La Convention on the Protection and Promotion of the Diversity of Cultural Expressions, adottata dall’UNESCO il 20 ottobre 2005 è uno strumento legale molto problematico, che ha suscitato un acceso dibattito in fase di elaborazione e delle critiche e prese di distanza al momento della sua approvazione come testo definitivo. Data la vastità dei temi coinvolti in questo dibattito, non è possibile illustrare tutti gli aspetti significativi della Convenzione ma ci occuperemo esclusivamente di come il concetto di patrimonio in questo testo abbia subito un allargamento e come i valori di fondo delle due Convenzioni esaminate assurgano a tema centrale articolato.
La diversità culturale è stata al centro delle preoccupazioni dell’UNESCO sin dalla sua fondazione e compare come valore di fondo variamente lessicalizzato fin dalla Dichiarazione dei diritti umani o la Costituzione dell’ONU. Tuttavia il modo in cui le differenze culturali sono state concepite e teorizzate nonché i provvedimenti concreti che sono stati presi hanno subito significative variazioni nella storia dell’organizzazione.
Gli studi in merito (cfr. Stenou 2004) descrivono lo sviluppo concettuale come un processo a quattro fasi:
1) Periodo postbellico con l’istituzione delle agenzie internazionali, in cui l’UNESCO si concentrò sull’educazione e la conoscenza come fattori di pace. Gli stati nazione venivano concepiti ancora come entità unitarie e l’idea del pluralismo e interculturalità riguardava più gli scambi tra queste unità discrete che un movimento interno alle nazioni. In questa prima fase la cultura veniva concepita esclusivamente in termini di produzione artistica.
2) Il periodo postcoloniale e di proliferazione di nazioni indipendenti spinse questi nuovi soggetti politici a trovare una giustificazione alla propria esistenza e indipendenza proprio a partire dalla loro unicità culturale. Il concetto di cultura in questa fase comprese e spesso si sovrappose a quello di identità.
3) Nella terza fase la nozione di cultura assunse più i contorni di potere politico e motore dello sviluppo delle nazioni. La cultura divenne un campo di scontro politico ed economico anche a livello internazionale: i paesi in via di sviluppo videro nella sfera culturale un terreno utile e pieno di risorse per giocare un ruolo più significativo in campo internazionale.
4) L’ultimo periodo, più recente, ha visto un avvicinarsi della cultura agli sforzi di democratizzazione che ponevano particolare enfasi sulla necessità di tolleranza non solo tra le nazioni ma anche all’interno delle stesse. Le tensioni emerse in campo culturale su vari livelli (da quello regionale, a quello tra stati) hanno condotto a privilegiare una valorizzazione a livello micro di ogni entità e cellula di differenza culturale.
L’accelerazione dei fenomeni legati alla globalizzazione è spesso indicata come il fattore di un ripensamento ed una maggiore necessità di strumenti efficaci di difesa della diversità culturale. In questo senso c’è quasi un’opposizione di forze diversamente investite di valori positivi e negativi.
Un passaggio chiave nell’elaborazione del concetto di diversità culturale nell’attività dell’UNESCO è stata la World Conference on Cultural Policies (MONDIACULT), tenutasi nell’agosto del 1982 a Città del Messico. In quell’occasione la diversità culturale venne riconosciuta come valore esteso a tutti gli aspetti della vita di una società, anticipando così una riflessione sul folclore e le tradizioni che arrivò a maturazione sette anni più tardi nelle Recommendations on the Safeguarding of Traditional Culture and Folklore:
Culture is [...] the whole complex of distinctive spiritual, material, intellectual and emotional features that characterize a society or social group. It includes not only arts and letters, but also modes of life, the fundamental rights of the human being, value systems, traditions and beliefs (World Conference).
Non si può quindi dire che la diversità culturale costituisse un argomento marginale nei testi dell’UNESCO, ma la prima forma ufficiale interamente dedicata alla difesa di questo valore fu la Universal Declaration on Cultural Diversity adottata il 2 Novembre 2001. Tale scelta di ribadire con forza, rifondare il vincolo che univa gli stati nel loro sforzo congiunto fu sollecitata da un particolare momento storico che stava attraversando la politica internazionale: quello immediatamente successivo agli attacchi terroristici dell’11 settembre, da molti osservatori giudicato come un caso evidente di “scontro di civiltà”.
Proprio per contrastare la visione pessimistica della inevitabilità di scontro tra le differenze ed i particolarismi delle tradizioni, religioni, culture e modi di vedere, l’UNESCO volle offrire un immediato messaggio che andava in senso opposto, che voleva al contrario inquadrare questa distanza di tradizioni come una ricchezza per il genere umano.
Culture takes diverse forms across time and space. This diversity is embodied in the uniqueness and plurality of the identities of the groups and societies making up humankind. As a source of exchange, innovation and creativity, cultural diversity is as necessary for humankind as biodiversity is for nature. In this sense, it is the common heritage of humanity and should be recognized and affirmed for the benefit of present and future generations (Art. 1, Decl. 2001).
Gli stati membri utilizzarono la Dichiarazione, strumento legale ‘soft’ che corrisponde ad un impegno puramente morale e basato sulla fede comune, per dare un segno immediato di apertura al dialogo tra culture e fronteggiare così sia i fenomeni di standardizzazione associati alla globalizzazione che quelli di isolazionismo bastati su identità locali.
Per la prima volta nella storia la comunità internazionale entrava in possesso di uno strumento che elevava la diversità culturale al rango di “patrimonio comune dell’Umanità”. È evidente che l’uso di heritage/patrimoine riferito ad un concetto astratto come la diversità segna una differenza epocale e importante rispetto agli usi dello stesso lessema in WHC e IHC. La distanza abissale dalla concezione materiale della WHC è senz’altro più facile da cogliere, in
quanto nel testo del 1972 il senso di patrimonio era ancora fortemente legato al possesso di beni, ricchezze da custodire e non sperperare. Ma una differenza importante si trova anche nel confronto con IHC, che pure è molto vicina e fa esplicito riferimento alla Dichiarazione nei suoi preamboli: la IHC presenta tra i suoi valori di fondo il pluralismo culturale ma piuttosto che farne oggetto unico di valorizzazione, si propone di difenderlo attraverso una sua manifestazione concreta, un percorso tematico tra i tanti possibili: quello delle tradizioni, pratiche e riti tramandati da una generazione all’altra.
Altro passaggio chiave della Dichiarazione sulla diversità culturale è la sanzione di questa come valore importante quanto la diversità delle specie animali e vegetali per la vita del pianeta. Quindi l’UNESCO enfatizza i caratteri comuni tra dinamiche culturali e naturali: è un completamento del percorso di attribuzione di semi di vitalità ai fenomeni culturali, percorso intrapreso già nella IHC, come detto. Il punto focale e innovativo che sarà integrato nella Convenzione sulla diversità culturale è il riconoscimento che la difesa di un solo aspetto, quello patrimoniale, non è sufficiente come garanzia della vitalità di una cultura.
L’impegno della comunità internazionale deve dunque ampliarsi all’intera sfera delle politiche culturali degli stati: il paragone con la biosfera (concetto elaborato da Vernadskij62) pone l’accento più sugli scambi e la globalità degli esseri viventi in interazione reciproca che sulle singole specie. In tal modo la sfera della cultura mondiale è pensata dalla Dichiarazione stessa come quella che in termini lotmaniani definiremmo una “semiosfera”, uno spazio astratto ma non metaforico in cui entrano in contatto reciproco pratiche, oggetti e testi di gruppi sociali diversi. Tali contatti, scambi tra semiosfere di dimensioni minori (corrispondenti grosso modo alle sfere di influenza culturali dei singoli stati) non sono sempre di natura cooperativa: al contrario posso portare a scontri, prevaricazioni, inglobamenti e etnocidi ovvero scomparsa di comunità culturali locali.
Il pluralismo culturale è valorizzato come fonte di ispirazione della creatività a tutti i livelli, una spinta allo sviluppo grazie all’ampliamento di opzioni che ciascun soggetto può scegliere. L’invenzione, la creatività non è ridotta unicamente ad uno scambio tra diverse culture ma come nel pensiero di Lotman è forte l’idea (di sapore vagamente diffusionista) che il mutamento e la dinamica intraculturale oltre che interculturale sia promossa dallo scambio e dalla collisione di culture diverse63. Nell’articolo 7 si legge:
Creation draws on the roots of cultural tradition, but flourishes in contact with other cultures. For this reason, heritage in all its forms must be preserved, enhanced and handed on to future generations as a record of human experience and aspirations, so as to foster creativity in all its diversity and to inspire genuine dialogue among cultures (art. 7, Decl. 2001)
62 Come ricorda Lotman (1985) per Vernadkij la biosfera è l’insieme degli organismi vivi, unità organica che ha la
priorità rispetto ai singoli componenti perché è tutto l’insieme fortemente interconnesso che trasforma l’energia solare in energia fisica e chimica.
63 È l’idea che sta alla base dell’opera La cultura e l’esplosione (Lotman 1993) ma che è espressa anche con
chiarezza nella Semiosfera (Lotman 1985) dove afferma che la “coscienza creativa è sempre atto di comunicazione e scambio”. Non si può avere uno sviluppo immanente della cultura senza l’affluire di testi dall’esterno (inteso non solo come paesi stranieri ma anche generi testuali differenti).
Come già la prospettiva di studio lotmaniana (nonché numerosi modelli elaborati da studiosi prima e dopo Lotman), che si riferiva ad una serie di fenomeni culturali molto ampia (dalla moda all’arte, dalla letteratura al cinema) la Dichiarazione dell’UNESCO parla di un contatto a tutto campo e riguardante ogni manifestazione culturale: c’è una ripetizione continua di “heritage in all its forms” a segnalare la posizione limitante di approcci come quello della WHC. Questo aspetto richiama fortemente le osservazioni di Lotman nel saggio “Teoria del rapporto reciproco tra le culture” (in Lotman 1985) che a partire dalla problematica delle influenze reciproche tra letterature di culture diverse, si allarga a tutti i fenomeni culturali sostenendo che la storia delle società umane non conosce sviluppi isolati. Lo sviluppo di una cultura è sempre visto come un atto di scambio che presuppone sempre un partner per la realizzazione. Interessante notare come a proposito del meccanismo del contatto (Lotman 1985: 115) lo studioso già sostenesse come non ci siano differenze tra l’azione reciproca di influenze tra due testi della medesima cultura e due testi provenienti da culture differenti.