6. 4. 1. La conservazione dell’immaterialità
I contenuti della IHC del 2003 sono dunque un’occasione per vedere in che modo una identica istanza di enunciazione mette in discussione il concetto di patrimonio che aveva elaborato in un testo precedente: l’operazione complessiva è al tempo stesso di arricchimento e superamento della nozione di eredità culturale ancorato ad un numero ristretto di beni tangibili.
Ma oltre ad una messa in discussione del concetto di patrimonio, il testo si propone come luogo di confronto e rilettura del complesso legame tra uomo e natura. Se WHC era nata da preoccupazioni pratiche sulle sorti di specifici monumenti o parchi naturali (timori che si riflettono a pieno nel testo, come abbiamo detto nel paragrafo 2. 1), nel caso della IHC l’origine e la motivazione profonda che ha portato alla sua stesura è un lungo e complesso processo di elaborazione teorica che, seppur sollecitato da squilibri politici, riflette la volontà di dare pieno riconoscimento alla diversità del fatto patrimoniale e adeguarne lo strumento di protezione.
I documenti ufficiali prodotti da UNESCO e ICOMOS sono preziosi perché oltre a consentire uno studio quasi filologico dell’evoluzione del pensiero attorno a questo tema hanno la caratteristica quasi unica di mantenere aperta la strada del dialogo tra lo studio del ‘fatto patrimoniale’ ovvero il fatto sociale che consiste in pratiche di costruzione di un patrimonio e un’eredità culturale (declinate a seconda del contesto di provenienza) e l’esame del ‘concetto’ di patrimonio, che è invece pura astrazione intellettuale del fenomeno. Questo aspetto di costante interazione delle due dimensioni ci aiuta capire come al mutare del fatto sociale corrisponda un’adeguazione del concetto ad opera di professionisti e teorici, ma come sia vero anche il contrario: nel caso della IHC al mutare del quadro teorico sul patrimonio ha fatto seguito un ripensamento delle pratiche concrete dei modi di salvaguardia del patrimonio.
Così l’enfasi sul concetto e sul fatto patrimoniale “intangibile” è almeno in parte una risposta al mutato panorama storico-politico internazionale e uno dei figli del pensiero post- coloniale, che ha avuto il merito di criticare le categorie e i concetti presunti ‘universali’. In che senso? Abbiamo cercato di mostrare nel capitolo precedente come l’idea di patrimonio culturale e naturale contenuta nella WHC fosse solo dichiaratamente a carattere globale ma in realtà riflettesse tutta la località di un progetto ancorato in un momento storico preciso e una parte del mondo che in quel momento orientava da sola le politiche mondiali anche in campo culturale. Successivamente all’adozione del WHC molte critiche sono state mosse (spesso a ragione) ad un simile progetto giudicato come paternalistico, insufficiente ed etnocentrico: ora proprio le lacune e la capacità di suscitare agguerrite prese di distanze da parte di attori sociali che non condividevano quella prospettiva è tra i maggior meriti che ha avuto la WHC.
Il concetto di patrimonio universale, con la pretesa di estendersi a tutte le realtà culturali, ha fatto ingresso in tutte le nazioni aderenti al progetto suscitando consensi ma anche forti resistenze: come un fenomeno innovativo che si diffonde in diverse semiosfere ha portato una serie di fenomeni esplosivi e rivolgimenti che hanno retroagito sul progetto iniziale stesso. In particolare molti paesi dell’Estremo Oriente e dell’Africa posti di fronte a questo strumento teorico e pratico che enfatizzava il carattere materiale (in opposizione a quello spirituale) e
spettacolare (in opposizione a quotidiano) del patrimonio hanno avvertito tutta la distanza che intercorreva tra un simile progetto e il loro modo di vedere le cose.
Nella diffusione del concetto di patrimonio dell’Umanità dal ‘centro’ della semiosfera alle ‘periferie’ (le aree giudicate subordinate culturalmente e socialmente) si è assistito ad un fenomeno di feedback significativo: lo sguardo decentrato ha consentito di spogliare il concetto di patrimonio della sua veste di universalità mettendone in luce i limiti soprattutto del suo ‘monumentalismo’ e ‘passatismo’. Per molti studiosi africani59 anche l’idea di scindere in modo così netto patrimonio tangibile da quello intangibile è tanto bizzarra quanto sospetta: non solo in molte lingue africane ha creato problemi di traduzione (molto rivelatori di un sistema concettuale di difficile traduzione attraverso i nostri strumenti espressivi) ma è stata molto criticata come tentativo egemonico di estendere delle categorie aristoteliche in qualità di universali filosofici.
Pur con tutti i limiti di una sintesi di tradizioni e credenze diverse, il postulato di base delle filosofie di origine africana è quella che “tutto è in tutto”, ovvero in termini aristotelici “l’immateriale sta dentro il materiale; il materiale sta dentro l’immateriale”. Questo approccio è filosoficamente molto interessante e se è stato variamente etichettato da antropologi ed etnografi come “vitalismo”, “paganismo”, “animismo” in realtà appare non tanto distante dal pensiero di un filosofo greco come Eraclito, anche per la metafora fluviale molto usata dai saggi africani. Questi parlano di una forza vitale presente e diffusa in ogni cosa, un po’ come lo spirito del creatore rimane nella sua produzione e quest’ultima ne conserva la forza e il genio. La filosofia africana usa l’immagine del fiume per illustrare come tutto scorra nel tutto: il flusso della creazione si manifesti in tutte le cose. In questo senso che esistano luoghi con una memoria è scontato, dato che tutto possiede una memoria, uno spirito e un soffio vitale anche quando non è marcato da tracce monumentali.
In questo viene rimarcata una differenza tra i luoghi di memoria monumentali e gli spazi ‘sacri’ della tradizione africana che spesso sono aree prive di un contrassegno visibile e spettacolare, apparentemente non differenti da tante altre ma ritenute fonti privilegiate di una manifestazione dello spirito vitale. La divisione in materiale vs. immateriale, tangibile vs. tangibile, materia vs. spirito non ci aiuta a capire la specificità delle culture africane: è un caso di applicazione di categorie “nostre”, che hanno una storia, un’origine locale ad una realtà culturale in cui non sono percepite come rilevanti.
Anche la IHC con la sua enfasi sull’intangibilità e sulla dimensione volatile della cultura può essere criticata perché non fa che cogliere in modo isolato l’altro aspetto del fenomeno culturale trascurato dalla WHC. In realtà, pur nei limiti di un progetto di diritto internazionale, il testo della IHC si è dimostrato molto sensibile alla domanda di un approccio olistica al problema patrimoniale ma non solo, germi benefici di cambiamento hanno cominciato a maturare anche all’interno dell’attività legata alla salvaguardia di beni culturali tangibili protetti dalla WHC. Grazie alla riflessione sui modelli di patrimonio ‘altro’ rispetto a quelli monumentali, si è preso maggior consapevolezza del legame inscindibile tra aspetti tangibili e intangibili anche nella
59 Ad esempio Olabiyi Babalola J. Yai nella comunicazione “Perspectives africaines sur le patrimoine culturel”
protezione di beni culturali materiali (castelli, moschee, templi antichi). Il che nella maggior parte dei casi ha significato un ricentramento delle pratiche patrimoniali non più solo sul restauro dell’aspetto concreto ma una ricerca ed una preoccupazione per salvaguardare insieme alle parti solide e tangibili le conoscenze, le tradizioni e le pratiche legate a questi luoghi eccellenti. 6. 4. 2. L’immaterialità come categoria problematica
In realtà molti studiosi ed esperti di conservazione rivendicano che l’attenzione per questi aspetti intangibili non è mai venuta meno in nessuna buona azione di preservazione e mantenimento dei beni culturali. Tuttavia il riconoscimento formale della dialettica inscindibile tra aspetto materiale e immateriale può essere rintracciato solo nei documenti del 2002 Istanbul Declaration e Shangai Charter e del 2003 IHC. La fragilità/volatilità che viene riconosciuta come caratteristica principale dei beni intangibili in realtà è componente ineludibile di tutti i fenomeni patrimoniali: appare semplicistica la visione della conservazione dei beni tangibili come banale restauro (quasi si trattasse di togliere un po’ di polvere da una statua) che non comporta ricerca, documentazione o studio. Tre sono le modalità suggerite dal documento di Shangai per la messa in atto di un approccio olistico al patrimonio:
a) porre il patrimonio tangibile nel suo contesto più ampio: legare le singole proprietà al loro contesto spaziale e temporale di provenienza per mettere in luce i valori e comprendere meglio lo spirito che sta dietro ciascuna creazione;
b) tradurre il patrimonio intangibile in ‘materialità’: passaggio e trasformazione di patrimonio orale ad esempio in archivi, inventari e musei con registrazioni (è un modo di cristallizzare che ovviamente non esaurisce le pratiche di conservazione);
c) aiutare coloro che praticano determinate tradizioni e facilitare il passaggio di competenze di artisti, artigiani o riconosciuti operatori della cultura.
Queste istruzioni ancora una volta sembrano trovare una ragione solo nel contesto occidentale in cui la divisione tra aspetto tangibile e intangibile è percepita come importante. Oltre che basata su categorie aristoteliche, tale divisione in ambito patrimoniale è stata fatta risalire da numerosi studiosi al culto delle reliquie in ambito cristiano. Jade (2006: 20-21) in particolare spiega come il concetto di patrimonio sia uno strumento intellettuale gravato da una storia ed una specificità non solo legate genericamente all’Occidente, ma all’Occidente di tradizione cristiana. Le origini dell’approccio materialistico occidentale al valore dei monumenti storici si basa sul culto delle reliquie diffuso nella Chiesa romana tra il XII e la metà XV secolo: è attorno a questa pratica concreta legata al culto delle personalità sacre che si configura una prima definizione del concetto. Lo dimostra tutta l’enfasi posta sull’autenticità della sostanza propria della riflessione sui beni tangibili: come il pregio di una reliquia (dal lat. reliquae, resti) consisteva nel fatto di essere un oggetto o un corpo che ebbe con santi e martiri un contatto diretto, così i monumenti fatti oggetto di patrimonializzazione potevano vantare il contatto diretto con uomini del passato.
L’ideologia della reliquia consiste nella fiducia nel potere dell’oggetto materiale come intermediario tra gli esseri umani e Dio: le reliquie particolari sono segni che svolgono la
funzione di indici, rimandi legati strettamente alla fonte più potente di valore che è la divinità. Per certi versi il culto delle reliquie (successivamente esteso anche alle icone, le rappresentazioni e le immagini dei santi) è una forma di feticismo, ovvero uno spostamento del valore dall’oggetto primario di venerazione ad una sua manifestazione. In termini semiotici potremmo dire che il feticismo corrisponde ad una separazione netta del contenuto dal supporto, dalla sua espressione con una decisa valorizzazione del secondo a scapito del primo.
Molto interessante è notare come ci sia un paradosso alla base del culto delle reliquie dato che la sostanza materiale non era importante di per se stessa: oltre al riconoscimento storico della “fabbricazione delle reliquie” (ovvero la costruzione e negoziazione costante dell’autenticità delle stesse), ogni singolo oggetto non veniva venerato in virtù delle proprietà materiali, come il suo aspetto, i suoi tratti ma esattamente per il valore non-materiale, per il fatto di emanare la grazia di Dio.
Le teorie occidentali sui resti storici di antiche civiltà sono state molto influenzate da questa tradizione religiosa, tanto che in molti casi si parla di un fenomeno di ‘sacralizzazione’ delle tracce del passato, ritenute aspetti visibili e punti di accesso a realtà altrimenti scomparse e inattingibili. La tradizione patrimoniale che senz’altro ha subito in modo più marcato l’influsso di questo culto delle reliquie è quella francese, che nel suo appello alla dimensione di bene pubblico di tutti e nessuno, appare profondamente connessa alla dimensione votiva e cultuale. Il pensiero dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese sanzionarono un distacco definitivo della condizione umana dal riferimento obbligato alla sfera trascendente per cui, valorizzando la conoscenza razionale rimarcarono l’importanza della consapevolezza del passato per il divenire umano. Il proposito stesso di Diderot e D’Alambert nella stesura dell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné de sciences, des art et des métiers era quella di realizzare un inventario delle acquisizioni del genio umano per fare tesoro dell’esperienza passata e migliorare la condizione della vita delle generazioni future.
E questo en-kuklos (in greco “concatenamento”) di conoscenze era un esempio di trasmissione alle generazioni più giovani di sapere con una funzione pedagogica che non è assente neppure nel progetto di patrimonio intangibile, anzi è molto analoga. Commentando le osservazioni di Alois Riegl, autore nel 1903 di un testo fondamentale intitolato Le culte moderne des Monuments: son essence et sa genèse, Jade evidenzia come le pratiche patrimoniali rivolte ad alcune tracce del passato possedessero già in un certo senso un riconoscimento del loro valore di eccezionalità non legato semplicemente alla sfera materiale: i monumenti storici
possiedono un potere evocativo della cosa venuta dal passato che avrebbe dovuto sparire ma che è sopravvissuta per consegnarci un messaggio. […] Circondato da un’aura, l’oggetto patrimoniale acquisisce una potente forza espressiva e permette una relazione intertemporale seducente. Detto questo, la natura di culto ricostituita di nuovo risiede non tanto nell’ascendenza di una realtà orientata verso il divino: la religione, ma in una trascendenza orizzontale, ovvero un culto dell’uomo verso l’uomo, attraverso la materia. Per questo motivo, sarebbe più giusto parlare di ‘fascinazione’ piuttosto che di culto laico.” (Jade 2006: 38).
La potenza espressiva dell’oggetto viene quindi potenziata, ovvero i suoi tratti vengono caricati di un valore semantico più ampio: a partire dalla superficie espressiva l’interpretazione di chi si pone di fronte ad un oggetto così denso semanticamente non si ferma all’istanza di enunciazione che l’ha prodotto ma idealmente si allarga e si concentra al contesto temporale e spaziale che l’ha originato.
Jade nella ricostruzione storica-bibliografica dei precursori del concetto di intangibilità o immaterialità cita alcuni padri nobili come Bernard Deloche ed alcuni esponenti della Nouvelle Museologie (Georges-Henri Rivière, Andrè Desvallées), che avevano messo ben in evidenza la fissazione della museologia occidentale per la materia del passato. Questi pensatori avevano già parlato di una dimensione passionale e un’aura di sentimentalismo (declinato esteticamente o storicamente) che veniva a ricoprire alcuni oggetti o luoghi de-funzionalizzati. In questo senso la coscienza del passato che deriva dal culto o dalla valorizzazione di alcuni oggetti o luoghi eccezionali è permessa solo all’essere umano in quanto animale dotato di memoria: l’oggetto patrimoniale in quest’ottica diventa a livello sociale quello che “l’oggetto-madeleine” è sul piano individuale, ovvero un catalizzatore di ricordi che nella sua corporeità offre un punto di partenza per una sorta di catena di interpretanti tutti legati dal filo rosso del ricordo del passato.
La posizione critica di molti studiosi appartenenti alla Nuova Museologia nonché il contributo di molti etnografi hanno contribuito a riconsiderare l’attaccamento quasi esclusivo all’oggetto nel percorso di comprensione delle culture altre: anche nelle ricerche sul campo degli etnografi tale ripensamento consentì di dedicare il giusto peso a quelle manifestazioni della cultura che non erano necessariamente legate all’utilizzo di oggetti materiali come danze, musiche, canti. In questo senso si può notare che il progresso tecnologico che consentì la registrazione (prima solo di suoni poi di suoni e immagini) di tali pratiche sociali fu un grande stimolo ai lavori di analisi utili alla conoscenza approfondita di una comunità.
Se l’archeologia e lo studio delle “civiltà sepolte” in genere non hanno come risorse a disposizione che gli oggetti materiali e i testi scritti sopravvissuti all’usura del tempo, l’etnologia e la museologia interessate alle culture viventi hanno una molteplicità di punti di accesso, tra i quali lo studio della materia-oggetto è senz’altro uno dei più importanti, ma non il solo. Allo stesso modo nella definizione di un patrimonio, una specifica eredità culturale non ci si può limitare alla conservazione dell’aspetto materiale privato, scisso dal suo uso e dal suo significato. Un oggetto ben conservato deve essere materia ‘significata’, un supporto il cui senso e funzionalità, se non evidenti, vanno illustrati e proposti con attenzione per non renderli oggetti muti.
Come si diceva per le ricerche sul campo condotte su culture ‘altre’, le nuove possibilità offerte dalla tecnologia hanno avuto un impatto decisivo nella teoria della conservazione delle tracce del passato poiché hanno influenzato le tre componenti strutturanti che ha l’uomo nel suo approccio alla realtà: relazione con il tempo, spazio e materia. Come in passato la comparsa della scrittura ha segnato uno spartiacque nella storia della conservazione della memoria culturale (cfr. Assmann 1992), la digitalizzazione con le sue possibilità di ‘de-materializzazione’ e ‘ri- materializzazione’ di espressioni fisiche ha esteso e rafforzato la capacità degli esseri umani di
fissare su supporti un insieme molto più vasto di manifestazioni della realtà costituito da fatti materiali coerenti e diversificati. Grazie alla possibilità di registrare le tracce di qualsiasi evento e pratica culturale, in apparenza il processo di costituzione di un patrimonio immateriale è divenuto molto meno problematico rispetto al passato.
La tecnologia in realtà rende solo più forti gli strumenti, i mezzi per le pratiche patrimoniali ma non ne cambia la natura intrinseca di atto di selezione e trasmissione di elementi che comporta inevitabilmente una perdita ed una limitazione di aspetti significativi per valorizzarne altri. Così gli strumenti di registrazione riescono a rendere più accessibili e trasportabili le immagini, i suoni delle pratiche culturali solo al prezzo di alterarne la natura dinamica: la cristallizzazione impoverisce la pratica ma ne facilita l’archiviazione e l’esportabilità in altri contesti. Si tratta di uno slittamento interessante: dalla concezione del patrimonio come collezione composta di opere-oggetti da difendere dal tempo alla concezione del patrimonio come insieme di contenuti informativi, come opere-informazioni che vanno diffuse.
6. 4. 3. Dai punti critici al nuovo sguardo sul patrimonio
A ben vedere il ripensamento sul patrimonio culturale immateriale, iniziato come forma di interesse per e difesa di “culture tradizionali e popolari”, ha aiutato a mettere a fuoco come i valori intangibili siano sempre presenti nel fenomeno patrimoniale anche quando riguardano monumenti o beni scelti per la loro fisicità. Il fatto patrimoniale si caratterizza per l’attribuzione di valore ad un elemento culturale che può aver un grado maggiore o minore di materialità: e il valore di un oggetto non è mai direttamente deducibile dalle sue caratteristiche essenziali, ma dal corredo di investimenti che un soggetto ne fa. Ciò che differenzia un bene patrimoniale dal resto delle manifestazioni della realtà sta tutta nella discontinuità, nello scarto e nella differenza che un soggetto (un individuo o una collettività) avverte tra le due: e dentro tale scarto ci sono sempre due anime profondamente intrecciate, una di tipo più razionale e una di tipo più passionale.
Alla base dell’attribuzione di valore sembra esserci una questione di gusto, di sensibilità che un soggetto dimostra alle caratteristiche di un oggetto. E come rileva Landowski (1997; trad. it. 2000: 9) il gusto rientra a pieno titolo nell’ambito della significazione, dato che il suo studio altro non sarà che l’indagine di tutte le manifestazioni (discorsive o meno) “come le costruzioni mediante le quali i soggetti cercano di dare senso a qualche realtà-oggetto, o di coglierne i significati immanenti”. La produzione e il riconoscimento del valore di un oggetto patrimoniale è un effetto di senso analogo a quello che riguarda il gusto, che non è mai semplice risultato di costrizioni sociali identificabili a priori e in modo meccanico. Come chiarisce Jean-Luc Fiorin (in Landowski – Fiorin 1997) la degustazione dei sapori alimentari è la matrice per ogni forma di gusto e “la prima caratteristica del gusto è quella di costituire un valore. È l’affermazione di una differenza, dal momento che si costituisce in opposizione ad altri gusti” (Landowski – Fiorin 1997; trad. it 2000: 19). Il gusto come l’attribuzione di valore crea un confine il più delle volte invisibile ma non meno avvertito da un membro socializzato all’interno di una data cultura: funziona, dunque, secondo la categoria semantica di base esclusività vs inclusività.
Il soggetto che attribuisce un valore ha la passione di “scegliere, di preferire, di privilegiare. La sua esistenza modale è dichiarata dal voler essere congiunto all’oggetto che è stato valutato al di sopra degli altri. In questo senso, la preferenza è uno stato d’animo che coniuga un desiderio, definito da un voler essere, e una ripulsa, un’avversione, caratterizzata da