2 3 Il patrimonio come fenomeno sociosemiotico
3. I L PATRIMONIO CULTURALE COME OGGETTO DI SEMIOTICA DELLA CULTURA
3.4. La traduzione della tradizione in una prospettiva ‘glocale’
Come ricorda Sedda (2004: 231), la teoria lotmaniana “ha alla sua base l’elaborazione di strumenti per la spiegazione del rapporto tra culture […] e per l’indagine interrelata dei sistemi culturali e del senso dei processi che attraversando questi sistemi li trasformano e così’ facendo costituiscono il ‘reale’”.
Nella vita contemporanea il confronto con sistemi di significazione differenti, il rapporto con l’altro, con le descrizioni ed i racconti sulla realtà ci costringono quasi quotidianamente a relativizzare, se non mettere in discussione le presunzioni di assolutezza e universalità che la nostra prospettiva può portarci a maturare. Tale eterogeneità e molteplicità di approcci è in realtà un principio strutturale alla base di ogni meccanismo culturale ed una condizione diffusa nel
40 In un certo senso quest’ultimo caso della Non Cultura può essere letto come la materia amorfa, il continuum
indistinto (di espressione e contenuto in forma magmatica) che attende di essere semiotizzato, illuminato e abbracciato dalla Cultura. Dunque il rapporto tra cultura e non cultura può essere letto in chiave tensiva.
mondo di confronto contino tra differenze e alterità non fa altro che alimentare il continuo movimento di autocoscienza che ciascuna cultura ha della propria specificità.
Nei luoghi e nei momenti in cui le culture differenti entrano maggiormente in contatto e in dialogo le dinamiche che Lotman studia appaiono in modo più evidente; le zone di confronto- raffronto sono spesso geograficamente quelle collocate sul confine tra diverse aree culturali, mentre i momenti più critici sono quelli in cui diverse nazioni, diverse etnie si trovano a collaborare o a combattersi. Il caso delle grandi organizzazioni internazionali e delle iniziative da loro promosse sembra esattamente un esempio di luogo fisico ma anche simbolico in cui l’eterogeneità culturale appare con particolare chiarezza. Dunque uno dei casi più interessanti di analisi.
Dato che l’essenza dicotomica della cultura ‘per se’ deve presentarsi come un tutto unitario (questa è una conseguenza necessaria dell’esistenza della cultura), viene sottolineata con forza l’importanza delle autodescrizioni. La differenza essenziale tra l’evoluzione culturale e l’evoluzione naturale sta nel ruolo attivo delle autodescrizioni, nell’influenza esercitata sull’oggetto dalle rappresentazioni dello stesso. Questa influenza potrebbe, in senso lato, essere definita come il fattore soggettivo dell’evoluzione della cultura (Lotman 2006: 152).
Una situazione di confronto culturale come quella promossa dall’UNESCO, in cui confluiscono gli apporti di diverse nazioni, lingue e culture, ci sembra un oggetto di studio ottimale per una indagine sulle autodescrizioni che la comunità internazionale fa della situazione attuale. L’intento è quello di osservare in che modo una pluralità di soggetti contribuisca a creare un’immagine originale ed efficiente della totalità delle nazioni attraverso dei testi, dei discorsi veri e propri: i temi, le valorizzazioni, la messa in discorso dei temi di politica internazionale diventeranno rilevanti soprattutto perché il testo in esame ha la vocazione di produrre effetti concreti.
Come afferma Lotman (ibidem) lo sviluppo dinamico di una cultura è possibile attraverso due modalità principali: la prima consiste nell’ingresso e nell’azione di forze esterne all’interno di un contesto che è spinto così ad adattarsi e trasformarsi; il secondo consiste nella produzione all’interno di un contesto di una autodescrizione originale, inedita che sia in grado di modificare attivamente la struttura e i contenuti per così dire dall’interno. I testi dell’UNESCO ci sembrano un esempio di questa seconda tipologia di fenomeni che promuovono il cambiamento culturale, in questo caso a livello mondiale.
In questo senso ci sembrano illuminanti le osservazioni di Franciscu Sedda (2004) in merito al fenomeno della “glocalizzazione”, termine con il quale Roland Robertson ha cercato di gettar luce sulle dinamiche sociali mondiali che hanno portato ad una coscienza del mondo- come-un-tutto e una complessa tensione fra omogeneizzazione e differenziazione culturale. Il termine, rispetto al più diffuso “globalizzazione”, tende a concentrare maggiormente l’attenzione sulle interazioni e i nessi tra la dimensione microsociale (il local, da locality) e quella macrosociale (il global, dal globality). I sociologi Roland Robertson e Kathleen White (2004: 14) lamentano il fatto che il dibattito sulla globalizzazione abbia creato falsi miti, tra i quali il principale è che nella nostra era assistiamo ad un netto scavalcamento e quasi una scomparsa del
locale; pochi tentativi sono stati fatti di mettere in relazione il dibattito su spazio e tempo con la questione del particolarismo e universalismo.
Partendo dall’osservazione che la relazione tra globale (forze che riguardano tutto il mondo) e locale (forze limitate ad aree circoscritte del pianeta) non costituisce un fatto esclusivo della seconda metà del XX secolo (dunque è un problema falsamente moderno o postmoderno), i due autori sostengono che il rinnovato interesse per il locale e il particolare è oggi un aspetto delle ondate della globalizzazione. La narrazione o la metanarrazione della globalizzazione (come espansione di modelli economici, culturali, sociali occidentali) non sta producendo come esito una distruzione delle varie homes, ‘case’ locali e specifiche nel mondo. Al contrario questo racconto, modello ha favorito il ri-nascere, il rafforzarsi di molte manifestazioni del locale, delle comunità particolari e di quelle ‘case’.
Sono considerati ingenui gli osservatori della politica mondiale che oppongono “tribalismo” a “globalismo” come fossero forze contrarie e che si escludono mutuamente (cfr. Barber 1992): il locale è chiaramente incluso nel globale
La globalizzazione, definita nel suo senso più generale come la compressione del mondo nel suo insieme e in un tutto e come crescita della coscienza globale, implica l’interrelazione tra località. Ma implica anche l’‘invenzione’ del locale, nello stesso senso generale dell’idea di invenzione della tradizione (Hobsbawm e Ranger 1983), nonché della sua ‘immaginazione’ (Anderson 1991) (Robertson – White 2004: 25).
Ecco quindi che risulterà chiaro come le forme di descrizione della situazione mondiale non siano altro che categorie, immagini, “forme del mondo” (cfr. Sedda 2005), che colgono la complessità secondo una certa ottica, a partire da una determinata prospettiva, base. Etichette e categorie come quelle di “globalizzazione”, “glocalizzazione” o “patrimonio culturale mondiale” condividono una medesima vocazione universale: chi le utilizza estende ad una molteplicità di fenomeni e manifestazioni un unico modello, tipologia, steoreotipo considerato valido. Tutte e tre le categorie tendono a cogliere un panorama culturale e sociale eteromorfo e disomogeneo attraverso un principio o una tendenza generalizzante, funzionano da “connettori” attraverso un tema portante.
Per Tomlison (1999) la globalizzazione è appunto una connettività complessa che caratterizza il mondo attraverso un ‘infittimento’ delle connessioni e dei nessi tra aree e settori diversi. Osserva inoltre come nel processo di edificazione di una “cultura globale” l’astrazione necessaria al concetto per recuperare tutta la sua unitarietà abbia allontanato questa cultura dal suo fondamento fenomenologico, dal suo possibile radicarsi e farsi significativa nel rapporto con la concretezza della quotidianità.
Si tratta in questi casi di forme di autodescrizione particolari che promuovono un elemento tra tanti, un processo, un soggetto tra molti che popolano il campo sociale ad elemento cardine, principio ispiratore e preminente in grado di fornire sistematicità e struttura ad un panorama privo di questa sistematicità e ordine. A tal proposito Sedda ricorda quanto segue:
Un sottosistema si dichiara (in quanto ha il potere per farlo) o viene dichiarato (in quanto è utile farlo) “sistema” in modo da riuscire ad agire effettivamente in quanto tale: per
raggiungere il suo scopo tuttavia egli deve parlare a nome della totalità, a nome di tutti – dell’umanità ad es. – sperando di esser creduto. Per rafforzare l’efficacia di questa sua azione esso deve produrre delle narrazioni che siano conformi a questo ruolo che vuole rivestire, quello in cui da soggetto situato esso si eleva nella condizione di essere – incarnare o rappresentare – il tutto (Sedda 2005b: 26).
Le parole di Sedda ci sembrano già esplicative e immediatamente riferibili al nostro caso di analisi della costruzione di un patrimonio culturale dell’Umanità: il soggetto responsabile del progetto, l’UNESCO, produce un racconto e un discorso a partire da una prospettiva necessariamente di parte mascherandoli come discorsi che hanno una legittimità universale, si rivolgono al mondo e parlano in suo nome. La produzione di testi e discorsi è necessaria al soggetto a vocazione universale per esistere e incarnare la globalità: attraverso la presa di parola, l’enunciazione e la creazione di simboli il soggetto anticipa in qualche modo la sua esistenza.
È comunque attraverso la descrizione/definizione di sé (a costruzione di un metalivello che dà “organizzazione”) che una porzione della materia culturale, e tramite essa un determinato collettivo sociale, perviene a esistenza (“visibilità”) o rafforza la sua presenza come tale. È cioè attraverso la produzione di narrazioni (oggetti culturali) che sanciscono e divengono la memoria comune di un collettivo che questo, pagando il prezzo di una riduzione di eterogeneità, acquisisce tratti di “realtà” e “unità” che ne facilitano l’auto-riconoscimento e il riconoscimento dall’esterno (Sedda 2004: 236).
Nel nostro caso rileviamo come la coscienza di globalità che ha portato alla affermazione dell’umanità come soggetto del campo storico e sociale si basi su una decisiva circolarità aporetica. Il progetto si basa sulla proiezione e anticipazione immaginativa globalizzante e un continuo ripiegamento riflessivo e performativo su di sé: è importante per l’analisi riconoscere su quali basi e a partire da quale situazione di enunciazione si sviluppi un progetto globalizzante. Tale passaggio si configura come un recupero della dimensione situata, dell’origine radicata in uno spazio-tempo di un progetto che si descrive come universale, non situato e riferibile ad uno spazio illimitato.
L’ipotesi forte di Sedda è che ogni formazione semiotica, tutti gli oggetti di senso sono il risultato e l’esito di un’enunciazione da parte di un soggetto che non può che essere locale, definito da uno spazio preciso e da un tempo preciso ma, e questo è il punto rilevante, al contempo questi oggetti costruiscono un enunciato-spazio potenzialmente globale. È sempre all’interno e dall’interno della semiosfera che sotto forma di testi e discorsi si producono quei metatesti, quelle autorappresentazioni che figurativizzano, sanciscono spazi, memorie e pratiche che talvolta saranno etichettate come “locali”, altre volte come “globali”.
La globalità non è solo e semplicemente un fatto che si ritrova nella realtà, un fenomeno osservabile che ha portata trans-locale. Esiste anche come metalivello. Se accettiamo la definizione di testo come “località” della cultura, una produzione particolare rispetto al macrolivello “globale” rappresentato dalla cultura nella sua complessità, alcuni testi si rivelano rappresentazioni che costruiscono il piano della globalità. La globalità in questa dimensione sarà un effetto di senso, costruito attraverso una strategia di ‘allestimento narrativo’ fatta di spazi, soggetti e tempi etichettati come globali.
la semiosfera come è descritta da Lotman non è fatta di spazi circoscritti ma è intessuta di flussi di testi che ne sono le correnti – non a caso tornano spesso la metafora dei dislivelli energetici, delle differenze di potenziale, di processi di attrazione e repulsione – pronte a entrare in relazione con altri flussi e altri panorami essenzialmente imprevedibili, generando dialoghi, intersezioni, ondate, effetti a valanga, esplosioni (Sedda 2006b: 24).
In questo flusso di correnti, c’è un dialogo continuo tra elementi che promuovono la fluidità e la trasformazione delle forme semiotiche e addensamenti, concrezioni segniche che promuovono invece la strutturazione e la statisticità degli elementi. Esistono infatti all’interno di ogni cultura istituzioni, luoghi, soggetti che tendono maggiormente a rendere dinamiche le forme culturali ed istituzioni, soggetti, ambiti in cui la canonizzazione e la fissazione delle forme appare preminente. Tra questi soggetti ‘stabilizzanti’ ci sono numerosi attori sociali che enfatizzano il ruolo della memoria culturale e il patrimonio, proprio come il progetto dell’UNESCO41.
Il progetto di conservazione del patrimonio e della memoria culturale di molti popoli del mondo appare come un meccanismo stabilizzante perché concentra le proprie risorse (di attenzione, di forse, economiche) verso il mantenimento di tracce del passato, di monumenti, riti, tradizioni che solitamente siamo abituati a considerare elementi che stanno alle nostre spalle. La prospettiva che invece propone la semiotica della cultura è sostanzialmente opposta e si ricollega alle osservazioni degli heritage studies (che abbiamo visto nel capitolo 1): il passato non scompare e non è un complesso di elementi dati una volta per tutte che si dissolve nell’oblio oppure va salvato come un tesoro. La cultura intrattiene con la memoria e il passato una relazione produttiva e dinamica; non si tratta di una temporalità che scorre in modo lineare e dominata dal nesso causa-effetto bensì da un lavorio continuo di manipolazione, trasformazione e continua traduzione tra ambiti.
In qualsiasi progetto di recupero del passato, di salvaguardia e difesa di una tradizione, non siamo mai di fronte all’accesso diretto all’autentico e al valore originario, ma ad un porocesso di ri-costruzione a posteriori: “l’oggetto ritrovato viene contemporaneamente ricostruito e sancito come ‘tradizione’, come patrimonio dato e da conservare” (Sedda 2003: 301). Il passato, la memoria, l’autentico non può essere salvato semplicemente, come già abbiamo visto in Clifford: non può darsi salvataggio di qualcosa senza che non vi sia anche in parte una produzione, un atto creativo del soggetto che si occupa di tale azione (come è vero il contrario: ogni atto creatore ed innovativo si aggancia o fa riferimento ad uno sfondo di tradizione).
In questo senso Sedda parla di una “traduzione della tradizione”: non si può eliminare mai nell’atto di conservazione di una tradizione quel fondo costruttivo, creativo e di orginalità che è proprio della traduzione (cfr. Eco 200). Il traduttore non è mai un meccanismo neutro di trasposizione di elementi da un linguaggio all’altro, ma è un soggetto anch’esso situato e dotato di competenze, sentimenti, credenze sui due linguaggi e culture che stanno dietro i testi.
41 Non ripeteremo che questo carattere stabilizzante nei confronti delle forme culturali (ovvero la fissazione e difesa
dell’esistente) si adatta solo al livello dei singoli oggetti culturali mentre ad un livello più alto l’UNESCO si propone esattamente di produrre un cambiamento, una svolta nei rapporti internazionali tra la popolazione.
Così la memoria e la trasformazione della stessa si toccano e si richiedono a vicenda. La memoria e la tradizione divengono ambiti privilegiati in cui una società pensa a se stessa, produce narrazioni (ambientate nel passato, ma rivolte al futuro) di come si vede, di come guarda al passato, di com’era o come sarebbe voluta essere. Quel che Sedda ci chiarisce è che questo lavoro sul materiale e sugli elementi del passato non lascia inalterato il rapporto con il futuro, la visione prospettica che una società ha di se stessa.
L’autenticità consiste non tanto nella fedeltà ad un passato ormai divenuto inacessibile ma piuttosto dal sentimento nei confronti del tempo, del presente ma anche del futuro. La citazione di Jean Marie Tjibaou, un leader politico del popolo dei kanak, che riporta in un suo saggio ci aiuta a comprendere meglio questo passaggio:
Il ritorno alla tradizione è un mito (…) nessun popolo l’ha mai vissuto. Per me la ricerca dell’identità e del modello è davanti, mai dietro. E direi che la nostra lotta attuale è finalizzata a poter mettere il maggior numero possibile di elementi appartenenti al nostro passato, alla nostra cultura nella costruzione del modello d’uomo e di società che noi vogliamo per l’edificazione della nostra polis. La nostra identità è davanti a noi (cit. in Sedda 2006).
Ogni tentativo di ritorno al passato, programmaticamente mirato verso uno scopo particolare, produce sempre una trasformazione di ciò che vorrebbe recuperare: lo ritraduce aggiungendo o togliendo delle cose. Il rischio di “tradire la tradizione” è poco pertinente data questa assoluta plasticità dei materiali del passato, soprattutto data l’inevitabilità del tradimento. Un meccanismo come quello patrimoniale che si occupa di conservare tracce, oggetti e ricordi del passato ha come scopo quello di “far essere presente”, è un procedimento attivo che è anche rivolto verso un qualche progetto del futuro. Ed è facile notarlo nelle espressioni e nell’idea generale che vede il patrimonio come “insieme di beni da preservare per le giovani generazioni”.
Il passato, le tradizioni non sono mai dei dati che possiamo accogliere come cristallizzati e in grado di autoperpetuarsi: hanno bisogno di essere trasmessi per sopravvivere e non possono che essere il frutto della pratica creativa di qualche soggetto. Il passato e la memoria culturale ad esso legata non sono mai semplici sopravvivenze, che in modo oggettivo e neutro passano da un tempo all’altro ma il contatto e la trasformazione ad opera di una soggettività (individuale o collettiva) li impregna di una particolare visione del mondo, li plasma in base ad un immaginario più o meno definito.
Il soggetto agisce continuamente e da forma all’eredità o il patrimonio che sente come proprio, riadattandolo al presente. L’operazione che svolge rispetto ad un insieme di contenuti è simile alla pratica traduttiva cosicché un testo sociale che si occupa di patrimonio sarà doppiamente una traduzione, oltre che una riflessione su una riflessione, come abbiamo già detto.
La traduzione […] va considerata come uno spazio, un piano, in comune su cui in un dato momento due o più soggetti si appoggiano per confrontarsi […]. Entrandovi ne subiscono le costrizioni ma col vantaggio di poter entrare in comunicazione con gli altri; entrandovi vi prendono posizione, lo abitano e lo distorcono ognuno a suo modo.
Lotman ha speso descritto in un senso similare a questo il ruolo funzionale dei
metalinguaggi, non intendendo però con ciò le sole lingue scientifiche ma qualsiasi prodotto
umano che generi la correlazione di due o più sistemi di senso. […] Si potrebbe pensare a quei metalinguaggi fondamentali nella semiosi sociale che sono le costituzioni (e così pure i trattati sovranazionali, gli accordi bilaterali o commerciali ecc.) che forniscono il parametro e lo spazio di gioco (più o meno condiviso) per le parti politiche e sociali di un dato ambito e in un dato momento: terreno di incontro e scontro, terreno di riferimento (Sedda 2006b : 34- 35).
Il progetto dell’UNESCO trova corpo oltre che nei beni concreti nei testi delle Convenzioni e nei discorsi sociali dell’attore sociale responsabile. In questo senso ci accingiamo ad analizzare proprio dei trattati sovranazionali come esempi illustri di metalinguaggi fondamentali per una collettività. Lo sguardo che rivolgeremo a questi testi eccellenti sarà uno sguardo semiotico esattamente alla ricerca delle tracce di quel ‘gioco’ tra parti, di quelle dinamiche collaborative e competitive tipiche di questi spazi virtuali.