• Non ci sono risultati.

5 3 La costruzione del soggetto collettivo “Umanità” attraverso il patrimonio

5. 3. 1. Le strategie di mediazione e di collaborazione

Abbiamo visto come il punto di svolta contenuto nei preamboli sia rappresentato dal riconoscimento dell’esistenza di parti, elementi di eccellenza (secondo il criterio non meglio precisato e molto problematico di “outstanding univeral value”48) all’interno del patrimonio naturale e culturale che devono essere protette in quanto di interesse prioritario per l’intera Umanità.

Due elementi contrapposti emergono fin da subito e vanno segnalati in quanto decisivi per la comprensione del progetto dell’UNESCO: il carattere di unità partitive dei siti naturali e culturali del patrimonio valorizzato, ciascuna ben distinta dalle altre e con caratteristiche peculiari e all’opposto il carattere universale e di omogeneità del soggetto Umanità rafforzato dall’espressione che ne indica la completezza e la totalità (mankind as a whole/humanité tout entière). Seppur fondativo rispetto alla globalità del progetto, questo tema del rapporto tra universalità e particolarità rimane uno sfondo contestuale poco tematizzato e in molti casi ambiguamente articolato. È bene precisare che negli articoli della WHC non ritroviamo espresso con altrettanta chiarezza e ispirazione un concetto ideologico così nobile come quello che fa appello all’Umanità intera: nella descrizione degli organi e del funzionamento delle parti della Convenzione si trova traccia solo dei doveri e delle procedure che spettano ai delegati degli stati nazione come agenti singoli o come membri del Comitato esecutivo.

Questa è un primo punto critico per una Convenzione che si propone proprio di creare un senso di appartenenza collettivo su base mondiale, capace di cogliere ed accogliere tutte le manifestazioni espressive dell’essere umano, “di qualsiasi provenienza esse siano” (come dicono le parole dei preamboli). Quel che infatti osserviamo è una linea teorica generale universalistica che si vuole perseguire, però, attraverso un sistema e degli strumenti di segno opposto che la ostacolano e ne rendono difficile il cammino: c’è dunque una conflittualità ed una opposizione di fondo che almeno apparentemente caratterizza l’intero progetto. Cercheremo di mostrare come il contrasto bipolare sia molto più sfumato di quanto non sembri e le pratiche conservative molto più complesse della semplice opposizione.

Innanzitutto possiamo individuare nel Comitato composto da 21 membri un attore giuridico, una forme di soggettività che è incaricata di svolgere una mediazione: i rappresentanti delle nazioni che rientrano nel Comitato hanno proprio la funzione di incaricati a cui si affida il

48 Cfr. sul tema della problemaricità teorica e applicativa del concetto di “outstanding universal value” Titchen

potere di “rappresentare”, stare per tutte le comunità culturali del mondo e non solo i loro paesi di provenienza. I membri del Comitato attraverso azioni concrete riflettono ed esprimono la volontà e il pensiero dell’Umanità intera: ogni scelta di includere o meno un bene nella Lista non è semplicemente la scelta di quelle 21 personalità ma la scelta più ampia della totalità di persone che vivono nel mondo.

Per questo nel secondo comma dell’articolo 8, si trova la raccomandazione di una rappresentanza equilibrata di questo organo consultivo e decisionale: “Election of members of the Committee shall ensure an equitable representation of the different regions and cultures of the world”. I principi di equità e giustizia suggeriti in questo articolo riguardante il processo di elezione dei membri appartenenti al Comitato non ne stabilisce lo status di mandatari o deputati rispetto alla Assemblea Generale (composta a sua volta dai delegati delle nazioni di tutto il mondo) ma direttamente fa riferimento ad un Destinante manipolatore più astratto e sfuggente composto da regioni geografiche e comunità culturali del mondo. Il contratto fiduciario assume tutto un altro significato, quindi. La prova più evidente del valore e della giustizia della delega e dell’incarico al Comitato risiede nella equanimità e nel tentativo di parlare ed agire per conto delle differenti voci del mondo.

Tuttavia la differenza tra questi referenti astratti che agiscono per conto di tutti gli esseri umani, le culture e le regioni del mondo e l’attore collettivo Umanità resta ancora molto profonda. L’unico altro accenno all’interno della WHC a una soggettività più ampio rispetto ai delegati degli stati membri e del Comitato è quello che si richiama alla comunità internazionale, come somma di soggetti sui quale ricade un unico dover-fare che si dispiega come collaborazione e azione congiunta. Nell’articolo 6 viene ribadita l’idea già presente nei preamboli che esista un “world heritage for whose protection it is the duty of the international community as a whole to co-operate”. Pur ritrovando l’espressione as a whole che abbiamo trovato riferita all’Umanità, la stato di compattezza e unione dell’attore a questo livello e in questa testualizzazione si rivela ancora in via di assemblaggio e definizione.

Questo fatto è dimostrato dall’osservazione che la comunità internazionale non agisce come unico soggetto, e lo dimostra il testo stesso e la mesa in forma del suo agire: un soggetto avrebbe avuto un dovere di “operare”, portare a termine una performanza come singolarità autonoma. La sfumatura presente in questo punto ci rivela che di soggetto autonomo non si tratta: il dovere infatti è quello di “co-operare” e il piccolo prefisso è denso di informazioni semantiche sulla visione del mondo politico contemporaneo. La comunità internazionale è certamente manipolata e modalizzata secondo un unico dover-fare, dunque c’è una comune tensione soprattutto a livello di competenza passionale, ma la performanza è colta, aspettualizzata nella forma verbale come azione di sostegno ( a volte reciproco, più spesso unilaterale) di singole unità integrali. Il contributo di ciascuna soggettività nazionale è percepito semplicemente come allineato, orientato verso un comune scopo, quindi l’intera comunità internazionale è vista come una somma di piccole performanze.

I contorni del PN di cooperazione vengono precisati nell’articolo seguente dove la generica “protezione a livello internazionale del patrimonio” è resa disambiguata attraverso

l’espressione: “the establishment of a system of international cooperation and assistance designed to support States Parties to the Convention in their efforts to conserve and identify that heritage”. Quello che la WHC si propone di ottenere è l’istituzione di un complesso, una struttura stabile nel tempo e funzionante anche a distanza. L’altra isotopia principale accanto a quella della partecipazione e collaborazione è quella della solidità e robustezza del legame tra le unità partitive di cui è composto il sistema che si intende creare. Il testo inglese in cui si trova establishment più di quello francese (in cui c’è una forma più neutra mise en place) suggerisce l’idea della concretezza di questo atto, grazie alla presenza di tratti semantici che avvicinano il processo di costituzione e fondazione all’universo semantico dell’architettura degli edifici e dei basamenti (in fr. il lessema établissement avrebbero avuto la stessa sfumatura di senso, ma non viene attivata tale isotopia).

Ancora due notazioni possono essere fatte sulla natura di questo passo. La prima è che l’isotopia della collaborazione (azione congiunta di due o più attanti) è testualizzata in due modi: il primo e più neutro è la cooperation/coopération vera e propria azione paritaria (o non meglio specificata) di due soggetti coinvolti; la seconda è l’assistance ovvero l’intervento di un soggetto più competente o più dotato di mezzi rispetto ad un altro soggetto che si trova in situazione di svantaggio. Dunque sono previste e virtualizzate nel testo due modalità di interazioni tra le nazioni che si differenziano attraverso il grado minore o maggiore si simmetria nei rapporti di potere. La seconda osservazione riguarda il compito e l’impegno del singolo stato in quanto soggetto operatore: questo PN presente nel testo non è semplicemente la più scontata messa in opera di pratiche conservative (un tipo di azione più legata a interventi concreti) ma presuppone un’azione maggiormente cognitiva, che coinvolge soprattutto la competenza secondo il sapere: quella del riconoscimento, dell’identificazione di un oggetto a partire da conoscenze specifiche di natura prevalentemente scientifica.

Abbiamo detto come gli articoli della WHC siano centrati non esclusivamente ma prevalentemente sulla scala nazionale: in questo senso il trattato del 1972 ha senza dubbio una visione che potremmo dire ‘statocentrica’, dal momento che riflette la forza e rilievo delle nazioni nella vita politica mondiale piuttosto che insistere sui caratteri ‘transnazionali’. Il fatto che nella parte relativa alle disposizioni operative il vero ‘protagonista della storia’ non sia un’entità o una forma di soggettività di là da venire (l’Umanità o un’altra figura del discorso simile che richiami la dimensione ecumenica) ma sia ancora la nazione può apparire una contraddizione o quantomeno un fattore che sminuisce la portata innovativa del progetto utopistico-ecologista. In qualche modo parlare di un Patrimonio condiviso e comune a tutta l’Umanità ma poi ribadire l’appartenenza di ciascun elemento ad una cultura nazionale non fa che indirettamente rafforzare l’idea che più forte ancora dell’identità e dell’attribuzione di ampio respiro sia determinante quella della nazione da cui proviene.

In realtà il valore e il merito che si possono riconoscere a molte iniziative dell’UNESCO (e dell’ONU in generale) consistono esattamente nell’abilità a collocarsi in un panorama di realismo politico in cui le nazioni hanno ancora una rilevanza tale da determinare ogni decisione politica transnazionale ma con lo sguardo rivolto al futuro per immaginare progetti che agiscono

“come se” si potessero superare i confini nazionali. Dunque le pratiche concrete e i discorsi di questi soggetti politici si rivelano essere forme di “grandi narrazioni” che giocano sul confine del mondo reale e del simbolico, dell’immaginario politico. Quell’agire a cavallo tra situazione concreta e una proiezione del “mondo come vorremmo” è molto interessante per chi intende riflettere sulla politica internazionale in una prospettiva sociosemiotica.

Immaginare che il patrimonio culturale e naturale disperso in tutto il mondo possa appartenere ad un unico soggetto può sembrare un’idea troppo fittizia e costruita per risultare efficace. Siamo più inclini a pensare che le Piramidi appartengano all’Egitto o la Grande Muraglia alla Cina perché l’identità nazionale ha qualcosa più concreto, di più naturale ed immediato rispetto ad un’identità che fa appello al genere umano nella sua interezza. Eppure in entrambi i casi si tratta palesemente di una costruzione simbolica in cui la componente di immaginario gioca un ruolo di primo piano: si tratta sempre di un tentativo di costruire un’identità culturale, una “comunità immaginata”, anzi quella nazionale è la comunità immaginata per eccellenza come ci illustra Benedict Anderson (1991).

Il fatto che la comunità immaginata nazionale abbia una storia e una potenza più consolidata rispetto alla nascente comunità immaginata ecumenica non nega che in entrambi i casi ci si trovi a fronte di un senso di comunanza tra individui costruito prevalentemente attraverso i mezzi di comunicazione. Eppure si potrebbe obiettare che la differenza e la variazione interna tra i componenti individuali in una nazione di qualsiasi tipo è evidentemente meno ampia rispetto ai membri dell’intera umanità, per cui l’identità così estesa non regge e dimostra tutto il suo carattere fittizio. Le differenze insomma sarebbero più forti delle somiglianze tra tutti gli individui del mondo. Questo è vero solo parzialmente, dal momento che il problema è mal posto. Da un lato non possiamo che ammettere il carattere costruito e artefatto di un progetto come quello del Patrimonio dell’Umanità; dall’altro critichiamo, in totale accordo con le riflessioni anti-essenzialistiche sulle identità culturali, che esistano progetti di creazione di un patrimonio o di costruzione di un’identità che non siano costruiti.

E in questo senso ci ricolleghiamo a tutta la riflessione critica della Parte I, nella quale abbiamo esposto come ogni patrimonio non sia una semplice successione o passaggio di elementi o tradizioni, ma l’azione costante e volontaria di un soggetto dotato di uno scopo, una direzione, un modo di vedere il mondo. Come la trasmissione culturale non ha nulla di naturale, così non è semplice prerogativa di entità ben definite a livello identitario ma è anzi uno strumento e parte di una strategia della costruzione di un’identità precisa. Definendo i progetti patrimoniali come casi di conserv-azione (Parte I, capitolo 1 § 1), e delle pratiche di manipolazione sociale (Parte I, capitolo 1 § 3), abbiamo cercato proprio di mostrare come dietro a queste mosse strategiche ci sia la precisa volontà di un soggetto di crearsi, darsi una forma, articolare dei collegamenti e produrre effetti anche in una prospettiva futura.

5. 3. 2. Il disegno antropopoietico del progetto UNESCO

Il progetto di costruzione di un patrimonio mondiale da quanto abbiamo detto appare qualcosa di più della semplice collezione di beni culturali e naturali in pericolo: è infatti intimamente legato al processo di costruzione di una identità collettiva, di un soggetto unico. I due percorsi di

costruzione e definizione di un patrimonio e di un’identità universale procedono di pari passo e si rafforzano vicendevolmente dato che per esistere entrambi hanno bisogno di essere pensati, ‘allestiti’ attraverso l’immaginazione e l’ancoraggio alla dimensione concreta ed anche raccontati e comunicati.

Per riassumere in una parola questa pratica di creazione del soggetto Umanità abbiamo preso in prestito il termine “antropopoiesi” (dal greco anthropos, “uomo” e poien, “costruire”) da alcuni testi di antropologia culturale. Occorre precisare da subito il contesto dal quale riprendiamo questo concetto, ovvero l’uso che ne viene fatto in testi come La fabrication de l’humain dans les cultures et en anthropologie (Calame – Kilani 1999) o in un saggio come “Identità collettive come costruzioni dell’umano” (Borutti – Fabietti 1998). Vedremo come gli autori assegnino al vocabolo un senso sostanzialmente differente rispetto a quello che ci proponiamo di fare in questa sede.

Nell’introduzione del primo testo la nozione viene descritta come un’attività che viene messa in opera da tutte le comunità culturali (è la riflessione sulla propria immagine) ma anche dagli antropologi nel momento in cui vogliono delineare l’immagine di una cultura altra.

Il termine antropopoiesi, ‘fabbricazione dell’umano’ […] sottolinea bene questa idea di ‘fare’, di ‘costruire’, di ‘fabbricare’ gli esseri umani, o più precisamente dei modelli di esseri umani. Sottolinea ugualmente l’idea che la cultura è sia un processo (un modo di fare) e un risultato (un modello) e che con essa abbiamo sempre a che fare con una realtà ambigua che inganna l’inevitabilità e la sacralità del modello antropologico, proprio quello che è stato elaborato per costruire, modellare gli esseri umani (Calame – Kilani 1999: 7).

In questo senso c’è una consapevolezza di come il lavoro dell’homo anthropologicus che utilizza i metodi dell’etnografia per costruire modelli interpretativi su una comunità non si differenzi ma sia del tutto analogo al lavoro costante di autodescrizione in atto in ogni società: entrambi i casi condividono una natura “finzionale” e una corrispondenza non diretta con la realtà. Si tratta di un “come se” alla Wittegenstein, un’icona che fornisce un modo di organizzare il reale, una carta per l’azione. Il concetto di “antropopoiesi” è interessante perché si avvicina alla riflessione sociosemiotica di Landowski come l’abbiamo velocemente illustrata (nella Parte I, capitolo 2 § 3): tale visione etnografica è particolarmente attenta al carattere pragmatico, alle azioni e i discorsi che manipolano la visione dell’uomo. Attraverso il concetto di antropopoiesi in etenografia si enfatizza la dimensione costruita e profondamente culturale dell’esistenza collettiva ma anche del singolo essere umano in quanto animale profondamente sociale: i modelli, le immagini e le pratiche sociali che danno forma e aspetto al corpo individuale (si pensi al tatuaggio, alla circoncisione ma anche ai canoni di bellezza) non sono che un completamento inevitabile e irrinunciabile di quest’essere di per se stesso incompiuto.

Dunque riprendiamo questa prospettiva ‘poietica’ nella sua applicazione e riferimento ai modelli di società e identità che l’essere umano costruisce, lasciando da parte tutta la riflessione metaantropologica che si occupa di rivolgere uno sguardo critico al lavoro analitico e descrittivo degli etnografi stessi. Non solo le società producono dei modelli di se stesse, ma anche le indagini degli antropologi non pervengono alla verità dei fatti o ad un dato inalterato e genuino delle comunità: il loro risultato è sempre una costruzione, una produzione ed una manipolazione

delle società, dunque alterata da convinzioni, pregiudizi, semplificazioni ed esagerazioni di aspetti più piccoli.

Tali modelli rispondono ad una logica finzionale in cui è in gioco la capacità di scovare connessioni e differenze: Wittgenstein (1961: 325-61) la definisce come il “saper vedere qualcosa come fosse qualcosa d’altro”49. In un saggio sulle etnie Ugo Fabietti (2003) indica due strade per la costruzione dell’umano: la prima è la produzione dell’individuo sociale (attraverso riti, trasmissioni di sapere, pratiche sul corpo) mentre la seconda è l’attribuzione di una qualche forma di identità al gruppo inteso come un ‘Sé’ collettivo. Questo punto è molto importante per la nostra riflessione sul patrimonio. Quel che Fabietti ci dice è che il primo passo per la costruzione di un gruppo sociale, di una identità collettiva è rappresentato dall’azione semiotica più semplice: quella di “segnare”, attribuire un senso distintivo a qualcosa.

Quelle pratiche e riti di iniziazione attraverso i quali i giovani di ogni appartenenza culturale diventano membri integrati e “veri esseri umani”, consistono in numerosissimi casi in riti di passaggio che li trasformano quasi da “esseri naturali” in “esseri culturali”. Questa trasformazione sovente avviene proprio attraverso un atto semiotico semplice come un’incisione sulla pelle, una qualche forma di scrittura del corpo individuale attraverso il linguaggio della società. Oppure il rito di passaggio corrisponde ad una prova che in ogni caso trasforma, segna, traccia un prima e un dopo nell’esistenza di un singolo: attraversare una foresta con mille insidie, sfidare una belva, esibirsi in uno spettacolo o una gara in presenza dell’intera collettività, dimostrare delle competenze ed essere giudicato da un sanzionatore.

In tutti questi casi, quel che rileviamo alla base della costruzione dell’essere umano è la segmentazione di una linea di discontinuità tra due elementi: a livello personale il rito di passaggio traccia un margine netto tra un prima e un dopo (e chi non supera questa prova non è integrato nella comunità), a livello collettivo la linea distintiva è proprio un confine fisico o simbolico tra “noi” e “loro”. La nostra comunità è quella che si trova all’interno di determinati confini geografici, oppure che si riconosce simbolicamente nella fede e nell’identificazione di un totem, un’icona, un elemento dell’immaginario.

Fabietti indaga sulla costruzione di appartenenze etniche e sul meccanismo alla base della distinzione tra gruppi sociali che si percepiscono come corpi sociali distinti e caratterizzati da una identità forte e quasi naturalmente determinata. La peculiarità di un progetto antropopoietico come quello dell’UNESCO è che apparentemente l’identità collettiva è creata solo per aggregazione ed inclusione delle componenti di scala inferiore, senza il consueto meccanismo di esclusione e di creazione di una frontiera che lascia fuori e non ammette degli elementi: non viene marcata la differenziazione e lo scarto rispetto ad un’identità altra, ma tutte le frontiere sembrano fagocitate da quella grande macrocategoria onnicomprensiva che è l’Umanità.

In questo senso sembra completamente opposta rispetto alla costruzione di una identità etnica in cui è il locale, lo specifico ethnos a stabilire un confine: Fabietti mostra infatti come

49 Da rilevare la somiglianza con il concetto di abduzione descritto da Charles S. Peirce (1955: 150-56): vedere

attraverso dei come se non è un’induzione generalizzante a partire dai dati, né una deduzione a partire da un calcolo formale. È piuttosto un vedere un modello, un’icona, un come se si impone mentre fornisce un’organizzazione ai dati.

spesso grazie nell’appello alla parentela biologica di molti soggetti che rivendicano un’appartenenza etnica la condivisione di elementi ‘naturali’ e monolitici sia ostentata senza essere messa in discussione, secondo una autoevidenza difficile da contraddire. In realtà un’analogia di fondo tra i due fenomeni apparentemente così diversi esiste e risiede nel fatto che qualsiasi processo di fabbricazione dell’umano abbia bisogno che una tradizione, un senso di identità venga trasmessa e riprodotta attraverso la memoria sociale, una qualche forma di trasmissione di contenuti materiali e immateriali.

Come rileva Lévi Strauss (2005) l’idea di un’Umanità estesa a tutti i popoli della terra e fondata su un patrimonio comune marca un inedito cambio di prospettiva rispetto all’antichità, quando la diversità, l’identità distante dalla propria che veniva palesata come un idioma