molteplici discipline di studio, controllando se la loro natura sarà all’altezza delle conoscenze massime, o se invece si scoraggi di fronte a esse, come a un altro capita di scoraggiarsi dinanzi ad altre prove (καὶ ἐν μαθήμασι πολλοῖς γυμνάζειν δεῖ, σκοποῦντας εἰ καὶ τὰ μέγιστα μαθήματα δυνατὴ ἔσται ἐνεγκεῖν εἴτε ἀποδειλιάσει, ὥσπερ οἱ ἐν τοῖς ἄλλοις ἀποδειλιῶντες)518.
L’educazione che era stata proposta nel libro III (come detto, su di essa si tornerà in seguito), risulta dunque ora insufficiente per il filosofo, che deve affrontare prove ben più difficili: compare ora la metafora del βάσανος, la pietra di paragone su cui il metallo che sembra essere oro è sfregato per controllarne l’effettiva natura. Questa metafora, come si è anticipato nel capitolo riguardante la Lettera VII, è legata al concetto di πεῖρα, prova, e dunque, seppur in modo indiretto, al πόνος519. La nuova prova che il filosofo deve affrontare è l’esercizio
«ginnico» nelle molte discipline di studio (ἐν μαθήμασι πολλοῖς γυμνάζειν), che saranno poi trattate in modo approfondito nel libro VII. Le nuove prove mostreranno come l’aspirante filosofo affronta questi πόνοι, e se è in grado di resistere alla fatica come il soldato mantiene la propria posizione in battaglia (ἐνεγκεῖν), o se si ritirerà, fuggendo per la paura (ἀποδειλιάσει)520. Dunque, egli dovrà incamminarsi lungo la μακροτέρα περίοδος (504b2), la
lunga via che porta fino alla conoscenza dell’idea del bene. È con questa metafora della via più lunga che Socrate introduce le famose immagini del Sole, della Linea e della Caverna. Si noti, però, che la via più lunga non è descritta come una semplice attività contemplativa, ma come un percorso che richiede esercizio e fatica:
per la via più lunga costui dovrà andare e dovrà faticare nell’apprendimento
518 Resp. 503e1-504a2. Adam 1902, nota ad loc. corregge l’ultima subordinata in ὥσπερ οἱ ἐν τοῖς ἄθλοις
ἀποδειλιῶντες, leggendo ἄθλοις al posto di ἄλλοις. Questa correzione rinforza il paragone ginnico: i filosofi devono esercitarsi come nella ginnastica, per vedere se resistono, o se hanno paura, come quelle persone che provano paura di fronte alle competizioni atletiche. Sul nesso πόνος/ἄθλος si era riflettuto supra, Sezione I, cap. 2.5, in riferimento al mito di Eracle al bivio.
519 Cf. Sezione II, Parte II, cap. 1. Su questa metafora si rifletterà in modo più approfondito in seguito.
520 Il verbo ἀποδειλιάω significa «tirarsi indietro» per la paura, e si riferisce sia alla battaglia (Prot. 326c1), sia,
più in generale, a ciò che è giusto o doveroso fare in una determinata situazione (Gorg. 480c). È interessante notare che in Xen. Const. Lac. X, 7, chi si ritira di fronte ai propri compiti, e non si sobbarca il πόνος, non ha diritto ad essere conteggiato nel novero degli uguali (εἰ δὲ τις ἀποδειλιάσειε τοῦ τὰ νόμιμα διαπονεῖσθαι, τοῦτον ἐκεῖνος ἀπέδειξε μηδὲ νομίζεσθαι ἕτι τῶν ὁμοίων εἶναι); per Platone, chi fallisce nella prova dell’apprendimento, perché non è in grado di διαπονεῖν, non potrà essere considerato filosofo ed ottenere il potere politico, venendo così estromesso dal novero degli uguali, i filosofi-reggitori. Ἐνεγκεῖν, aoristo di φέρω, in questo luogo significa «sopportare», «resistere a»; il significato di tale verbo è troppo ampio per vedere in esso un riferimento esplicito