2 3 Il patrimonio come fenomeno sociosemiotico
3. I L PATRIMONIO CULTURALE COME OGGETTO DI SEMIOTICA DELLA CULTURA
3.3. Il Patrimonio dell’Umanità come progetto di universalismo
A prima vista l’iscrizione nella Lista dei beni materiali o immateriali protetti dall’UNESCO non appare come momento di ‘catastrofe’ e particolare trasformazione del destino conservativo degli oggetti. Una volta ottenuto un riconoscimento dell’UNESCO che è poco più che formale e definitorio, cosa accade realmente alla vita dei beni culturali inclusi nella Lista? In che misura escono trasformati da questa sanzione che dovrebbe renderli non più patrimonio di una cultura
39 In questo senso più che la semiosfera di Lotman potrebbe sembrare più indicata l’idea di Michail Bacthin (1975:
20) della sfera culturale come qualcosa che “non ha territorio interno, ma è tutta disposta ai confini, che passano dappertutto: ogni atto culturale vive essenzialmente di confini”.
locale e spazialmente delimitata ma Patrimonio del mondo, dell’Umanità nella sua interezza senza distinzioni di nazionalità?
Nel caso di siti naturali e monumenti, immobili e non trasferibili, appare con evidenza come ci sia una continuità nell’ancoraggio forte a una cultura, ad una identità geograficamente fondata e prima ancora di tutto questo ad un luogo. L’inclusione di un sito naturale nella Lista non lo avvicina fisicamente al resto dell’Umanità, non lo rende maggiormente accessibile ai membri di comunità culturali distanti dal luogo in cui si trova. Ma la stessa cosa si può dire anche di balli, riti, elementi culturali intangibili che come tali possono essere trasferiti di luogo: la loro proclamazione come tesori e risorse del mondo intero sembra non modificare il fatto che questi elementi rimangono ancorati al loro retroterra, che con un movimento strategico non fa che assorbire in parte la retorica in parte le sanzioni di un’istituzione internazionale.
L’idea di semiosfera e il modello lotmaniano riescono a cogliere la complessità di un progetto tutto giocato attraverso strategie universalizzanti da parte di un’istituzione che mira ad ottenere un’immagine politica più coesa per i popoli del mondo? Chi assimila cosa? E in che modo? Dove avvengono, se avvengono le dinamiche e le trasformazioni degli elementi appartenenti ad un sistema culturale che dovrebbero acquisire uno status e un riconoscimento sovra-sistemico?
Ci sembra che la risposta vada cercata a livello metadiscorsivo. Come detto intendiamo sostenere con questa ricerca che le Convenzioni e l’intera elaborazione del progetto del Patrimonio dell’Umanità rappresentino uno spazio di “autoritratto” della confederazione degli stati membri dell’UNESCO. Come in una foto di famiglia, l’accostamento di differenti persone in uno stesso luogo fisico in un dato momento produce per l’eternità l’immagine di un gruppo unico, caratterizzato da una certa unità. È quella che chiameremo una strategia di costruzione di un attore collettivo dato che i simulacri dei differenti stati, delle differenti culture, così avvicinati e raccolti servono a creare l’immagine, la rappresentazione simbolica di un unico grande gruppo, che corrisponde alla totalità delle culture dell’Umanità.
Questa metafora fotografica non tragga in inganno: il progetto del Patrimonio dell’Umanità più che rappresentare un soggetto politico già esistente nella realtà è utile e si prefigge proprio di costruirlo quasi ex nihilo. In questo consiste la parte più ambiziosa del progetto. I testi delle Convenzioni e le istituzioni che istituiscono rappresentanp il luogo di costruzione e discussione in cui le culture pensano se stese e il loro rapporto con le altre. La necessità di un simile spazio di metarappresentazione sorge in ogni semiosfera nel momento in cui l’autosviluppo porti la varietà e diversità a minacciare l'unicità del sistema stesso.
Quando cioè l’eterogeneità (cifra dominante di un progetto che mira ad includere idealmente tutte le culture) diventa eccessivamente alta, per evitare il rischio di collasso sotto le spinte centrifughe dei diversi elementi, qualsiasi sistema ha bisogno di dotarsi di un elemento unificatore, un sistema di “traduzione universale” che abbia per fine il mantenimento e l’omeostasi della cultura.
Per spiegarlo ci aiuteremo con le osservazioni di uno degli studiosi che ha riflettuto più a lungo sui testi lotmaniani e che da anni si occupa di semiotica della cultura, Göran Sonesson.
Come spiega in numerosi testi (tra gli altri 1998; 1999), la lezione della scuola di Tartu non riguarda la cultura in sé ma il modello che i membri di una data cultura elaborano e utilizzano per pensare alla propria comunità di appartenenza. Le riflessioni sulle tipologizzazioni della cultura, come le dinamiche culturali esplosive e le evoluzioni della semiosfera sono incentrate principalmente sui modelli interpretativi che una determinata cultura elabora sulle sue relazioni con altre culture.
Questa chiarificazione ci aiuta a comprendere meglio il valore di un tipo di riflessione che si contrappone fortemente a qualsiasi tipo di ontologizzazione. Tant’è vero che i contemporanei riferimenti alla “società globale”, “cultura occidentale” ma anche ai “terroristi” nel dibattito politico internazionale successivo all’11 settembre non sono altro che modelli creati da chi vive all’interno di una società con lo scopo di renderne conto della propria natura o identità e contrapporla ad altre. Ciascun modello culturale implica costitutivamente un’opposizione ad altri modelli differenti nello spazio e tempo: ad esempio la “cultura occidentale” si contrappone a un non meglio precisato “Oriente” mentre la “società globale” si contrappone ad altri modelli cronologicamene anteriori come la “società medievale”.
Sonesson enfatizza come sia già forte in Lotman un idea della “riflessività” dei modelli culturali, uno dei principi cardine della sociosemiotica di Landowski. Di certo un determinato modello elaborato da una cultura è un segno che possiede carattere più o meno iconico a seconda dei legami con il mondo che pretende di descrivere. Ma non è mai una pura e semplice immagine di quella realtà e anzi ha effetti reali sulla vita di una società: si noti che una rappresentazione della società, un’immagine proposta attraverso un discorso informativo o politico diventa al tempo stesso bagaglio di una data cultura ma anche una causa efficace che plasma una società e le imprime una forma. In fondo il nostro agire sociale come individui si conforma all’immagine, al modello che possediamo della nostra società e del mondo.
È questo il punto che maggiormente ci interessa della teoria di Lotman: il fatto che nelle culture esistano forme di autodescrizione che eleggano un elemento fra i tanti del campo storico- sociale a principio ispiratore e di orientamento, è causa di una riconfigurazione della visione globale dell’intero panorama a partire da uno specifico punto di vista. Ci sembra che qualcosa di analogo sia alla base del funzionamento delle Convenzioni sui beni culturali e naturali dell’UNESCO, soggetto che desidera promuovere un cambiamento politico a livello internazionale. In quale modo? Attraverso la costruzione simbolica di un modello, un’immagine del mondo in quanto abitato da una molteplicità di gruppi sociali, tutti quanti parte della stessa grande famiglia: quella dell’Umanità.
La cosa può apparire banale tanto è forte il modello proposto, lo stereotipo ormai cristallizzato e accettato come dominante; tuttavia il suo carattere convincente (e volendo eticamente apprezzabile) non deve nascondere in nulla il fatto che si tratta di un modello sociale, di un bozzetto che tenta di dar forma a una semiosfera. Siamo talmente disposti ad accettare questa descrizione, questa figurativizzazione della complessità del mondo che quasi dimentichiamo come si tratti di una riduzione, una figura metaforica e una costruzione di un discorso sul mondo.
Non vogliamo in questa sede mettere in discussione questa prospettiva e questo modo di inquadrare le cose: la semiotica non si occupa di verificare la corrispondenza tra le immagini e le rappresentazioni del mondo da un lato e la verità o la realtà dall’altro. Indaga piuttosto il modo in cui i discorsi e le rappresentazioni donino una forma, ed abbiano la capacità poietica di plasmare i soggetti e le loro interazioni. Quando il World Heritage Comitee si esprime, giudica, sanziona e prende provvedimenti a nome di tutta l’Umanità o riconosce valore di universalità a beni culturali specifici pragmaticamente sta sfruttando la legittimità derivata dall’essere un apparato dell’ONU per aiutare il processo di conservazione di quel bene. Ma verrebbe da dire che questo, nell’idea ispiratrice dell’UNESCO altro non è che un programma narrativo d’uso e secondario del soggetto il cui programma di base, il suo scopo principale consiste nel far credere che l’Umanità come soggetto esista veramente.
Torneremo ovviamente nella Parte II su questo punto ma dovrebbe risultare chiaro come il modello lotmaniano ci aiuti a pensare a questo gioco di costruzione dell’identità dell’Umanità. La costruzione di una memoria collettiva e di un patrimonio fatto di beni concreti ma anche pratiche come balli, tradizioni, ecc. è un’azione volta alla costruzione di un’identità, di una soggettività o di una semiosfera ancora vuota, da riempire di contenuti e forme precise.
Nel processo di costruzione delle identità c’è sempre questo passaggio di “invenzione della tradizione” (cfr. Hobsbawm – Ranger 1983), ovvero la necessità di scegliere dei simboli e dei racconti stabili per rafforzare il senso di appartenenza. Nella società contemporanea abbiamo numerosi esempi di sottosistemi, collettività che si dichiarano “sistemi”, “semiosfere” autonoma rivendicando un’eredità ancorata nel passato o dei confini (fisici e simbolici) spesso molto marcati, per i quali si dicono pronti a combattere con l’uso della forza. Nel caso del Patrimonio dell’Umanità parlare di un sottoinsieme, di una collettività appare forse fuori luogo proprio per la vocazione univeralistica del progetto che abbraccia tutti i componenti della specie umana. Ma il punto di legittimazione del progetto è esattamente l’obiettivo e lo scopo che si deve raggiunge: a tale proposito parleremo di un progetto di costruzione dell’immagine dell’essere umano, di un progetto di “antropopoiesi”.
Anticipando brevemente diremo che il progetto di costruzione di una simile semiosfera potrebbe essere quello di provocare un’esplosione, un cambiamento sostanziale in tutte le culture e in tutti i gruppi culturali. Tale esplosione non ha intenzione di annullare i confini di ogni cultura, di ogni semiosfera ma al contrario partire da quelli per valorizzarli come punto di incontro e dialogo con le altre culture. In buona sostanza il modello canonico della semiosfera come opposizione tra una cultura egocentrata che percepisce l’esterno come caos e natura era validissimo per descrivere un tipo di situazione ad esempio in cui gli stati nazionali dovevano enfatizzare le loro specificità e identità.
Nella situazione attuale di interconnessione tra aree del mondo e comunicazione tra culture e tradizioni diverese Sonesson (1999) propone di rivedere ed estendere il modello lotmaniano per comprendere meglio fenomeni sociali come la globalizzazione e l’incontro ravvicinato e prolungato con l’alterità. Ciascun soggetto è sempre maggiormente in grado di conoscere e interagire con una cultura differente da quella di appartenenza; anzi gli è possibile
attraversare e fare propri elementi di questa molteplicità di semiosfere attraverso una riconfigurazione personale. Conoscere una cultura differente dalla propria non si accompagna necessariamente ad attribuire a questa caratteri di “naturalità”, caos, totale incomprensibilità. È così che le manifestazioni espressive come modi di fare, romanzi, tradizioni culinarie di questa cultura altra possono essere riconosciuti come altrettanti testi di quella che è una Extra-Cultura.
La distinzione e il confine tra ciò che è riferibile alla Cultura o alla Extra-Cultura è ovviamente tutt’altro che rigido e impermeabile ma si configura come un problema di scala di semiotizzazione dei testi. I testi riconosciuti come propri, interiorizzati, e ai quali è assegnato un senso preciso, fanno parte della Cultura, articolata in centro e periferia a seconda della rilevanza sociale. Quelli dei quali si riconosce il carattere di testi ma non vi è un’adesione identitaria fanno parte dell’Extra-Cultura; mentre i non-testi sono quelli che per mancanza di comprensione e conoscenza risiedono in una zona talmente remota e distante che da vedere negato persino il loro carattere culturale40.
Il progetto dell’UNESCO di un Patrimonio culturale definisce quelli che sono i ‘testi’ prescelti per rappresentare, dare l’immagine di una Cultura dell’Umanità intera. La premessa logica a questo tipo di progetto sembra essere che nonostante le differenze tra culture diverse si possano trovare tratti comuni, esempi e casi di ‘testi’ che mettano d’accordo tutti e agevolino la comprensione e comunicazione tra popoli diversi. Ma soprattutto anche i testi che non rientrano nella propria cultura particolare godano di una dignità tale per cui non siano da considerare non- testi ma semplici casi di una cultura differente, esteriore ai propri confini.
Il vantaggio analitico di una teoria semiotica interamente focalizzata sul tema della cultura quale quella di Lotman, consiste proprio nel consentire, come rileva Sedda (2004: 231), di legare in modo vicendevole le pratiche ed i testi più minuti ai grandi sommovimenti della storia. In questa prospettiva sarà più semplice inquadrare la globalità e mondialità dei fenomeni non come un fatto, un dato depositato negli eventi storici e sociali contemporanei ma come una descrizione, una tipologia della cultura.