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Memoria collettiva, storia e identità

1 1 Il patrimonio culturale come conserv-azione

1.2. Memoria collettiva, storia e identità

1. 2. 1. La memoria collettiva e la memoria culturale

Per eredità si intende il prodotto di una tecnica culturale volta a perpetuarsi tramite preservazione e trasmissione culturale e nella pratica sociale è espressione per indicare ciò che è tradizionale, che è stato tramandato per sopravvivere a lungo. In una data cultura viene classificato come eredità ciò che viene ritenuto prezioso o significativo, sia come bene materiale ed economico (beni e immobili) e sia come bene ideale o etico (valori profondi). Come vedremo queste due dimensioni non si presentano in nessun caso scisse l’una dall’altra ma espressione materiale e ciò che vuol essere espresso sono assolutamente collegate e interconnesse.

Proprio in virtù dei valori rappresentati nell’eredità, non si tratta solo di conservazione, ma piuttosto di un’azione pedagogica e di impegno a diffondere ciò che è stato ereditato. Nella misura in cui ciò che è stato trasmesso ha un valore orientativo, esso è luogo paradigmatico, in cui i fondamenti etici di una cultura si presentano in forma concentrata e vengono prodotti e riprodotti. Poiché l’eredità contrassegna un patrimonio o una serie di valori che sono trasmessi di generazione in generazione, essa rappresenta anche una prassi culturale per l’autoperpetuazione di unità sociali. Con tale funzione , l’eredità serve a mantenere il ricordo della propria storia e dei propri predecessori e si dimostra una strategia della memoria e una forma della memoria dei morti (Pethes – Ruchatz 2001; trad. it. 2002: 169).

Un tema centrale nella riflessione sul patrimonio e la dinamica dei processi culturali è dunque quello della trasmissione della memoria a livello collettivo. L’uso del termine memoria per una collettività o una cultura, come abbiamo visto per patrimonio, nasce dall’estensione semantica del senso di una facoltà individuale. Comunemente per memoria si intende infatti la facoltà della mente umana di conservare, ridestare in sé e riconoscere nozioni ed esperienze del passato; ma come patrimonio possedeva molteplici usi in campi semantici del linguaggio

(biologico, tra gli altri), così i dizionari segnalano un utilizzo a partire dagli anni sessanta esteso soprattutto al campo informatico, in particolare nell’idioma inglese (memory, dal 1961).

In questa accezione la memoria (detta anche artificiale per distinguerla da quella ‘naturale’, umana) indica l’unità del sistema di elaborazione destinata a ricevere dati e istruzioni e a conservarli durante il tempo in cui sono utilizzati: per questo motivo anche l’archiviazione in dischi (ancor più che quella precedente in archivi materiali ad esempio cartacei) viene definita memoria, misurabile in capacità del contenitore o dimensione delle informazioni contenute. Tuttavia il percorso dalla memoria individuale a quella collettiva non quello di semplice analogia: istituzioni e società mancano di ciò che corrisponde al fondamento biologico e alla disposizione antropologica a ricordare quindi non dispongono di una memoria come quella del singolo individuo.

Se tuttavia intendiamo una comunità, una società o un’istituzione come un “corpo sociale” (Marrone 2001) potremmo vedere come questi soggetti possiedano dinamiche e facoltà simili alla memoria individuale, apparati preposti alla conservazione e mantenimento di informazioni, oggetti o tradizioni.

Istituzioni ed entità amministrative come le nazioni, gli Stati, la Chiesa o un’azienda non hanno alcuna memoria, se ne fanno una e si servono a questo proposito di segni e simboli memorabili, testi, immagini, riti, pratiche, luoghi e monumenti. Con questa memoria istituzioni ed enti si “fanno” anche una identità (Pethes – Ruchatz 2001; trad. it. 2002: 315).

Il concetto di “memoria collettiva” è stato introdotto da Maurice Halbwachs, un sociologo francese, che si è occupato in diverse opere del carattere socialmente condizionato della memoria. Nel testo La memoria collettiva (pubblicato postumo nel 1950, ma scritto negli anni trenta) espone in modo compiuto la sua prospettiva teorica secondo la quale memoria, coscienza e linguaggio ma anche la personalità sono fenomeni sociali. La memoria si sviluppa per impulso di stimoli esterni e si forma grazie al linguaggio, all’azione, alla comunicazione e ai legami affettivi nella costellazione della via sociale.

Anticipando le teorizzazioni successive relative alla “frame analysis”, Halbwachs parla di “quadri sociali”, “cornici” che vengono trasmessi all’individuo dalla relazione con gli altri e che comportano una strutturazione del complesso e caotico mondo interno. I quadri sociali, la struttura ordina, frammenta e segna il magma discontinuo di emozioni, pensieri di ciascun individuo introducendo il discontinuo, la cesura tra un prima e un dopo. L’atto stesso di ricordarsi consente all’individuo di oggettivarsi e strutturarsi. Halbwachs sostiene che la trasposizione del concetto di memoria dalla sfera individuale a quella collettiva non abbia nulla di metaforico poiché c’è reale interazione tra psiche, coscienza, società e cultura: la sfera affettiva gioca sempre un ruolo di primo piano nei ricordi, la memoria individuale è sempre e necessariamente di natura relazionale.

Esistono figure del ricordo, forme che rendono stabili le immagini che una collettività costruisce sul passato: tali forme sono definite “quadri sociali”. E lo strumento di memorizzazione principale, che forma la ‘memoria del gruppo’ come la ‘memoria di una nazione’ è la comunicazione, senza la quale i ricordi progressivamente scompaiono. Dato che il

passato è per definizione sempre assente, qualcosa che ha la proprietà di non esserci, la memoria procede sempre in modo ‘ricostruttivo’: per guadagnare permanenza nella memoria è sempre necessario uno sforzo, un lavoro e quindi una costruzione dove intervengono soggettività e interpretazione.

In nessuna memoria può essere conservato il passato in quanto tale, ma in essa rimane solo quello che in un’epoca e un soggetto sono stati in grado di ricostruire. Il principio ‘sociocostruttivista’15 che il passato esista solo come costruzione sociale (ricostruito solo in quanto ricordato, purché risponda ad un’esigenza concreta) si colloca diametralmente all’opposto rispetto a qualsiasi proposito positivista di svelare la verità storica in modo oggettivo e imparziale.

Sia la memoria individuale sia la memoria collettiva sono organizzate in maniera prospettica. Entrambe non sono regolate su una totale completezza, ma poggiano su una rigorosa scelta. Nietzsche contrassegnava questo carattere fondamentalmente prospettico della memoria con il concetto di “orizzonte”, nel senso di una delimitazione del campo visivo legata al punto di vista. Sotto la “forza plastica” della memoria Nietzsche comprendeva la capacità di collocare un confine fra ricordo e oblio a vantaggio della formazione dell’identità e dell’orientamento nell’azione e, pertanto, di distinguere tra importante e irrilevante, tra utile alla vita e nocivo a essa (Pethes – Ruchatz 2001; trad. it. 2002: 315).

Se in un primo momento Halbwachs aveva opposto nettamente mémoire vecue e tradition (indicando con la prima i ricordi presenti nella memoria di individui viventi opposti ai testi e alle forme simboliche oggettivati senza esseri viventi), questa distinzione venne superata nelle sue ultime opere a favore dell’utilizzo di memoria per cogliere la totalità dei fenomeni legati ai ricordi sociali.

A partire dalle osservazioni del sociologo francese, il testo La memoria culturale dell’egittologo Jan Assmann (1992) è uno degli studi più interessanti che si occupa delle relazioni tra il “ricordo” (o riferimento al passato), la “perpetuazione culturale” (o tradizione) e l’“identità” (o immaginativa politica). Le osservazioni di Assmann riguardano per lo più lo strutturarsi della memoria culturale nell’antichità: oltre alla storia dell’Egitto, numerosi esempi riguardano le forme di memoria collettiva in Mesopotamia, Israele, Grecia e tra la civiltà degli Ittiti. L’impianto complessivo e le osservazioni su popolazioni e culture del passato sono tutt’altro che superati ma al contrario utili per comprendere l’aspetto presente in ogni società legato ai dispositivi di memoria, divenuto ancora più importante nella nostra società contemporanea con l’aumento della capacità di memorizzazione esterna (grazie ai media elettronici, quella che abbiamo definito memoria artificiale).

Il punto di partenza di Assmann è che ogni cultura possiede una struttura connettiva che lega due aspetti: quello normativo o direttivo (i valori e le regole del vivere sociale) e quello narrativo, del racconto (relativo al ricordo di un passato condiviso). Il saldo legame tra questi due aspetti è il fondamento sul quale si costruisce il senso di appartenenza e l’identità di ciascun membro di una cultura. A differenza della memoria individuale, pensabile come fenomeno puramente interiore, è bene chiarire che per “memoria culturale” Assmann intende le dimensioni

esterne della memoria umana: essa alimenta la tradizione e la comunicazione ma non si risolve in esse. Si tratta del patrimonio di sapere fondativo dell’identità di un gruppo, che viene oggettivato in forme o pratiche simboliche e dispositivi di memoria.

Tale memoria è culturale perché può essere realizzata solo istituzionalmente, artificialmente; ed è memoria perché, in rapporto alla comunicazione sociale, essa funziona esattamente come la memoria individuale in rapporto alla coscienza (Assmann 1992; trad. it. 1997: XIX).

A differenza dell’arte del ricordo e delle mnemotecniche che concernono il singolo, la “cultura del ricordo” è un fenomeno sociale, spesso declinato come obbligo: nella cultura ebraica vige il comandamento esplicito del “conserva e ricorda!”, valido in ogni caso in molte culture. Eppure un collegamento, una via di mezzo tra la sfera privata e quella pubblica è individuata nella morte, intesa come punto che marca una discontinuità ontologica tra i due stati di ‘esserci’ e ‘non esserci più’. Di fronte a una simile frattura tra passato e presente si pone la scelta per chi resta tra conservazione del ricordo o dimenticanza.

La commemorazione dei morti è una forma originaria, diffusa quasi universalmente nelle società della cultura del ricordo: è un atto intenzionale, spesso trasformato in rito, che intende rianimare simbolicamente il defunto per assicurare la continuità interrotta. Per la memoria culturale avviene qualcosa di simile: si tratta di una serie di attività socialmente gestite volte a preservare elementi culturali che altrimenti scomparirebbero a causa del tempo che passa. Tuttavia il carattere sociale del fenomeno lo rende campo di strategie non univoche ma in costante dialogo e confronto: più che una banale riproposizione di ricordi e oggetti del passato la memoria sociale è una dinamica di regolazione tra quanto va conservato e quanto può essere dimenticato.

Il patrimonio culturale è quindi qualcosa di definito dal quadro di riferimento storico e sociale in cui prende corpo; soprattutto condivide con la memoria culturale così inquadrata la natura profondamente interpretativa. “Solo il passato significativo viene ricordato, e solo il passato ricordato diventa significativo. Il ricordo è un atto di semiotizzazione” (Assmann 1992; trad. it. 1997: 49). Aleida Assmann (1999) distingue in proposito tra memoria individuale, memoria generazionale, memoria collettiva e memoria culturale, riservando all’ultima il carattere di essere specificamente semantica e di riferirsi all’apprendimento di nozioni e conoscenze che l’individuo interiorizza per assorbimento di esperienze esterne.

Per Aleida Assmann la cultura si basa su un principio monumentale, ovvero abbisogna di una interazione tra condizioni spaziali e temporali per potersi sedimentare e diventare patrimonio collettivo. Esistono tre momenti principale che definiscono la permanenza e l’utilità della memoria: le funzioni, i mediatori e il deposito; di questi il terzo è quello sul quale la studiosa ha concentrato maggiormente le analisi. Esso implica un discorso etico-politico riferito al controllo degli archivi (e quindi dell’accesso alla memoria esternalizzata) come espressione del potere delle autorità.

Tornando al lavoro di Jan Assmann, il ricordo e la memoria culturale hanno bisogno per il proprio mantenimento di oggetti concreti, materialmente sensibili: per questo tanta parte degli sforzi economici e politici delle società sono destinate alla cura dei propri patrimoni fatti di

monumenti, luoghi e simboli della società stessa. La conservazione e in alcuni casi l’invenzione di un passato mitico è alla base di qualsiasi costruzione dell’identità collettiva, di un “noi condiviso”. Tale identità collettiva è l’immagine che un gruppo costruisce di sé e in cui i suoi membri si identificano: il “corpo sociale” che è intangibile, grandezza immaginaria e metafora trova nella realtà dei punti salienti e che lo sostanziano.

Oltre agli archivi di cui parla Aleida, la memorizzazione è rimessa in circuito, comunicazione quindi si partecipa alla memoria culturale attraverso l’atto di dialogo, incontro e la partecipazione (reale o vicaria) a riti e feste. Proprio la regolarità e ripetitività di queste garantiscono la riproduzione dell’identità culturale ed hanno per certi versi un ruolo analogo a monumenti che servono da catalizzatori di ricordo, di intensità passionale: come i riti collettivi nelle società strutturano e ritmano il fluire del tempo (istituendo un ordine temporale generale) così i monumenti commemorativi che troviamo nello spazio urbano ed extraurbano sono elementi che attraverso la loro estensione fisica aiutano a ricordare a nome della collettività personaggi, eventi del passato.

Il patrimonio fatto di oggetti concreti, ricordi tramandati, miti e leggende, conoscenze è un complesso strumento utilizzato dalle società per sopravvivere alla morte dei membri viventi e uno strumento volto ad orientarsi dunque relazionale (in quanto parla di noi e degli altri). Un racconto o un mito del passato può essere usato, giocato per confermare e rafforzare l’esistente ma anche metterlo in discussione e in dubbio. A differenza dell’eredità biologica, la memoria culturale va mantenuta attiva attraverso dei garanti, dei mediatori di continuità i cui due processi principali sono la ripetizione e l’interpretazione.

Questi mediatori e garanti della continuità temporale possono essere animati (figure sociali preposte a tale scopo) o inanimati (archivi, forme simboliche) ma quel che si prefiggono è quindi una coerenza culturale che non si ottiene mai una volta per tutte per cui deve essere continuamente riaffermata. L’identità di una collettività, il suo essere differente rispetto ad altre identità culturali va riaffermato anche in forme simboliche oggettivate (miti, danze, leggi, pitture, sentieri, riti) che hanno il compito di produrre con meno variazioni possibili un ordine pre-stabilito: la ‘coazione a ripetere’ assicura una coerenza rituale.

Ed è per questo che il rito è così importante per la memoria culturale di una comunità: è un caso di attualizzazione e realizzazione del senso: senza la messa in pratica, la performance della comunità i riti sono svuotati del loro senso e non riescono a stabilire un rimando rievocatore del passato. Assmann (1992: 60 e ss.) giudica il rito un contenitore di senso e valore più solido e resistenti dei testi tradizionalmente intesi come prodotti di una scrittura (ma potremmo allargare l’osservazione anche alle opere d’arte). I riti infatti (quelli che nella categorizzazione dell’UNESCO vedremo essere componenti del “patrimonio culturale immateriale”) sono una forma di circolazione che preserva in modo più integro i valori sociali (perché parlano e sono parlati da uomini e donne) a differenza dei testi, che se isolati dal loro contesto in molti casi divengono enigmatici e ‘muti’ (cioè incapaci di veicolare i significati originali).

1.2.2. Il canone come strumento per la conservazione del patrimonio

La coerenza e la continuità nel tempo di una data tradizione o elemento del passato può essere assicurata solo a patto di adattare le pratiche conservative alla forma espressiva: così il passaggio di contenuti e storie in una cultura orale e rituale è totalmente diversa dal passaggio di contenuti in una cultura che conosce la scrittura. Le pratiche conservative in una cultura dello scritto rispetto ad esempio a testi sacri necessita di una qualche forma di “canonizzazione” ovvero un atto di chiusura che stabilisce ciò che è autentico, sacrosanto, vincolante e ciò che invece è inautentico, inattendibile e apocrifo (ovvero apo-kryphos, “da nascondere”, da rifiutare).

Per Assman (1992; trad. it 1997: 74) “per ‘canone’ intendiamo quella forma di tradizione in cui quest’ultima raggiunge il suo grado vincolante più alto rispetto al contenuto e la sua massima fissazione formale: non si può aggiungere, né levare, né cambiare nulla”. La canonizzazione di un testo o una tradizione è una combinazione di fedeltà e riproduzione che ‘inchioda’ il lavoro di un soggetto al fine di garantire l’assenza di deviazioni nella sequenza delle ripetizioni.

Il canone è definibile come un elenco di beni culturali, in particolare di testi letterari, ritenuti degni di essere passati alle generazioni successive e quindi di elementi culturalmente vincolanti: è dunque la memoria resa operativa della cultura. Il processo di canonizzazione (e la possibile uscita dal canone, decanonizzazione) deve essere pensato come un processo dinamico intrapreso da un soggetto, un’istituzione dotata di autorità che proceda ad una selezione e riconoscimento di elementi che possiedano un carattere metonimico.

Quel che risulta interessante è notare come questo carattere del canone che lo avvicina ad una tecnica di esercizio del potere esercitata da una autorità rigida non coglie a pieno l’utilizzo che in tempi più recenti è stato fatto del canone ovvero quello di inevitabile riduzione di complessità soprattutto a fronte delle tecniche mediali di acquisizione e riproduzione di dati. Per accostarsi ad una letteratura (come massa di caratteri, ‘insieme di lettere’) è inevitabile fare uso di un canone ovvero un fiorilegio, una serie di suggerimenti, punti di partenza per la scoperta ed il godimento complessivo. Il canone è dunque utilizzato in primo luogo come uno strumento che riduce ovvero opera una trasformazione, una modificazione su un corpus più o meno ampio tale per cui ad una diminuzione quantitativa degli elementi corrisponde un complesso di qualità che rendono gli elementi del canone esemplari sotto qualche rispetto.

È senz’altro una forma di significazione dotata di molta forza, come vedremo. Perché produce un massimo di significatività e di densità semantica, di contenuti a fronte di una limitazione degli elementi significanti, delle espressioni. In questo senso è analoga ad una forma di stilizzazione efficace, che riduce i tratti espressivi lasciando inalterati i contenuti. Oltre a ciò a tutti i fenomeni che vanno sotto il nome di canone si attribuisce una ulteriore forza che è quella di operare una sospensione del tempo.

Attraverso il diritto canonico un ordine attribuito a ispirazione divina si iscrive in un ordine sociale mutevole, attraverso la fissazione della Bibbia un conglomerato di testi sacri viene messo ampiamente al riparo da qualsiasi lettura attualizzante. In tutti i casi un’autorità fondativa deve essere salvata oltre e contro il tempo per i posteri (coda (Pethes – Ruchatz 2001; trad. it. 2002: 72).

Questa breve digressione può apparire distante dal nostro interesse per la preservazione del patrimonio; tuttavia quando esamineremo i modi di costruzione del Patrimonio dell’Umanità da parte dell’UNESCO potremmo riscontrare l’utilizzo di una forma particolarmente efficace e diffusa del canone: quella della lista, l’elenco che è frutto di un’attività di selezione (cfr. Parte II, capitolo 2 § 5). Già Assmann (1992; trad. it. 1997: 77) annoverava tra le forme di canonizzazione (in aggiunta al metro, al prototipo, alla norma) anche la lista. Da tenere bene in considerazione è questo sforzo del canone di preservare e al tempo stesso costruire un valore, una significatività degli elementi che ingloba per i posteri e con scopo fondativo.

Intendiamo per fondazione appunto ciò che trasforma ciò che non possiede una struttura in qualcosa di articolato e dotato di un ordine: come una porzione di territorio protetta da mura e leggi vigenti all’interno. Miti, documenti, monumenti e leggi tramandano le linee guida programmatiche come impegno vincolante per il futuro di un dato gruppo sociale e diventano oggetto di rituali commemorativi legati a un uso politico del ricordo. L’UNESCO sembra utilizzare questo canone, questa lista di beni da proteggere contro l’usura del tempo proprio per finalità fondative, per preservare e creare ad un tempo un attore collettivo che è appunto l’Umanità.

Caratteristica del canone è quella di operare una selezione che prevede continui ingressi ed espulsioni: queste ultime sono spesso passate sotto silenzio o nascoste in quanto prova di una svalutazione di opere prima giudicate ‘eterne’ (mettono quindi in discussione il giudizio definitivo di un’epoca e lo inquadrano come pregiudizio).

La questione centrale è dunque la seguente: come possono i difensori del canone sapere che un’opera è senza tempo se non sono in grado di fornire criteri della loro scelta? La risposta resta un’azzardata tautologia: l’opera canonica deve essere eccezionalmente senza tempo, indipendentemente dal fatto che un singolo lettore riconosca la sua grandezza. Tuttavia ogni giudice appartiene a un gruppo sociale, a un’epoca e a un contesto politico, così che il dibattito si morde la coda (Pethes – Ruchatz 2001; trad. it. 2002: 72).

Il ricordo delle opere escluse dal canone e una riflessione critica sui principi di inclusione e selezione minacciano il “principio del canone” e ne mettono in risalto tutta l’arbitrarietà e scelta politica. Gli elementi scelti da un canone (quelli che sono considerati ad esempio “alta letteratura”, “le grandi opere d’arte” di un’epoca) godono di una durevole vitalità che apparentemente viene ricondotta a caratteri propri degli elementi: sopravvivono al fluire del tempo, solo in quanto ad essi sono riconosciuti come ‘classici’. Nella costruzione del Patrimonio dell’Umanità vedremo come l’UNESCO, pur esplicitando dei criteri di valutazione (in realtà molto generici e laschi), abbia riconosciuto ad un numero limitato di monumenti, luoghi e beni culturali il carattere di “outstanding universal value”, una universalità rispetto a tutte le culture