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LA CRITICA ALLE MOLLEZZE DEI COSTUMI ORIENTAL

Nel documento Lucilio: un intellettuale del II secolo a.C. (pagine 193-200)

LUCILIO E LA SOCIETà ROMANA DEL II SECOLO a.c.

25 A PIC VIII 380.

2.2. LA CRITICA ALLE MOLLEZZE DEI COSTUMI ORIENTAL

La polemica luciliana sulla luxuria e la connessa decadenza del

mos maiorum non investe soltanto gli aspetti concreti della vita quoti­

diana. Il poeta, infatti, si scaglia anche contro i comportamenti disso­ luti e le stravaganti manie provenienti dall’Oriente ellenizzato e del tutto ignoti ai Romani.

21 VERG. Aen. III 252 e VI 605.

22 R. DEGLINNOCENTI PIERINI, Due note a Lucilio, “Studi italiani di filologia classica” 50

(1978), 55 ss.

23 Il fr. IV 4 Ch. (172 M.) attesta inequivocabilmente che la satira del libro quarto,

indirizzata contro il lusso dei banchetti, narrava una passata esperienza personale del poeta o di qualche altro personaggio che parlava in prima persona.

a) Il vizio del bere

Pochi ma significativi frammenti provano l’atteggiamento critico di Lucilio nei confronti della diffusione tra i Romani del vizio del bere.

Nel fr. I 9 Ch. (11 M.) il poeta condanna l’osteria come luogo di dis­ solutezza:

Infamam incestam turpemque odisse popinam

Odiare l’osteria malfamata, lorda e immonda

Il verso evoca senza dubbio l’austerità dei costumi di un tempo, l’e­ poca in cui si disprezzavano l’osteria, il bere, la dissolutezza. L’osteria è un luogo in cui si perdono la buona reputazione (infamam), l’onore (turpem) e la moralità (incestam). Sono proprio questi i caratteri che, durante l’epoca classica, contraddistinguono questo locale: Fuit enim

ille vir, patres conscripti, sicuti scitis, cum foris clarus, tum domi admi­ randus neque rebus externis magis laudandus quam institutis dome­ sticis. Huius in sedibus pro cubiculis, tabula, pro tricliniis, popinae sunt1, “Perché quel grande, se, come voi senatori sapete, si distinse fuori di casa, fu parimenti ammirevole nella vita familiare, e le gesta gloriose non gli meritarono maggiori elogi che i nobili principi che presiedevano alla sua vita privata. Ora, dove un tal uomo abitava, le stanze da letto sono diventate postriboli; bettole, le sale da pranzo!”.

Il poeta esprime il suo biasimo nei confronti del vizio del bere an­ che nel fr. IV 4 Ch. (172 M.), in cui sono riportate le parole di un indi­ viduo ubriaco:

Obtursi ebrius

Mi sono gonfiato, colmo di vino

Un convitato ha svuotato la sua coppa, arrivando a gonfiarsi di vino. L’aggettivo ebrius è unito al verbo obturgeo, che in Lucrezio2 è

usato come termine dell’area medica per indicare il gonfiore improvvi­ so di un piede. L’ubriaco è talmente incosciente che ha l’impressione di essere completamente gonfio e, perciò, malato.

b) La pratica delle prostitute di lusso

Le critiche di Lucilio non sembrano risparmiare neppure l’introdu­ zione a Roma della pratica delle prostitute di lusso, come si deduce da due frammenti del libro settimo, contenenti allusioni ai trucchi delle cortigiane e delle mezzane.

Nel fr. VII 4 Ch. (263 M.), infatti, è menzionata una famosa etera greca:

Phryne nobilis illa, ubi amatorem inprobius quem

Quella famosa Frine, quando tratta un amante in modo piuttosto sfrontato…

Frine fu una delle più celebri cortigiane di Atene (nobilis illa)1.

Nel v. VII 5 Ch. (271 M.), poi, Lucilio mette in scena una mezzana:

Aetatem et faciem ut saga et bona conciliatrix

L’età e l’aspetto come un’astuta e abile mezzana

Il poeta attinge al vocabolario della commedia: conciliatrix compare in PLAUT. Mil. 1140, dove indica la servente che si occupa degli appun­

tamenti; saga si trova in TURPIL. Com. 8 R3. e in TIB. I 5, 59. La mezza­

na conosce bene il suo mestiere (bona); vanta giovinezza (aetatem) e

2 LUCR. VI 658: Obturgescit enim subito pes. 1 POSIDIP. C.A.F. 3 p. 339, 12 K. e VAL. MAX. IV 3, 3.

bellezza (faciem) in un’espressione tutta costruita che designa le qua­ lità essenziali di una donna.

c) L’effeminatezza

Lucilio disapprova, infine, certi comportamenti di alcuni nobili ro­ mani considerati sintomo di effeminatezza.

Nel fr. I 19 Ch. (32 M.) il poeta allude spregiativamente alla danza:

Stulte saltatum te inter venisse cinaedos

Follemente tu sei giunto a danzare fra i cinedi

La glossa di Nonio1 in cui è citato il frammento precisa che cinaedi designa i danzatori, che all’epoca del grammatico sono anche i panto­ mimi. Il verso è pronunciato da un dio – forse Nettuno2 – che durante

il concilium deorum canzona Apollo, divinità anti-romana solita ab­ bandonarsi alle piacevolezze del gusto orientale, come sottolinea Charpin3. Stulte presuppone il piacere grossolano, la soddisfazione

immediata di tutti gli istinti, l’irragionevolezza4. Il termine cinaedi si

accorda particolarmente bene con questo contesto. Il danzare era, agli occhi dei Romani, un atto infamante. Cicerone5 dà grande impor­ tanza ad una accusa di questo tipo e tenta di confutare Catone che si augura di ottenere la condanna di Murena: Nemo enim fere saltat so­

brius nisi forte insanit neque in solitudine neque in convivio moderato atque honesto. Tempestivi convivii, amoeni loci, multarum deliciarum comes est extrema saltatio. Tu mihi arripis hoc quod necesse est om­ nium vitiorum esse postremum, relinquis illa quibus remotis hoc vitium omnino esse non potest? Nullum turpe convivium, non amor, non co­

1 NON. 5, 25: C

INAEDI dicti sunt apud veteres saltatores vel pantomimi, ἀπὸ τοῦ κεινεῖν

σῶμα…. Lucilius Satyrarum lib. I...

2 L’ipotesi è di N. TERZAGHI, Lucilio, cit., 268. 3 F. CHARPIN, Lucilius, I, cit., 202 ss.

4 HOR. Epist. I 1, 41. 5 C

missatio, non libido, non sumptus ostenditur et cum ea non reperiantur quae voluptatis nomen habent quamquam vitiosa sunt, in quo ipsam luxuriam reperire non potes, in eo te umbram luxuriae reperturum pu­ tas?, “Non esiste, in verità, chi si metta a mente fredda a ballare, se

non è impazzito, né quando sia solo, né durante un convito di gente a modo e temperata. Il ballo è l'ultima risorsa delle cene prolungate, dei locali di divertimento, delle facili mollezze. Ora tu mi sventoli innanzi questo, che non può essere che il vizio conclusivo, e non ti occupi dei vizi che lo preparano? Qui non ci sono rinfacciati né licenziosi ban­ chetti, né amori, né orge, né lussurie, né sperperi: e credi tu, che dove nulla vi sia di tutto quello che pur essendo vizio si usa chiamare voluttà, tu possa trovare l'ombra della dissolutezza là dove non trovi la dissolutezza stessa?”. L'uso del verbo saltare spinge ad intendere che Apollo ha tentato di trasformare l'assemblea degli dei – immagine speculare di una seduta del Senato romano - in un luogo di deprava­ zione. Cinaedi rafforza ancora l'accusa: la parola presuppone sempre che quelli che danzano sono effeminati6.

Ai cinedi potrebbe fare riferimento anche il v. XXIX 56 Ch. (845 M.):

Gnatho, quid actum est? – Depilati omnes sumus

Gnatone, cosa è successo? Siamo tutti depilati

Il verbo depilare sembra alludere all’abitudine di depilarsi, propria di questi lascivi danzatori7.

Sulla depilazione come segno di effeminatezza Lucilio ritorna nel fr. VII 1 Ch. (264-5 M.) all’interno della descrizione di un’accurata tolet­ ta:

6 P

LAUT. Mil. 668; Stich. 760; Aul. 422...

7 Diversa è l’interpretazione di F. CHARPIN, Lucilius, III, cit., 190, che – basandosi sul­

la fonte citante (NON. 36, 26: DEPILATI dictum rarefacti. Lucilius lib. XXIX…) – ritiene

Rador, subuellor, desquamor, pumicor, ornor, expilor… pingor

Mi rado, mi taglio i peli, mi striglio,

mi passo la pietra pomice, mi faccio bello, mi depilo… mi dipingo

L’autore biasima l’eccessiva cura del corpo come forma di dissolu­ tezza.

Per concludere, ricondurrei alla condanna dell’effeminatezza anche il fr. II 13 Ch. (71 M.), che ho già citato a proposito del lusso dell’abbi­ gliamento femminile:

Chirodyti aurati, ricae, toracia, mitrae

Tuniche dorate con le maniche, fazzoletti, pettorali, mitre

Il verso – tratto dalla narrazione del processo che opponeva Tito Al­ bucio a Quinto Muzio Scevola l’Augure – è pronunciato da Albucio, che accusa l’avversario di aver rubato vari indumenti da donna per indossarli lui stesso.

d) La pederastia

Diversi frammenti rimandano alla pederastia, ma da nessuno di essi sembra emergere esplicitamente un atteggiamento critico da par­ te di Lucilio nei confronti di questa pratica importata dal mondo orientale.

Nel fr. IV 9 Ch. (173 M.) il poeta si limita a descrivere un fanciullo desiderato da un pederasta:

Cumque hic tam formonsus homo ac te dignus puellus

Strettamente connesso mi pare il fr. IV 10 Ch. (174-6 M.), che la­ scia intendere un confronto tra i pregi del fanciullo e quelli delle don­ ne:

Quod si nulla potest mulier tam corpore duro esse, tamen tenero maneat succusque lacerto et manus uberi<or> lactanti in sumine sidat

Che se nessuna donna può avere il corpo tanto sodo, rimanga almeno il vigore nelle morbide braccia e

si possano mettere meglio le mani sulle mammelle piene di latte

All’amore che un uomo prova per un fanciullo potrebbe essere ri­ condotto anche il fr. VII 8 Ch. (269-270 M.):

Qui te diligat, aetatis facieque tuae se fautorem ostendat, fore amicum polliceatur

Uno capace di amarti, si mostri ammiratore della tua età e della tua bellezza, prometta di esserti amico

L’ipotesi che Lucilio alluda alla pratica della pederastia senza l’in­ tenzione di condannarla sembra avvalorata da tre frammenti del libro settimo, in cui lo scrittore parla dei suoi amori con i fanciulli. Nel fr. VII 6 Ch. (273-4 M.) è presentato Genzio, uno dei fanciulli che il poeta corteggia con insistenza1:

Nunc, praetor, tuus est; meus, si discesserit horno, Gentius

Ora, o pretore, Genzio è tuo; sarà mio quando sarà partito in quest’anno

1 APUL. Apol. 10: …et quidem C. Lucilium, quamquam sit iambicus, tamen improbarim,

Il verso è rivolto direttamente ad un personaggio che esercita le funzioni di pretore (praetor). Genzio è certamente un giovane illiro: Charpin2, riprendendo Marx, pensa che il suo nome, traslitterazione

latina del greco Γένθιος Γετίων, lo imparenti alle grandi famiglie di questa regione3. Tutto il passo gioca sull’opposizione tuus/meus, il

presente nunc e il futuro discesserit: ora il fanciullo è tuo; ma sarà mio quando, nel corrente anno, (horno è un ablativo avverbiale) ritor­ nerà con te, quando lascerai il tuo governo della provincia.

Altri due pueri delicati aventi come Genzio nomi greci compaiono nel fr. VII 7 Ch. (275 M.):

Hic est Macedo, si Agrion longius flaccet

Ecco qui Macedone, se Agrione

si infiacchisce per un tempo troppo lungo

L’amore del pederasta si caratterizza essenzialmente per la sua di­ sponibilità. I fanciulli sono intercambiabili tanto quanto i loro protet­ tori. Così come nel frammento precedente, la proposizione con si in­ troduce semplicemente un’eventualità: se Genzio ritorna, sarà mio; se Agrione è flacco, Macedone prenderà il suo posto.

Nel fr. VII 10 Ch. (276-7 M.), infine, Lucilio menziona uno dei fan­ ciulli da lui amati senza farne il nome:

Huncin ego umquam Hyacintho hominem, cortinipotentis deliciis, contendi?

Ho io mai paragonato quest’uomo a Giacinto, oggetto di gioia del signore del tripode?

2 F. CHARPIN, Lucilius, I, cit., 277 ss.

Nel documento Lucilio: un intellettuale del II secolo a.C. (pagine 193-200)