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LA CONDANNA DELLA SMANIA DI LUSSO, AVIDITÀ E FASTO NELLA VITA QUOTIDIANA DI ALCUNI ESPONENTI DELLA NUOVA

Nel documento Lucilio: un intellettuale del II secolo a.C. (pagine 166-183)

LUCILIO E LA SOCIETà ROMANA DEL II SECOLO a.c.

2. LA POLEMICA SUL LUSSO ORIENTALEGGIANTE

2.1. LA CONDANNA DELLA SMANIA DI LUSSO, AVIDITÀ E FASTO NELLA VITA QUOTIDIANA DI ALCUNI ESPONENTI DELLA NUOVA

NOBILITAS

a) La nascita dell’amore per il lusso e la ricchezza

Lucilio critica i legionari romani che combatterono in Oriente nella prima metà del II secolo a.C., ritenuti – come abbiamo visto - i princi­ pali responsabili dell’introduzione dei beni di lusso nell’Urbe. Lo pro­ va il v. I 8 Ch. (10 M.), costituito da soli quattro metra:

… et mercedimerae legiones

… le legioni mercenarie

Siamo alle battute d’esordio del concilium deorum, riunito per deci­ dere la sorte di Lucio Cornelio Lentulo Lupo, princeps senatus tra il 131/130 e il 126 a.C., ex giudice corrotto e dissoluto, su cui mi sof­ fermerò più avanti. Giove, passando in rassegna le colpe dei Romani che non hanno più nulla dell’antica virtù, si lamenta perché anche i soldati pensano ora esclusivamente al guadagno ed hanno perso ogni senso di gloria. Questo è – secondo la maggior parte degli studiosi, fra cui Terzaghi1, I. Mariotti2 e Charpin3 – il senso del breve frammento,

desumibile dalla parola-chiave mercedimerae.

L’aggettivo mercedimerus, infatti, è un neologismo coniato sul mo­ dulo del greco μίσθαρνος, “lavoratore salariato”, che, con il sostantivo μισθαρνία, “lavoro mercenario”, e il verbo μισθαρνέω, “lavorare per mercede”, assume un particolare tono di spregio4 che mette in eviden­

za l’attaccamento al denaro di quei soldati che, privi dell’antico disin­

1 N. TERZAGHI, Lucilio, cit., 266. 2 I. MARIOTTI, Studi luciliani, cit., 47. 3 F. CHARPIN, Lucilius, I, cit., 195.

4 Il valore spregiativo di μισθαρνέω appare chiaramente nel discorso di Creonte sul

teressato amor di patria, mirano soltanto alla merces e al bottino. È questo che Lucilio rimprovera ai Romani, non il fatto di riscuotere un soldo, che esisteva già da molto, poiché, dopo Camillo, i legionari per­ cepivano lo stipendium5.

b) Le abitazioni private: arredamento e suppellettili

Lucilio non sembra fare alcun riferimento al lusso sfrenato che in­ vase il campo dell’edilizia pubblica, ma si sofferma spesso sulla luxu­

ria delle abitazioni private e dell’arredo.

Sono interessanti, in proposito, i frr. I 12 Ch. (15-6 M.) e I 14 Ch. (17 M.), in cui il poeta, per bocca di un dio (Romolo?1) che parla du­

rante il concilium deorum del libro primo, condanna le suppellettili di lusso ostentate da alcuni Romani dimentichi del mos maiorum:

Porro clinopodas lychnosque ut diximus semnos; ante pedes lecti atque lucernas

Poi clinopodes e lychni, come abbiamo detto con una certa solennità; prima (erano) piedi del letto e lampade

5 Secondo M. P

IZZICA, Lucil. 1, 9 Terz. Mar.*: “et mercedimerae legiones”, “Rivista di

cultura classica e medioevale” 40 [1-2] (1998), 266 ss., l’espressione mercedimerae

legiones potrebbe alludere alla cohors praetoria istituita da Scipione Emiliano nel

134 a.C., composta da 500 uomini scelti, fedelissimi al loro generale, nella quale aveva pure militato Lucilio stesso. Tale cohors, forse esemplata sulla ἴλη τῶν ἑταίρων (schiera degli amici) dei re Macedoni, oltre ad altri privilegi, si era vista ri­ conoscere un soldo pari a una volta e mezzo quello stabilito per gli altri legionari. Un ottimo sostegno all’identificazione delle mercedimerae legiones con la cohors

praetoria ci è offerto – secondo lo studioso – da Porfirione, che nel commento ad Hor. Epist. I 3, 6. cita antifrasticamente Lucilio rispetto ad Orazio: Quid studiosa co­ hors operum struit? Cohors nunc amici. Nam et Lucilius eos, qui cum praesidibus ad salarium eunt ~ ait. Nel Venosino la cohors che è al seguito di Tiberio Claudio Nero­

ne e di cui fa parte Giulio Floro, dedicatario della composizione, è formata di veri, schietti comites in stretta familiarità con l’Augusti privignus (PORPH.: cohors nunc

amici), uniti da interessi letterari. In Lucilio, invece, l’originaria cohors istituita dal­

l’Emiliano si è trasformata in breve tempo nella truppa che accompagna il praeses

provinciarum per solo amore di lucro e di bottino (mercede). L’ipotesi, tuttavia, non

mi sembra plausibile: Lucilio non potrebbe andare contro il suo protettore e, so­ prattutto, contro sé stesso.

… arutaenaeque, inquit, aquales

… arutaenae, dice, brocche

Come si può notare, lo scrittore menziona apparentemente tre ba­ nali oggetti tipici dell’arredo di una casa romana, utilizzando parole greche, che sono state più o meno traslitterate bene in lettere latine dai copisti: clinopodes (piedi del letto) e lychni (lampade) nel primo frammento, un tipo di brocche da acqua, le arutaenae, nel secondo. A questi grecismi poi contrappone i corrispondenti vecchi sostantivi la­ tini pedes lecti, lucernae e aquales2, che – osserva Ronconi3 – non

sono scomparsi, sono solo stati rimpiazzati a causa di una moda che pretendeva di parlar sostenuto, in stile alto, semnos dicere (cioè σεμνολογεῖν: I 12 Ch.), e consisteva nell’impiego di prestiti greci pene­ trati nel linguaggio quotidiano ma non riconosciuti dall’uso. La con­ trapposizione suggerita dal testo non è dunque – come mette in evi­ denza A. Chahoud4 – tra passato e presente, ma tra parole semplici

(pedes lecti, lucernae e aquales) e termini elevati (clinopodes, lychni e

arutaenae).

Ora, passando dal piano linguistico a quello contenutistico, mi sembra verosimile che Lucilio intenda dire che oggetti di uso comune come i pedes lecti, le lucernae e gli aquales sono ormai stati sostituiti, nelle sfarzose dimore di alcuni esponenti della nuova classe dirigente romana, da una suppellettile ricercata, a cui rimandano allusivamen­ te i grecismi, tutti appartenenti al linguaggio del lusso conviviale. I

clinopodes non sono dei semplici piedi del letto, ma i piedi artistica­

mente lavorati (in bronzo o in avorio) dei triclinia, quei χρυσαῖ σφιγγόποδες (letti con sfingi d’oro ai piedi) che Ateneo5 associa ai 2 Il termine è da considerarsi sostantivo come in PLAUT. Curc. 312.

3 A. RONCONI, Lucilio critico letterario, “Maia” 15 (1963), 516.

4 A. CHAHOUD, The Roman satirist speaks Greek, “Classics Ireland” 11 (2004), 9 (il

numero della pagina si riferisce alla versione online dell’articolo, riportato nel sito www. classicsireland.com/2004/chahoud1.html).

5 A

ψιλαὶ περσικαί (tappeti persiani) e agli ἀμφίταποι (tappeti pelosi da en­ trambe le parti). Allo stesso modo i lychni non sono delle semplici lampade, ma delle preziose lampade simposiache6. Le arutaenae sono

infine preziose brocche d’argento, utilizzate nei banchetti7. Il lusso in­

somma è arrivato anche agli oggetti di uso quotidiano.

Anche in altri due frammenti, riconducibili come i precedenti al contesto del concilio degli dei, Lucilio allude spregiativamente al son­ tuoso arredamento tricliniare, servendosi di grecismi appartenenti al linguaggio del lusso simposiaco.

Del v. I 13 Ch. (14 M.) ci restano le seguenti parole:

… miracla ciet tylyphantas8

… il fabbricante di cuscini fa miracoli

Il tylyphantas – forma dorizzante (in quanto “tarantina”) dell’hapax τυλυφάντης attestato in POLL. VII 191 e X 39 – è un artigiano specia­

lizzato nella tessitura dei cuscini che vengono posti sui lussuosi tricli­

nia che rendono più belle e confortevoli le sale da pranzo delle dimore

di alcuni membri della nuova nobilitas romana. Il poeta definisce que­ sti sontuosi cuscini miracla, “cose straordinarie, al di fuori del comu­ ne”. Vedrei bene un collegamento con la poetica luciliana del “meravi

6 I. MARIOTTI, Studi luciliani, cit., 53 n. 5 ricorda che lychnus si trova già negli Annali

di Ennio, 311 Skutsch (lychnorum lumina bis sex), poi in LUCR. V 295 (dove sono

contrapposti i lychni pendentes alle fumose taedae), CIC. Cael. 67 (tra le raffinatezze

di un triclinio) e VERG. Aen. I 726 (lychni pendenti in una lussuosa sala conviviale).

7 L’informazione relativa al materiale ci è data dai glossari (Thesaurus s.v.).

8 Pur accogliendo l’emendamento di Charpin, che – seguendo Marx – corregge la

grafia et elefantas tramandata da una parte della tradizione di Nonio in tylyphan­

tas, segnalo anche l’interpretazione di F. PONTANI, Lucilio, Lupo e gli elefanti (v. 14

Marx), “Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici” 47 (2001), 165 ss. Lo studioso – leggendo elefantas – sostiene che il frammento allude all’introduzione a Roma di pantere, orsi ed elefanti a fini ludici di esibizione circense, risalente – in base alla testimonianza di LIV. XLIV 18, 8 – al 169 a.C., anno in cui è edile curule

glioso” di cui parla Mazzoli9: il θαυμαστόν – non opponendosi tanto

all’εἰκός quanto, come limite spinto del πεπλασμένον, all’ἀληθές – presenta nel programma polemico di Lucilio la funzione di un bersa­ glio complementare, più che altro strumentale per effetti burleschi, parodici o comunque ironici. I lussuosi cuscini dei letti tricliniari sono citati dunque con intento derisorio.

Nel fr. I 11 Ch. (13 M.) Lucilio, attraverso le parole di Giove, rim­ provera l’eccessiva raffinatezza di alcuni Romani, che non si accon­ tentano più di semplici tappeti con il lungo pelo da una parte sola:

Psilae atque amphitapoe villis ingentibus molles

Tappeti con lunghi peli da una sola o da entrambe le parti, morbidi

I grecismi psilae e amphitapoe non designano delle vesti, ma le co­ perte che si stendono sui letti tricliniari. Le glosse di Nonio10 e di Isi­ doro di Siviglia11 che citano il passo indicano chiaramente la differen­

za fra i due tipi di tappeti: l’uno (psila) è intessuto di lunghi peli su un solo lato; l’altro (amphitapoe), su due lati. Le coperte pelose da ambedue le parti – ricordate da Varrone in un passo prosastico delle

Saturae Menippeae (Manius 253: alterum bene acceptum dormire su­ per amphitapo bene molli, “altra cosa molto gradita è dormire su un

tappeto coperto di peli da entrambe le parti, molto morbido”) - rievo­ cano la mollezza e la depravazione dell’Oriente per la lunghezza dei peli (villis ingentibus) e per la loro morbidezza (molles). Il poeta le no­ mina anche nel libro sesto, al v. VI 5 Ch. (252 M.):

Pluma atque amphitapoe et si aliud quid deliciarum

9 G. MAZZOLI, Reale, verum, fictum, falso in Lucilio, in Il meraviglioso e il verosimile tra

antichità e medioevo, a cura di D. Lanza e O. Longo, Firenze 1989, 119.

10 N

ON. 540, 28: AMPHITAPOE vestes dicuntur utrimque habentes villos. Lucilius Satyra­

rum lib. I...

11 ISID. Orig. XIX 26, 5: SIPLA: tapeta ex una parte villosa quasi simpla. Amphitapa ex

Letti di piume e tappeti coperti di peli da entrambe le parti e altre mollezze

Qui, assieme ai lussuosi tappeti a doppio pelo, è fatta menzione di

pluma, materassi ornati di peluria12, e di altri tipi di raffinatezze, forse

i vestimenta cubitoria Tyria di cui parla Petronio (30, 11).

Altri frammenti ancora, appartenenti al libro quarto, rimandano al lusso dei triclinia.

Nel fr. IV 12 Ch. (160 M.) Lucilio descrive un artigiano che fissa dei sostegni (fulcrum e fulmenta) su un oggetto che non è nominato (huic):

Subicit huic fulcrum, fulmentas quattuor addit

Gli pone sotto un appoggio, vi aggiunge quattro piedi

La parola fulmentum, piede del letto, compare nel proverbio Ful­

menta lectum scandunt riportato da Varrone13. Essa indica, con tutta

probabilità, i magnifici piedi tricliniari, che il poeta – come si è appe­ na visto - chiama clinopodes in I 12 Ch.

Strettamente connesso è il fr. IV 13 Ch. (161-2 M.), in cui la moda di fissaggio di un oggetto che, come nel verso precedente, non è nomi­ nato, è paragonata all’articolazione della caviglia o del ginocchio del­ l’uomo:

Haeret verticulis adfixum in posteriore

parte atque articulis; nam ut nobis talus genusque est

È attaccato sulla parte posteriore per mezzo di giunture e articolazioni: è come per noi la caviglia e il ginocchio

12

IUV. VI 88.

13 N

Il paragone – osserva Charpin14 – dimostra che la cosa in questione

non appartiene al corpo umano, altrimenti Lucilio non avrebbe preci­ sato nobis. L’oggetto descritto nei due frammenti potrebbe essere un lussuoso letto con spalliera ribaltabile: sul telaio del letto l’artigiano avrebbe fissato un sostegno davanti, quattro piedi e, infine, una spal­ liera ribaltabile.

Per concludere questa carrellata di frammenti sul tema del lusso dell’arredo simposiaco, aggiungo il v. XXX 39 Ch. (1094 M.), in cui mi pare di vedere una velata allusione alla suppellettile ricercata:

[Praestringat oculorum aciem] splendore micanti

[Che abbaglia gli occhi] per lo splendore sfolgorante

Non mi sembra valida l’interpretazione di Charpin15, che – basan­ dosi sul fatto che immediatamente prima di questo frammento Nonio cita Plauto (Mil. 4): praestringat oculorum aciem in acie hostibus – pen­ sa che il poeta in un contesto di guerra descriva un oggetto brillante, forse una spada. Riprendendo l’interpretazione di Garbugino16 – che accosta la clausola splendore micanti a HOR. Sat. II 2, 5: stupet insa­

nis acie fulgoribus, dove gli insani fulgores sono quelli delle mense (in­ ter lancis mensasque nitentis) – ritengo verosimile che Lucilio alluda

allo splendore di oggetti preziosi e vasellame dell’opulenta società contemporanea, vista in contrapposizione a quella castigata e sobria dei maiores17.

Infine, assegnerei all’ambito della luxuria e della stravaganza delle dimore di alcuni esponenti della nuova classe politica romana anche il fr. VI 10 Ch. (253 M.):

14 F. CHARPIN, Lucilius, I, cit., 251 ss. 15 F. CHARPIN, Lucilius, III, cit., 213 ss. 16 G. GARBUGINO, Il XXX libro, cit., 86 ss.

17 L’argomento sarà ripreso e sviluppato da Varrone nel libro quarto del De vita po­

Hoc tu apte; credit quemquam latrina petisse

Tu hai ragione su questo punto;

egli crede che qualcuno si è recato ai bagni

Nel II secolo a.C. i Romani non conoscevano ancora le grandi terme pubbliche che in età imperiale sorgevano a Roma e in tutta Italia. Esi­ stevano tuttavia i bagni in alcune abitazioni private: latrina, plurale di

latrinum, forma sincopata di lavatrinum. Ricordiamo in particolare la

stanza da bagno della villa di Scipione Africano descritta da Seneca (Epist. 86, 11): Quantae nunc aliqui rusticitatis damnant Scipionem

quod non in caldarium suum latis specularibus diem admiserat, quod non in multa luce decoquebatur et exspectabat ut in balneo concoque­ ret… Non saccata aqua lavabatur, sed saepe turbida et cum plueret vehementius, paene lutulenta, “C'è chi non apprezza le rustiche abitu­

dini di Scipione: la stanza da bagno non riceveva luce da ampie vetra­ te, ed egli né si arrostiva al sole, né faceva la digestione nel bagno... Si lavava con acqua non filtrata, ma spesso torbida e, se c'era stato un temporale, anche con acqua fangosa”. Si trattava, dunque, di un ambiente piuttosto squallido e freddo, destinato all’uso pratico e non al piacere: tuttavia, in quel periodo la presenza di una stanza da ba­ gno all’interno di una dimora privata era segno di lusso. È ad un ba­ gno di questo tipo, sicuramente appartenente ad un grande perso­ naggio, che fa riferimento Lucilio.

c) L’abbigliamento femminile e gli oggetti di ornamento

Lucilio fa pochi ma significativi cenni sul ricercato abbigliamento e i preziosi oggetti di ornamento che, dopo i contatti con il mondo orientale, erano divenuti di moda tra le matrone romane.

Nel fr. I 10 Ch. (12 M.), il poeta condanna le toghe preteste e le tu­ niche tessute in Lidia che le nobildonne romane preferiscono alle ve­ sti indigene:

Praetextae ac tunicae Lydorum, opus, sordidum… omne

Le toghe preteste e le tuniche di Lidia, opera del tutto spregevole

Le tuniche sono vesti intime senza maniche, lunghe fino ai piedi; quelle di Lidia erano molto famose: alcuni autori greci, come Senofa­ ne1 ed Eschilo2, ne condannano l’estrema mollezza. Le toghe preteste,

bordate di porpora, sono delle vesti tipicamente romane: il genitivo

Lydorum, dunque, - come sottolinea Charpin3 – sembra non reggere

anche il nominativo praetextae, in quanto l’espressione praetextae Ly­

dorum apparirebbe priva di senso. Si potrebbe però intendere il bloc­

co praetextae ac tunicae Lydorum non “le toghe preteste e le tuniche vesti tipiche della Lidia”, ma “le toghe preteste e le tuniche tessute in Lidia”: in questo caso, Lucilio, attraverso l’apposizione opus sordidum

omne, non rimprovererebbe alle ricche donne romane soltanto di fare

uso dei lussuosi prodotti orientali, ma anche di non tessere esse stes­ se le vesti che indossano4. Il poeta sembra dunque voler mettere in ri­

salto che a Roma si fa ormai appello alle mani dei Lidi, in quanto le donne concepiscono ogni attività come spregevole.

Nel fr. II 13 Ch. (71 M.) lo scrittore enumera alcuni indumenti da donna:

Chirodyti aurati, ricae, toracia, mitrae

Tuniche dorate con le maniche, fazzoletti, pettorali, mitre

Tutti questi capi di vestiario, ad eccezione di uno, conservano il nome greco originario. Il chirodytos – traslitterazione latina, abba­ stanza storpiata, del greco χειριδωτὸς χιτών – è una specie di tunica

1 ATH. XII 526 a. 2 T.G.F. p. 21, 59.

3 F. CHARPIN, Lucilius, I, cit., 196 ss.

4 Le matrone romane non sanno più lavorare in mezzo alle loro serve come – secon­

do quanto riportato nel già citato LIV. I 57, 9 (CFR. sopra 148 n. 5) – facevano un

con le maniche5. Il toracium – da θωράκιον – è un busto o un corpet­

to6. La mitra – da μίτρα – è una cuffia per il capo7. Infine, il termine latino rica indica un fazzoletto con cui le donne si coprono la testa8. La netta prevalenza dei grecismi potrebbe forse alludere - come sup­ pone M. Imperato9 - al fatto che le donne appartenenti all’alta società

romana ora si abbigliano seguendo il gusto orientale.

Infine, nel fr. XIII 1 Ch. (446 M.), le critiche di Lucilio sono rivolte contro degli oggetti di ornamento provenienti da Siracusa:

Adde Syracusis sola pasceolum… alutam

Aggiungi, provenienti da Siracusa, delle suole, una borsa… di pelle finissima

Il poeta indica due oggetti di lusso di moda a Roma: le suole (sola), che si legavano per mezzo di cinghie infilate tra le dita del piede, sono una tenuta da riposo; la borsa di pelle (pasceolum) è un oggetto di ori­

5 Su questo indumento si sofferma Aulo Gellio (IV 12, 5): Tunicis uti virum prolixis

ultra brachia et usque in primores manus ac prope in digitos, Romae atque omni in Latio indecorum fuit. Eas tunicas Graeco vocabulo nostri chiridotas appellaverunt, fe­ minisque solis vestem longe lateque diffusam non indecere existimaverunt, ad ulnas cruraque adversus oculos protegenda. Viri autem Romani primo quidem sine tunicis toga sola amicti fuerunt; postea substrictas et breves tunicas citra humerum desinen­ tes habebant, quod genus Graeci dicunt ἐξωμίδας. Hac antiquitate indutus P. Africa­ nus, Pauli filius, vir omnibus bonis artibus atque omni virtute praeditus, P. Sulpicio Gallo, homini delicato, inter pleraque alia, quae obiectabat, id quoque probro dedit, quod tunicis uteretur manus totas operientibus. Verba sunt haec Scipionis: “Nam qui cotidie unguentatus adversum speculum ornetur, cuius supercilia radantur, qui barba vulsa feminibusque subvulsis ambulet, qui in conviviis adolescentulus cum amatore cum chirodota tunica inferior accubuerit, qui non modo vinosus, sed virosus quoque sit, eumne quisquam dubitet, quin idem fecerit, quod cinaedi facere solent? Le tuni­

che con le maniche sono menzionate anche in VERG. Aen. IX 616: Et tunicae, inquit,

manicas et habent redimicula mitrae.

6 Questo è il significato che la parola assume in SVET. Aug. 82: Hieme quaternis cum

pingui toga tunicis et subucula et thorace laneo et feminalibus et tibialibus munieba­ tur. In Ampelio, invece, è usata nel senso di “piccola corazza”; in Galeno indica una

“fascia per il petto”.

7 VARRO Ling. V 130: Mitra et reliqua fere in capite postea addita cum vocalibus Grae­

cis. La mitra non gode di una buona reputazione: IUV. III 66: Ite, quibus grata est

picta lupa barbara mitra.

8 VARRO Ling. V 130: Sic rica ab ritu quod Romano ritu sacrificium feminae cum fa­

ciunt, capita velant; PAUL. p. 343, 9 L.: Palliola ad usum capitis facta.

9 M. I

MPERATO, Uso letterario di tecnicismi ed esotismi nelle Satire di Lucilio, in Lingue

speciali e interferenza: atti del convegno seminariale (Udine, 16-17 maggio 1994),

gine greca (φάσκωλος), molto probabilmente una sorta di sacco in cui si mettevano le cose preziose10.

d) Gli eccessi della tavola

Lucilio affronta in diversi libri il tema del lusso della tavola nelle sue varie forme: banchetti sontuosi, cibi prelibati, ghiottoneria… Si tratta di un argomento che stava molto a cuore ai Romani dell’epoca del poeta, come dimostrano le numerose leggi suntuarie proposte ed approvate ad opera dei catoniani nella seconda metà del II secolo a.C.

Parecchi, infatti, sono i frammenti indirizzati contro l’indecoroso spettacolo offerto da alcuni membri del nuovo gruppo dirigente roma­ no, i quali spendevano patrimoni interi per soddisfare i più bassi pia­ ceri del palato. Qui mi soffermerò su quelli più significativi, comin­ ciando dai versi in cui sono evocati i dominia, ovvero i lussuosi ban­ chetti che riunivano tutta la nobiltà, sotto gli ordini e a spese di per­ sonaggi importanti (domini) che si erano distinti per la ricchezza, il successo, le cariche onorifiche (console, trionfatore…)1.

Nel fr. XIII 2 Ch. (438-9 M.) Lucilio parla di dominia atque sodali­

cia:

… primum dominia atque sodalicia omnia tollantur

… in primo luogo si eliminino tutti i conviti e i banchetti di amici

Il termine sodalicia designava originariamente i banchetti organiz­ zati dalle confraternite religiose come i Sodales Titii2; poi, sotto la re­

pubblica, la parola finisce per indicare i festeggiamenti che permette­ vano a delle associazioni raggruppanti dei cittadini influenti di riunir­ si e di sostenere, con la corruzione o la violenza, la candidatura di al­

Nel documento Lucilio: un intellettuale del II secolo a.C. (pagine 166-183)