1 1 Il patrimonio culturale come conserv-azione
1.3. La conservazione del patrimonio come pratica di manipolazione sociale
1.3.1. I frutti puri del patrimonio
Il tema della centralità della memoria è emerso come fondamentale nelle opere storiche, antropologiche e sociologiche che abbiamo visto riunirsi nell’ambito di studio degli heritage studies.
Che l’interesse per la memoria sia legato alle condizioni della modernità è piuttosto evidente. Si attribuisce valore a qualcosa quando si teme di poterla perdere. La velocità e l’accelerazione dei cambiamenti che la modernità porta con sé minacciano di cancellare le tracce del passato e di indebolire, fino a renderlo insignificante, il legame tra passato, presente e futuro. Memoria e progetto sono elementi che si implicano a vicenda. La memoria senza progetto è un’operazione di pura conservazione museale, il progetto senza memoria è il perseguimento di una meta senza sapere il significato” (Rampazzi – Tota 2005: 11).
Un testo di critica etnografica particolarmente interessante per la nostra indagine e per comprendere il modo in cui ciascuna società rifletta su una propria rappresentazione è quello di James Clifford I frutti puri impazziscono (1988). In quest’opera vengono in particolare affrontati alcuni temi dell’arte e della letteratura del XX secolo che riguardano da vicino il problema della conservazione del patrimonio culturale e di come questo sia centrale nella costruzione di un’identità.
L’evocativo titolo italiano (in inglese si registra il più descrittivo The Predicament of Culture) si riferisce al un verso di una poesia di William Carlos Williams18 che descrive i cambiamenti epocali e le evoluzioni storiche contemporanee come un incremento di disordine, sradicamento e instabilità. Il poeta appare soprattutto spiazzato dal trovarsi immerso e travolto tra tradizioni frammetate, sospeso da un senso di autenticità perduta dato che nel corso dei millenni il cambiamento è sempre stato configurato come disordine, un impazzimento delle società.
Le tradizioni autentiche, i frutti puri, sembrano arrendersi nella visione poetica alla promiscuità e all’insignificanza, così che non appare sensata neppure la scelta dello sguardo retrospettivo nostalgico: non c’è speranza di un ritorno, non c’è un’essenza da recuperare. Eppure la visione della poesia non è del tutto pessimistica in quanto allude a “qualcosa che viene fuori a frammenti, a scaglie”. È diffusa tra i profeti della contemporaneità la paura di un’omologazione culturale che renda insignificanti le differenze tra le culture e generi caos nell’ambito delle preziose tradizioni autentiche. È appunto il problema del rischio di uniformità e appiattimento culturale, di imperialismi ed etnocidi che possono mettere a rischio e compromettere definitivamente quelli che già da tempo sono stati definiti come “tristi tropici” (Lévi-Strauss 1955).
Nella visione di Lévi-Strauss le differenze umane autentiche si stanno disintegrando, dissolvendo in una espansiva cultura della merce: le identità non presuppongono più una continuità di tradizione e cultura; ovunque gruppi sociali improvvisano prestazioni locali sulla
18 La poesia di un giovane medico, scritta intorno al 1920) per intera è citata da Clifford (1988; trad. it. 1993: 13-
14): inizia con “I frutti puri d’America/impazziscono” e finisce angosciosamente “è solo a frammenti isolati che/qualcosa/viene fuori/Nessuno per testimoniare e riparare, nessuno per guidare la macchina”.
traccia di passati (ri)costruiti, facendo ricorso a simboli, mezzi di comunicazione e linguaggi stranieri. Nel migliore dei casi le differenze culturali diventano frammenti di arte e cultura collezionabili mentre il panorama culturale mondiale, in questa visione pessimistica, procede verso una avanzante monocultura caratterizzata da perdita di tradizioni e entropia.
Clifford, nella sua riflessione che potremmo definire come un esempio di meta-etnografia, contrappone a queste paure e al disorientamento generalizzato che ha accompagnato la fine del secolo scorso una visione meno pessimistica. I fenomeni legati alla diffusione globale di alcuni modelli economici, culturali e sociali e l’irrigidirsi o il trasformarsi di altri per difesa non devono suscitare inutili rimpianti nostalgici per il passato o per i luoghi incontaminati. Piuttosto a livello teorico e analitico questo dilagare dei prodotti globalizzati, delle culture occidentali, questo riconfigurarsi degli equilibri politici-economici mondiali deve aiutare a mettere in discussione ed eventualmente superare alcuni concetti che dal XIX secolo abbiamo imparato a percepire come saldi e monolitici, quali quelli di “cultura”, “identità” o “assimilazione”. Più che un mondo popolato da un’autenticità in pericolo, Clifford intravede nella traformazione sociale un motore per la costituzione di specifici sentieri della modernità.
La questione attorno alla quale ruota buona parte dell’opera è infatti la diffusa sensazione di ampi settori sociali nella cultura occidentale (ma anche in molti gruppi sociali del mondo) della perdita di una centralità ed equilibrio posseduti in precedenza. Sempre più spesso si riscontra che le cose non sono al loro posto, che i sistemi di significato sono difficilmente isolabili. E non è un caso che proprio in Europa più che altrove il tema della memoria collettiva sia avvertito come decisivo.
É l’Europa ad essere entrata [...] nell’era post-nazionale e questo fatto non è senza conseguenze per il destino delle memorie collettive. Le pratiche della memoria collettiva si sono espresse, almeno per un secolo e mezzo, dalla rivoluzione francese alla seconda guerra mondiale, nel culto delle glorie nazionali, nella storia da raccontare nelle scuole alle nuove generazioni. Il patrimoine, l’heritage, i cimeli e i sarcofagi raccolti nel luogo (sacro) del Pantheon, i monumenti ai caduti delle guerre e al milite ignoto, i musei storici hanno rappresentato simbolicamente le memorie e, attraverso di esse, l’identità della nazione. La memoria nazionale non è affatto scomparsa, ma risulta, per così dire, appannata. [...] Al di là del dibattito sulle radici culturali (cristiane, ma non solo) dell’identità europea, esiste certamente un patrimonio culturale europeo prodotto dalle contaminazioni tra le culture nazionali (Rampazzi – Tota 2005: 12).
Dunque più che una perdita di centralità e di riferimenti simbolici unici, ciò che si è indebolito è il modello dello stato-nazione che per lungo tempo aveva rappresentato la fucina e il motore di tutte le costruzioni patrimoniali ed identitarie, in Europa e in seguito nei paesi che andavano incontro alla libertà dai colonizzatori.
L’aspetto sul quale Clifford insiste è la natura inevitabilmente mista, relazionale e inventiva dell’identità in senso etnografico. Attraverso un importante studio dalla storia e delle strategie di scrittura e rappresentazione nell’etnografia (un altro testo fondamentale è Clifford – Marcus 1986), i rapporti tra antropologia, arte e la ricerca sul collezionismo di opere esotiche, l’antropologo mostra come l’identità collettiva sia qualcosa di distante dall’immagine monolitica e inscalfibile diffusa dalle ideologie nazionali o tribali: alla base di ciascuna identità collettiva
esiste un processo inventivo ibrido e spesso discontinuo. In breve i frutti che si vorrebbe difendere dall’impazzimento non sono mai stati troppo savi e disciplinati.
Emerge con assoluta chiarezza (ad esempio nella ricerca sulla classificazione ed esposizione delle collezioni di arte primitiva) come l’identità sia sempre congiunturale e mai qualcosa di essenziale: tutte le collezioni di autore sono storicamente contingenti e soggette a riappropriazione locale. Clifford cita esplicitamente l’opera Tristi Tropici di Claude Lévi-Strauss (1955) come racconto antesignano dell’avanzante monocultura che disintegra le diversità e causa perdita di valore nelle caratteristiche autentiche delle società. A questa lettura della condizione delle società contemporanee, Clifford contrappone un’idea di cultura come processo creativo, continuamente giocato con il rapporto con l’altro, fatto di caratteri stabili ma anche di invenzioni e trasformazioni continue.
Qualsiasi vocazione di ricostruire una tradizione genuina, ritornare alle ‘sorgenti originarie’ è per Clifford un discutibile atto di purificazione: le pretese di purezza sono sempre minate dal bisogno di inscenare una presunta autenticità in opposizione dialettica con alternative esterne. Ad esempio il Terzo mondo si autopercepisce e si rappresenta come tale in contrapposizione al Primo mondo19: non c’è in questo caso una corrispondenza perfetta tra cultura nella quale un gruppo vive e “cultura immaginaria”, o meglio cultura di riferimento, rispetto alla quale si nutre interesse e una vocazione all’imitazione.
E non solo i gruppi sociali nella pratica sociale quotidiana costruisco e ricostruiscono le identità in modo relazionale e dinamico rispetto al contesto e in una situazione di pluralità di fonti o di riferimenti ma esistono momenti, luoghi in cui la ‘manipolazione’, la modificazione delle identità è più evidente e descrivibile. “Se l’autenticità è realzionale, non può darsi essenza se non come una invenzione politica e culturale, una tattica locale” (Clifford 1988; trad. it. 1993: 24). Come abbiamo visto, i musei sono un luogo importante di costruzione di un patrimonio e quindi un’identità locale, nazionale (cfr. in questa Parte I capitolo 1 § 1.2): è il luogo in cui una cultura sceglie i ‘frutti puri’ per darli in mostra e rappresentare se stessa o altre culture.
Attraverso la ricostruzione storica delle origini e dell’organizzazione del Musée d’Ethnographie del Trocadero e il suo erede scientifico Musée de l’Homme a Parigi, Clifford ridefinisce la prospettiva di studio a partire da quest’interrogativo:
in base a quali criteri vengono ritagliati, posti in salvo e valutati i mondi etnografici e i loro artefatti significativi? Qui la cultura non si presenta come una tradizione dal salvare, ma come un assemblaggio di codici e di artefatti sempre passibili di nuove combinazioni critiche e creative (Clifford 1988; trad. it. 1993: 25).
Il processo di selezione oltre che le modalità espositive hanno influito sull’immagine che l’Umanità si è costruita della propria storia, delle proprie origini: decisioni apparentemente
19 Si noterà qui la corrispondenza con il pensiero di Jurij Lotman (1985), riguardante la possibilità per un cultura di
percepirsi come negazione e scarto rispetto ad un’altra dominante. Se la norma è il modello canonico in cui ciascuna cultura chiama testi ciò che riconosce come propri prodotti e ‘naturali’ ciò che considera esterni ai propri confini, Sonesson (1999) parla di “modello canonico inverso” per i casi in cui una cultura aspira ad imitare un modello culturale esterno, definisce come testi di riferimento quelli esterni e svaluta i propri.
marginali su quali opere esibire, come esibirle, sotto quali etichette e secondo quali principi organizzatori ha plasmato in modo talvolta definitivo le idee dei contemporanei in merito alla storia dell’essere umano. Quindi Clifford fa emergere con chiarezza da questa analisi la malleabilità e l’estrema possibilità di essere combinati che hanno i materiali culturali, ma soprattutto i concetti teorici di identità e di cultura. Per Clifford la stessa etnografia si configura come una critica culturale che condivide con il movimento dadaista e surrealista il gusto per la combinazione, la creazione di modelli fatti di pezzi, scarti e elementi culturali molto diversificati.
Questo fatto è indice di come in Francia tra le due guerre mondiali le scienze umane abbiano intrattenuto con il mondo dell’arte e della letteratura un rapporto strettissimo, in particolare a Parigi grazie al gruppo che si raccolse attorno ad André Breton: il surrealismo promuoveva un’estetica che valorizza il frammento, le collezioni bizzarre, gli accostamenti sorprendenti che cercavano di provocare la manifestazione di realtà fuori dal comune attingendo a piene mani dai domini dell’erotico, dell’esotico o dell’inconscio.
Quel che Clifford bene mette in luce è il fatto che etnografia e surrealismo non sono unità stabili, “i confini tra arte e scienza (specialmente nelle scienze umane) sono ideologici e mutevoli, e la storia delle idee è essa stessa coinvolta in tali mutamenti” (Clifford 1988; trad. it. 1993: 144). Il trait-d’union più evidente fra etnografia e surrealismo consiste nella comune prospettiva che prende le mosse da una realtà posta radicalmente in questione, da una attenzione per l’altro e il diverso come una serie alternativa umana. L’etnografia nella versione originaria rappresentava quindi una esplicita forma di critica culturale: è stato il divorzio, la divisione tra scienza accademica da un lato e sperimentazione dell’avanguardia dall’altro a ridurre la forza analitica dell’arte surrealista e la vocazione sovversiva dell’etnografia.
E ci sembra che un nesso logico conduca da questa prospettiva ad alcune delle caratteristiche originarie del progetto del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.
Sin dal 1900 le onnicomprensive collezioni di “Umanità” sono andate istituzionalizzandosi in discipline accademiche quali l’antropologia e nei musei d’arte o di etnografia. Si è affermato un sistema di “arte-cultura” restrittivo nel controllo dell’autenticità, del valore e della circolazione di certi fatti e dati. Analizzando questo sistema, avanzo l’ipotesi che ogni collezione implichi una visione temporale generatrice di rarità e valore, una metastoria (Clifford 1988; trad. it. 1993: 25-26).
Questa metastoria stabilisce quali oggetti, quali aspetti della vita sociale debbano essere riscattati da un passato umano in dissoluzione e quali invece possano essere considerai come agenti dinamici di un destino comune. Il progetto dell’UNESCO non sembra sottrarsi a questa considerazione: la Lista di beni protetti si configura come un inedito collage in cui i contorni e il disegno complessivo sono definiti da una visione, un modello o meglio un’ideologia dell’essere umano e dei rapporti interculturali. È un progetto che, pur dichiarandosi universale e basato su valori scientifici-umanistici condivisi, tende a riprodurre un’immagine del patrimonio e della cultura in generale temporalmente e geograficamente determinata.
Ogni progetto di costruzione di un patrimonio ha numerosi tratti in comune con il lavoro di scrittura dell’etnografo; tra questi il più rilevante è senz’altro il fatto che in entrambe i casi ci
sembra che si tratti della costruzione di un corpus testuale separato dalle circostanze discorsive della sua produzione. Si tratta dell’azione di un’istanza che prende in carico determinati valori per raccogliere e poi assemblare un insieme più o meno ampio, più o meno coerente di testi ovvero prodotti di una cultura. L’insieme di testi raccolti non rappresenta in modo neutro la cultura di riferimento ma la costruisce, ne restituisce un’immagine dalla prospettiva adottata, modificandola, manipolandola.
In questo senso Clifford adotta un approccio e una metodologia di analisi interpretativi che pone come punto di partenza per la sua riflessione sull’essere umano e le sue manifestazioni espressive.
L’antropologia interpretativa, con il suo vedere le culture come assemblaggio di testi, debolmente e talora contraddittoriamente legati, e con il suo far luce sulla poiesi inventiva operante in tutte le rappresentazioni collettive, ha contribuito in misura significativa allo straniamento dell’autorità etnografica. […] Ciascuna “cultura” è, concretamente, un dialogo, creativo e non predeterminato negli esiti, tra sottoculture, tra chi sta dentro e chi sta fuori, tra differenti fazioni. Ciascuna “lingua” è il luogo d’interferenza e di attrito tra dialetti regionali, gerghi professionali, luoghi comuni convenzionali, modi di parlare dei diversi gruppi di età, tra diversi individui e così via (Clifford 1988; trad. it. 1993: 57; 64).
Questa visione di Clifford appare vicina ad un altro approccio ai vari ambiti delle manifestazioni culturali che è quello della semiotica della cultura della scuola di Tartu-Mosca, per la quale le dinamiche tra ciò che interno e ciò che è esterno ad una data semiosfera diventano punto di riflessione centrale. Secondo questa tradizione di ricerche, come avremo modo di vedere oltre (cfr. in questa Parte il capitolo 3), i caratteri distintivi di una cultura sono il risultato di una pluralità di sottoinsiemi culturali (concepiti come testi) che interagiscono in molti modi. La cultura (che Jurij Lotman chiama semiosfera) non è quindi un deposito o un archivio di nozioni, oggetti e credenze omogeneo e ben coeso ma è l’insieme polifonico di diversi elementi o semiosfere di più piccola taglia.
Non è un caso che sia in Lotman che in Clifford si ritrovino echi di un altro autore che di polifonia e pluralità di voci aveva parlato: Mikhail Bachtin. Nella sua analisi sul romanzo ‘polifonico’, per Bachtin era utile rappresentare i soggetti parlanti in un campo di discorsi multipli poiché non si danno universi culturali o linguaggi che non siano integrati. Ogni tentativo di postulare simili unità astratte è una creazione del potere monologico20. Ogni cultura è qualcosa di più complesso di un monologo definito una volta per tutte il cui interprete è un unico soggetto: ciò che caratterizza la cultura, l’agire sociale è il fatto di essere costantemente un dialogo, una negoziazione tra una pluralità di soggetti. E in quanto dialogo creativo tra sottoculture, tra chi sta dentro e chi sta fuori, tra differenti fazioni non può essere determinato negli esiti.
Tra i lavori etnografici citati da Clifford, quelli che maggiormente mostrano un’attinenza con il nostro oggetto di analisi e un approccio teorico affine alla sensibilità semiotica ci sono quelli di Marcel Griaule. Nelle procedure di raccolta di informazioni e materiali sul campo,
20 Bachtin sostiene che una cultura si svela compiutamente solo agli occhi e in rapporto con un’altra cultura, così
ovvero nei viaggi etnografici che condusse per studiare delle popolazioni nel loro ‘habitat naturale’, Griaule si distinse come etnografo sempre consapevole del ruolo che giocava la sua presenza come studioso esterno all’interno dei villaggi e le comunità ospiti. Nelle sue testimonianze dei viaggi e nelle sue opere (la più nota Dio d’acqua del 1948) non ebbe la pretesa di registrare la verità scientifica, la realtà così come si sarebbe svolta anche in sua assenza. Dimostrava di comprendere bene tutta l’aleatorietà e la difficoltà di descrivere fino in fondo cosa avveniva negli incontri etnografici poiché il processo d ricerca era inevitabilmente influenzato dagli informatori, da autorità tribali. Proprio a partire dal riconoscimento che l’osservatore rappresentava un’intrusione nel sistema sociale, Griaule diede esempio di franchezza nei suoi scritti dipingendo la ricerca come qualcosa di essenzialmente agonistico, teatrale, intriso di potere.
Un informatore enuncia un particolare tipo di verità, secondo la sua prospettiva parziale e talvolta comportandosi da ‘bugiardo’: l’etnografo deve stare costantemente all’erta per smascherare le bugie, valutare le sfumature e le prospettive attraverso le quali viene colta la verità, in qualità di ‘giudice istruttore’. Interessante rilevare come per Griaule l’etnografia debba avvicinarsi, apprezzare e cogliere i tratti essenziali di una cultura oggetto di studio come se si trattasse di una rappresentazione teatrale o come la ‘prestazione’ di una popolazione. Anche uno studio della memoria sociale o del patrimonio di un gruppo possono essere avvicinati come fenomeni costituiti da ‘attori’, ‘trame’, ‘sceneggiature’, ‘scenografie’ e un ‘pubblico’. Griaule usa proprio le metafore del procedimento giudiziario ma soprattutto del teatro per parlare del modo di avvicinarsi allo studio e alle manifestazioni espressive di una cultura.
Pr Griaule la base dell’‘etnografia attiva’ consisteva nell’essere “insieme un’ostetrica e un magistrato inquirente”. Il lavoro di etnografo costringe ad indossare in successione una serie di maschere, di ruoli differenti per ottenere ciò che più gli interessa dall’informatore. Questi riferimenti non possono che ricordarci alcune tra le prime pagine di un libro fondante per la sociosemiotica, quale La società riflessa (1989) di Eric Landowki dove si parla appunto della spettacolarità della società come principio di base (cfr. in questa Parte capitolo 2 § 3).
Oltre a segnalare a una vicinanza metodologica e epistemologica, vorremmo soprattutto rilevare come l’impostazione di Griaule (che Clifford mostra di condividere) definisca il testo etnografico, ovvero l’esito del lavoro dell’antropologo-etnografo, come il risultato di una interpretazione. E in questo caso per interpretazione non si intende l’accezione più ovvia di uno sforzo congnitivo-enciclopedico di uno studioso riguardante la vita, le abitudini e gli oggetti materiali di una comunità estranea, bensì un lavorio molto più complesso e per nulla unidirezionale. Il senso di qualsiasi oggetto culturale studiato dall’antropologia (come dalla semiotica della cultura) non può essere pensato come una mole di contenuti preesistente rispetto alla spiegazione e la produzione di un testo etnografico dello studioso.
Griaule non pensò mai di essere un osservatore non intrusivo, non indirizzò mai i suoi studi all’‘etnografia verità’ perché la sua ricerca era manifestamente una intrusione, i cui risultati erano consapevolmente l’incontro di due soggettività attive e produttrici di senso. Il senso non è quindi semplicemente ricostruito o riflesso nell’opera dell’etnografo ma è qualcosa di co-
costruito nel dialogo tra informatori e ricercatori, tra diversi enunciatori che mettono in atto strategie manipolatorie complesse, da ricostruire e tenere in considerazione. Nell’esame di questo gioco delle parti e nella ricostruzione delle mosse strategiche degli attori coinvolti, il ricercatore non può arrestarsi all’attribuzione di un senso univoco e autoevidente ai fatti sociali ma deve tenere in considerazione la complessità della costruzione di un testo, uno spaccato specifico della cultura per avanzare delle ipotesi e delle osservazioni più generali sulla cultura.
Deve in qualche modo inferire, scommettere, provare a giocare delle mosse e prendere dunque un ruolo attivo nella costruzione del senso: non esiste infatti una posizione o un approccio teorico o metodologico che garantisca la piena comprensione in virtù di una presunta