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Il mito di Eracle al bivio

Nel documento Ponos. Platone e le fatiche della filosofia (pagine 84-107)

Sul concetto di πόνος

2. Πόνος da Omero a Senofonte

2.5 Il mito di Eracle al bivio

Personaggio poliedrico e complesso, Eracle è l’eroe per eccellenza, insieme ad Achille, della tradizione greca. Però, mentre la narrazione delle gesta dell’eroe omerico riguarda perlopiù i soli poemi omerici, Eracle è il protagonista di un gran numero di racconti mitici, spesso molto diversi tra loro. Tali racconti furono sistematizzati solo in epoca tarda, da Diodoro Siculo e Pseudo-Apollodoro218. La mole di materiale mitico legata ad Eracle è

talmente grande che già nell’antichità si dubitava che così tante e diverse gesta ed avventure potessero essere attribuite ad un solo eroe: Erodoto distingueva l’Eracle divino, figlio di Zeus, dall’eroe mortale greco, figlio di Alcmena ed Anfitrione; Cicerone distingueva sei Eracle diversi; Varrone addirittura riteneva che sotto il nome di Eracle fossero narrate le gesta di quarantatrè eroi diversi219. La perplessità e la confusione mostrate da questi autori non sono

dovute solo al fatto che tantissime gesta sono attribuite all’eroe – molte più di quante un porta con sé nuovo πόνος: cf. Eur. Hec. 638-639: πόνοι γὰρ καὶ πόνων ἀνάγκαι κρείσσονες κυκλοῦνται. Forse si potrebbe leggere in questo senso anche il famosissimo verso Soph. Ai. 866, πόνος πόνῳ πόνον φέρει. Oggetto immediato del dialogo fra i due semicori, in realtà, è il compito faticoso della ricerca di Aiace, fino a quel momento infruttuosa. Però, questo verso apre l’epiparodo, immediatamente dopo la scena del suicidio di Aiace: la fatica del coro alla ricerca dell’eroe porterà una sofferenza ben più grande, la scoperta del gesto da lui compiuto.

216 L’uomo è solo passivo di fronte al male che gli è imposto, o può affrontarlo? Come afferma Pilade,

rivolgendosi ad Oreste: «i valorosi affrontano le difficoltà, i vili sono buoni a nulla (τοὺς πόνους γὰρ ἁγαθοὶ τολμῶσι, δειλοὶ δ’ εἰσὶν οὐδὲν οὐδαμοῦ)» (Eur. IT. 114-115, tr. it. Musso 2001). E, soprattutto, l’uomo non può trarre un insegnamento dalla sofferenza che deve subire di necessità? Non possono non venire in mente le parole del coro dell’Agamennone: «ma chi a Zeus con gioia leva il grido epinicio coglierà pienamente la saggezza, a Zeus che ha avviato i mortali a essere saggi, che ha posto come valida legge “saggezza attraverso la sofferenza” (τὸ πάθει μάθος). Invece del sonno stilla davanti al cuore un’angoscia memore di dolori (μνησιπήμων πόνος): anche a chi non vuole arriva la saggezza». Aesch. Ag. 174-181, tr. it. Medda 1995. Affrontare questi temi, però, porterebbe a deviare dalla linea di ricerca che si intende seguire.

217 Soph. Tr. 170, 825; Ph. 1419-1422. Eur. Alc. 481, 487, 499, 1149 (la fatica delle cavalle di Diomede), 1027,

1035 (l’aver riportato Alcesti in vita); Her. 7; HF. 22, 357, 388, 427, 575, 1275, 1353, 1410; Ion. 199.

218 Cf. Diod. Sic. 4.8-39; Ps.-Ap. 2.4.8-2.8.1.

219 Secondo Her. II.43-44 Eracle era un dio del pantheon egizio, molto più antico dell’uomo greco figlio di

Alcmena e Anfitrione: il nome dunque si trasmise dagli Egizi ai Greci. Per Cic. De Nat. Deor. 3.42 l’Eracle greco è il sesto, ed è figlio di Alcmena e Zeus. Il resoconto di Varrone è riportato da Serv. ad Aen. 564: nell’antichità, chiunque mostrasse una forza straordinaria era detto essere un Eracle, ed è per questo motivo che vi sono così tanti eroi con questo nome.

essere umano possa compiere in vita sua – ma anche al fatto che i vari miti descrivono il personaggio di Eracle in modi diversi e contrastanti. Egli è di volta in volta eroe epico, tragico o comico, atleta per eccellenza, e dunque paradigma di virtù fisica, o paradigma della virtù intellettuale, ma anche personaggio comico ingordo e incapace di tenere a freno i propri desideri di cibo e sesso, assiduo frequentatore di postriboli e locande; infine, il suo status è sospeso tra l’umano e il divino: pur essendo un eroe, del tutto umano o divino solo per metà (a seconda che si accetti come padre Anfitrione o Zeus), egli dopo la morte è divinizzato e convive con gli dèi sull’Olimpo220.

Fra tutte le variazioni sul tema di Eracle, il presente capitolo isola ed analizza l’eroe come paradigma di virtù, prima fisica e poi intellettuale. Si riscontra infatti una progressiva intellettualizzazione del personaggio di Eracle: proprio in quanto modello di eccellenza fisica egli potrà essere riletto in chiave filosofica come modello di eccellenza morale. È innanzitutto guerriero dotato di forza sovrumana (la famosa βίη Ἡρακληείη, cf. Od. XI, 601): infatti, nell’antichità egli era conosciuto anche con i nomi di Alceo e Alcide, nomi che, insieme a quello della madre Alcmena, condividono la radice ἀλκ- indicante la forza e il valore221.

Atleta per eccellenza, era considerato fondatore dei Giochi Olimpici, era patrono di lottatori e pancraziasti, ed aveva l’epiteto di Καλλίνικος222.

Esperto dunque nel πόνος della competizione ginnica, egli però è anche campione e vincitore nell’affrontare fatiche ben più gravose: i dodici πόνοι, le Fatiche di Eracle, imposte dal re Euristeo, le imprese eroiche più famose dell’antichità223. Esse erano note in epoca

arcaica con il nome di ἄεθλοι, ma già in epoca classica ci si riferiva ad esse con il nome di πόνοι224. Questa variazione lessicale, comunque, non è rilevante in quanto il concetto sotteso

in entrambi i casi è quello di una fatica che è sopportata in vista del raggiungimento di un

fine: ἄεθλος (o, in età classica, ἆθλος) infatti significa la prova dolorosa cui si deve resistere

220 Per un ritratto completo di tutte le variazioni sul personaggio di Eracle, dall’antichità ai tempi nostri, rimando

agli studi di Galinsky 1972, Padilla 1998, Stafford 2012. Kirk 1977, 286, sintetizza le contraddizioni del personaggio di Eracle nelle coppie oppositive umano/bestiale, serio/burlesco, sano/folle, benefico/distruttivo, libero/schiavo, umano/divino. Per quanto riguarda la natura sia umana che divina di Eracle, essa è ben sintetizzata da Pindaro nel momento in cui descrive Eracle con l’ossimoro ἥρως θεός (Nem. 3.22).

221 Padilla 1998, 31.

222 Pindaro paragona spesso i vincitori dei giochi, non solo Olimpici, ad Eracle, e questo personaggio ricorre

spesso nei suoi epinici: si veda ad es. Ol. X, tutta incentrata sulla fondazione dei Giochi da parte dell’eroe, Nem. I, in cui si narra l’impresa dello strangolamento dei due serpenti, e Pyth. IX, in cui il canto di vittoria è indirizzato espressamente ad Eracle.

223 Il numero di dodici pare però diventare canonico solo in epoca ellenistica: Soph. Trach. 1090 ss. ne indica

solo cinque; Eur. Er. 342 ss. ne riporta sette; essi però riportano anche altre imprese minori, i cosiddetti πάρεργα. Teocrito, invece, nell’Idillio 24, riporta esplicitamente il numero di dodici (24. 82-83).

224 Per le fatiche come ἄεθλοι si vedano Il. VIII, 363; Hes. Theog. 951; ma già Eur. Her. 428 si riferisce alle

fatiche con il nome di πόνοι (cf. tutte le occorrenze riportate supra, 84, nota 217). Teocrito, con gusto arcaizzante e ricercato, le chiama ἄεθλοι (25. 204) o μόχθοι (24. 83). Anche Pseudo-Apollodoro si riferisce ad esse come ἆθλοι (2.4.12).

per raggiungere il premio (ἄεθλον, o ἆθλον) della vittoria225. Eracle dunque è l’eroe per

eccellenza del πόνος, della fatica sopportata nelle avversità, fatica poi alla fine della sua vita ricompensata con la divinizzazione226. Il πόνος fisico di Eracle è poi progressivamente

metaforizzato e intellettualizzato per diventare simbolo della fatica richiesta per l’acquisizione della virtù morale: da eroe-atleta egli diventa quasi eroe-filosofo, o almeno le sue imprese non richiederanno più la forza e resistenza fisica, ma la forza e resistenza dell’anima, la cui ricompensa è la virtù stessa acquisita a prezzo di tali fatiche. Questa progressiva riscrittura del personaggio di Eracle per fini filosofici è già riscontrabile in epoca classica, in particolar modo nel mito di Eracle al bivio creato dal sofista Prodico e riportato nei Memorabili di Senofonte227.

Nonostante il mito narrato da Socrate sia stato studiato in modo approfondito, si è prestata poca attenzione all’interessante contesto in cui è inserito. Infatti, esso è introdotto solo al termine di un lungo dialogo fra Socrate ed Aristippo, discepolo di Socrate stesso e capostipite della scuola cirenaica, nota sostenitrice dell’edonismo (II.1.1-II.1.20). La discussione, in cui si intrecciano temi etici e politici, prende le mosse dall’analisi del problema dell’esercizio del dominio si sé (ἀσκεῖν ἐγκράτειαν, II.1.1). Infatti, Socrate nota che Aristippo è intemperante nei confronti dei piaceri del cibo, delle bevande, del sesso e del sonno. L’introduzione dell’argomento sembrerebbe portare ad un dibattito in campo etico, ma Socrate improvvisamente sposta la discussione in campo anche politico, chiedendosi come debba essere educato colui che dovrà comandare la città. Si raggiungerà la conclusione che può regnare sulla città solo chi sa regnare su se stesso: il governo di sé è condizione necessaria per il governo degli altri228. Colui che sa governare se stesso possiede ἐγκράτεια

225 Mi sembrano particolarmente interessanti le espressioni sofoclee πόνων ἆθλα (Phil. 508-509) e ἄεθλ’ ἀγώνων

(Trach. 505), che ben mettono in luce la sofferenza e la fatica sopportate in vista del raggiungimento del premio. Loraux 1982, 185-191, riflette in modo approfondito sul significato di ἆθλος e il suo legame con ἆθλον. Ἆθλος è la prova, in particolar modo la prova affrontata per ottenere il premio (LSJ traduce ἆθλος con «contest» o «contest for a prize» e traduce ἆθλον con «prize for contest»), ma, come nota Loraux, questo tipo di prova rimanda subito alla sofferenza: sono proprio gli ἆθλοι che valgono ad Eracle il titolo di ἄθλιος, «infelice, sofferente» (186). Dione Crisostomo sfrutterà questo gioco etimologico, affermando che è dal titolo conferito ad Eracle di ἀθλιότατος che deriva l’uso di chiamare i suoi πόνοι con il nome di ἆθλοι (Sulla Virtù, 28). Per questo motivo Loraux propone di tradurre ἆθλος con «épreuve douloureuse» (187), e di inserirlo nella categoria di «ce qui donne lieu à un athlon» (188): la sofferenza è sopportata in vista del premio. L’Autrice dimostra come lo slittamento semantico da ἆθλος a πόνος per designare le fatiche di Eracle sia il frutto di un’operazione ideologica. Infatti ἆθλος nel linguaggio politico del V e IV sec. a. C. serve ad indicare la «tâche imposée» (187), il lavoro imposto al lavoratore salariato. Ma Eracle non può compiere un tale lavoro servile: «sa vocation à la peine doit au contraire devenir le fruit d’un libre choix» (191), ed è proprio per questo motivo che πόνος, sofferenza nobile (e nobilitante) dell’eroe, rimpiazza ἆθλος, sofferenza servile di chi è costretto a lavorare per un μισθός.

226 Cf. Hes. Theog. 950-955. 227 Xen. Mem. II.1.21-33.

228 Come si vedrà in seguito (Sezione II, Parte II, cap. 6), questo nodo concettuale è affrontato anche da Platone

nei confronti dei piaceri e καρτερία nei confronti dei dolori; gli esempi forniti da Socrate si riferiscono ai soli piaceri e dolori fisici. Chi è buon «governante» di se stesso è nel pieno dominio di sé (ἐγκρατῆ εἶναι, II.1.3) quando si trova ad affrontare i piaceri del cibo, delle bevande, del sonno e del sesso, in modo che questi desideri non interferiscano con il suo agire. In modo simile, egli sa resistere (καρτερεῖν) al freddo, al caldo e alla fatica: non fugge di fronte alle fatiche (τὸ μὴ φεύγειν τοὺς πόνους, II.1.3). In molte attività importanti che si svolgono all’aria aperta, come la guerra e l’agricoltura, la maggior parte delle persone non sono abituate a sopportare il caldo e il freddo (τοὺς πολλοὺς ἀγυμνάστως ἔχειν, II.1.6)229.

Questa è una grave mancanza: c’è infatti spesso una trascuratezza, una mancanza di esercizio (πολλὴ ἀμέλεια εἶναι, ibidem) che non si addice all’uomo di governo. Costui, infatti, se vuole saper veramente governare se stesso – e dunque poter governare gli altri – deve esercitarsi a sopportare bene (ἀσκεῖν δεῖν καὶ ταῦτα εὐπετῶς φέρειν, ibidem).

Dunque, l’esercizio (ἄσκησις) del dominio di sé si rivolge in ugual modo ai piaceri e

ai dolori. Mentre nel primo caso il dominio di sé si concretizza in un esercizio di fruizione del

piacere in una misura che non superi il naturale e necessario, e comunque in modo che la ricerca del piacere non impedisca l’azione (nel caso in discussione, l’azione dell’uomo di governo), il dominio nei confronti dei dolori richiede l’esercizio della capacità di resistenza (καρτερία) al πόνος, che è esemplificato attraverso attività fisiche faticose quali la guerra e l’agricoltura.

Aristippo, però, non è d’accordo con le argomentazioni di Socrate: egli ritiene che l’esercizio di governo (degli altri, ma anche di se stessi) non procuri che fastidi e privazioni (II.1.8). Egli, invece, vuole vivere nel modo «più facile e più piacevole (ῥᾷστα τε καὶ ἥδιστα)» (II.1.9). La risposta di Aristippo, pur essendo concisa, indica un preciso rifiuto sia della ἐγκράτεια che della καρτερία: egli, infatti, vuole vivere nel modo «più piacevole», cioè senza dover esercitare dominio nei confronti della fruizione del piacere, e nel modo «più facile», rifiutando così l’esercizio di resistenza nei confronti della fatica230. Per Aristippo la

chiave per vivere una vita felice è proprio sottrarsi al πόνος che rende schiavi. Infatti, secondo il filosofo cirenaico non c’è differenza tra la chi sopporta la fatica per necessità (τῶν ἐξ ἀνάγκης κακοπαθούντων, II.1.17), come gli schiavi che devono obbedire agli ordini del padrone, e chi invece la sopporta volontariamente (πάντα μοχθήσουσιν, ibidem), «se non il capitolo non è necessario chiedersi se il governo di sé, oltre ad essere condizione necessaria del governo degli altri, ne sia anche condizione sufficiente.

229 Guerra ed agricoltura sono per Senofonte due attività importanti per l’uomo di governo: nell’Economico egli

afferma che i principi persiani si esercitano con particolare cura in esse (4.4-25). Già nell’Introduzione si è visto come Cicerone tratti l’attività bellica come paradigma del πόνος fisico.

fatto che chi si sottopone di sua volontà al dolore è anche affetto da follia (ἀφροσύνη)»231.

Socrate di contro afferma che la fatica sopportata involontariamente è diversa da quella volontaria, non solo perché chi sopporta il πόνος volontariamente può decidere quando interrompere la fatica, ma anche perché

chi affronta delle sofferenze di propria volontà, gioisce della fatica per le buone speranze che nutre, così come i cacciatori sopportano volentieri la fatica perché sperano di catturare la preda (ὁ μὲν ἑκουσίως ταλαιπωρῶν ἐπ’ἀγαθῆ ἐλπίδι πονῶν εὐφραίνεται, οἷον οἱ τὰ θηρία θηρῶντες ἐλπίδι τοῦ λήψεσθαι ἡδέως μοχθοῦσι)232.

La caratteristica che distingue il πόνος sopportato volontariamente da quello imposto è, allora, la sua componente teleologica: esso è mirato al raggiungimento di un obiettivo, come i cacciatori sopportano la fatica della caccia per poter catturare la loro preda233. Dunque, chi

fatica, fatica volentieri (πονεῖν ἡδέως, II.1.19) perché riceve ricompense per le fatiche sopportate (ἆθλα τῶν πόνων, ibidem). Le fatiche e le corrispettive ricompense menzionate a titolo di esempio da Socrate sono le tradizionali immagini della virtù: la capacità di fare del bene agli amici e del male ai nemici, di amministrare bene la propria casa, di essere utili alla patria. Chi si affatica in tali compiti non solo vive contento e soddisfatto di se stesso, ma è anche lodato ed invidiato dai concittadini. Dunque, la sopportazione del πόνος è mezzo necessario attraverso cui chi per propria scelta si impegna in essa può acquisire la virtù e le ricompense che tale acquisizione comporta.

Il paragrafo successivo (II.1.20) ribadisce il concetto attraverso un paragone con le virtù del corpo e l’esercizio ginnico – un riferimento analogico che in seguito si vedrà essere molto caro anche a Platone. Come i piaceri immediati del corpo non procurano una buona forma fisica (tutti gli esperti di ginnastica, i γυμνασταί, lo sanno benissimo), così non si può immettere alcuna conoscenza nell’anima in modo facile e immediato: è solo attraverso l’esercizio di resistenza (αἱ δὲ διὰ καρτερίας ἐπιμέλειαι) che si acquisisce la virtù che permette di compiere azioni belle e buone (καλῶν τε κἀγαθῶν ἐργων). Gli uomini virtuosi (οἱ ἀγαθοὶ ἄνδρες) sono i migliori atleti della virtù delle loro anime. Il paragone con l’acquisizione della forza del corpo serve a mostrare che non ci può essere acquisizione della

231 Xen. Mem. II.1.17, tr. it. Bevilacqua 2010. Citerò sempre questa traduzione. 232 Xen. Mem. II.1.18.

233 Sulla fatica della caccia si veda l’Appendice, i particolare con riferimento al Cinegetico di Senofonte. Più

avanti si offrirà qualche breve riflessione in nota sulla metaforizzazione della caccia (Sezione II, Parte II, cap. 3, 145, nota 377).

virtù dell’anima se non atttraverso il πόνος: per essere virtuosi ed agire bene bisogna compiere un esercizio di resistenza – anzi, esercizi (al plurale), ἐπιμέλειαι, e dunque esperienze ripetute. Ciò, aggiunge Socrate, è testimoniato anche dai poeti. Epicarmo afferma:

A prezzo di fatiche (πόνων) ci vendono tutti i beni gli dèi234.

Scellerato, non desiderare le mollezze, se non vuoi le asperità235.

Ma il miglior testimone di ciò è Esiodo, nei famosi versi de Le opere e i giorni già citati in precedenza: dura e faticosa è la via che porta alla virtù, mentre facile è la via del vizio. Chi imbocca la via in salita della virtù dovrà affrontare il sudore, la fatica imposta dagli dèi, ma, una volta giunto in cima, il sentiero proseguirà in modo facile. Il Socrate senofonteo cita per intero il passaggio di Esiodo, che si erge a testimonianza sicura della correttezza dei ragionamenti fatti. Ormai la discussione ha abbandonato il problema politico (chi sia in grado di governare la città, e come egli debba essere educato), per focalizzare l’attenzione sul solo problema etico della difficoltà dell’acquisizione della virtù a livello individuale (certo, comunque, tale acquisizione rimane condizione necessaria per l’esercizio del potere politico, ma questa via d’indagine non sarà più ripresa dagli interlocutori)236.

È solo a questo punto della discussione che Socrate introduce il mito di Eracle al bivio raccontato da Prodico237. Questo racconto serve ad illustrare le conclusioni raggiunte nel

dialogo con Aristippo. Prodico narra un particolare momento della vita di Eracle, in cui l’eroe, giunto al momento di passaggio dalla fanciullezza alla gioventù, si trova a dover compiere una scelta difficile: la scelta di quale strada seguire nella vita, quella della virtù o quella del

234 DK 23B36 = fr. 287 Kaibel. 235 DK 23B37 = fr. 288 Kaibel.

236 L’organizzazione e la strutturazione del dialogo da parte di Senofonte sono in effetti causa di un certo

imbarazzo dei commentatori, i quali notano incoerenze e lacune: tematiche sollevate ad un certo punto non sono più riprese (come appunto quella del governo della città); il problema dell’acquisizione della conoscenza (ἐπιστήμη) da parte dell’anima nel paragrafo 20 è introdotta in modo improvviso e non riceve adeguate spiegazioni; non tutti i ragionamenti seguono il filo logico che potremmo aspettarci (cf. ad es. Bevilacqua 2010, 376, nota 13). Disattenzioni di uno scrittore non particolarmente dotato, o segno di revisioni e rielaborazioni del testo? Non intendo – e non è comunque necessario – prendere posizione nei confronti di questo problema filologico.

237 A lungo si è discusso se il racconto sia veramente opera di Prodico e, in tal caso, se Senofonte stia riportando

l’originale in modo fedele. Per quanto riguarda il primo problema, il fatto che tale scritto su Eracle sia citato sia da Senofonte che da Platone (Symp. 177c) dovrebbe essere garanzia sufficiente dell’effettiva esistenza di esso. Per il problema dell’aderenza all’originale, già Untersteiner 1996 [1949], 326, notava che il testo presenta una ricca varietà di termini, quasi sinonimi tra loro, spesso utilizzati una sola volta. Questo farebbe pensare ad un tentativo da parte di Senofonte di imitare l’arte sinonimica per cui era famoso il sofista. Il racconto presenterebbe una buona aderenza al testo originale. La storia, nelle sue linee generali, sarebbe di Prodico, ma tutti i dettagli sarebbero da ricondursi alla mano di Senofonte (di ciò è convinta anche Woodford 1966, 124-127). Più recentemente la tesi secondo cui Senofonte avrebbe scritto il testo rimanendo fedele all’originale di Prodico è stata difesa da Sansone, criticato poi da Gray, Dorion e Wolfsdorf. Rimando alla risposta a tali critiche offerta da Sansone 2015 per tutti i riferimenti bibliografici e per la ricostruzione del dibattito. Si veda anche Mayhew 2011, 203-204.

vizio238.

Eracle è descritto come una persona che sta facendo il suo ingresso nell’età della gioventù (εἰς ἥβην, II.1.21), quel momento della vita in cui le persone diventano padrone di se stesse (αὐτοκράτορες, ibidem), cioè capaci di compiere le proprie scelte in autonomia, e dunque responsabili per esse. L’ambientazione stessa richiama la condizione di giudizio autonomo cui Eracle è giunto e il peso – si potrebbe dire, il πόνος – della scelta stessa239.

Eracle, infatti, si ritira in un luogo solitario (εἰς ἡσυχίαν, ibidem) ed è incerto su quale strada prendere, se quella della virtù o quella del vizio: si trova in una situazione di ἀπορία (ἀποροῦντα ὁποτέραν τῶν ὁδῶν τράπηται, ibidem; ἀποροῦντα ποίαν ὁδὸν ἐπὶ τὸν βίον τράπῃ, II.1.23)240. Gli si presentano allora due donne, descritte in modi opposti (II.1.22-23). La

prima, Virtù, è di nobile aspetto, con la pelle bianca e priva di trucco, lo sguardo pudico e l’incedere quieto e modesto: non si affretta per raggiungere Eracle. Chiaramente, le caratterisiche fisiche di Virtù, e perfino il suo modo di muoversi, simboleggiano la sincerità, la pacatezza e l’autenticità che ne sono elementi imprescindibili: la virtù non mente, non ha trucco, appare così com’è e non esagera in nulla. Al contrario, Vizio è una donna dalle forme ben tornite e imbellettata. Ella cerca, con l’artificio e la forzatura, di apparire diversamente da come è: il suo portamento la fa sembrare più alta di quanto sia in realtà, il trucco più bella e più rosea. Il vestito lascia trasparire le forme del corpo, non cela ma rivela. Mentre lo sguardo di Virtù è rivolto pudicamente verso il basso, Vizio guarda attorno a sé con sfacciataggine. Senofonte descrive lo sguardo di Vizio in modo dettagliato: non solo ella guarda intorno a sé per vedere se qualcun altro la stia guardando, ma guarda anche continuamente se stessa e la

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