La Convention Concerning the Protection of the World Cultural and Natural Heritage (d’ora in poi WHC) venne adottata dalla Conferenza Generale dell’UNESCO riunita a Parigi nella sua diciassettesima sessione il 16 novembre 1972. Fin dall’antichità, in Europa e Medio Oriente soprattutto, studiosi e gente comune avevano individuato l’esistenza di “meraviglie del mondo” che consistevano in un gruppo di opere dell’essere umano, il cui denominatore comune era il notevole impatto visivo e la capacità di suscitare viva emozione negli osservatori. Tale elenco più o meno definito (nel quale figuravano tra le altre opere le Piramidi d’Egitto, il Colosso di Rodi) non aveva alcuna funzione specifica ma già conteneva una delle idee portanti della Convenzione ideata nel XX secolo: quella che esistessero delle creazioni disperse geograficamente, molto varie ma accomunate dall’alto valore dell’ingegno umano che era stato capace di costruirle. Come si vedrà, la portata del progetto del Patrimonio dell’Umanità è molto più ampia ed è solo nel quadro storico e politico mondiale derivato dalla creazione delle Nazioni Unite che poteva prendere piena autorevolezza.
L’idea di creare uno strumento giuridico di portata mondiale che mirasse a proteggere le tracce del passato e le creazioni di eccellenza di diversi popoli è senza dubbio precedente alla Seconda Guerra mondiale, e si sviluppa in seno al dibattito della Società delle Nazioni. È tuttavia significativo che l’implementazione di un trattato internazionale dell’UNESCO che riguardasse i beni culturali abbia assunto concretezza solo negli anni Sessanta e a seguito di eventi in cui la natura ebbe un ruolo di primo piano. L’avvenimento che suscitò un incremento di consapevolezza nella comunità internazionale sui temi legati al patrimonio comune di tutti i popoli (e che viene presentato nei materiali informativi come il vero e proprio caso precursore del progetto) fu la realizzazione della diga di Aswan in Egitto. Il grande progetto di costruzione di un argine artificiale lungo il corso del fiume Nilo comportava infatti l’allagamento della valle che ospitava i templi di Abu Simbel, tesori dell’antica civiltà egizia. Nel 1959, a seguito di un appello da parte dei governi di Egitto e Sudan, l’UNESCO decise di lanciare una campagna internazionale totalmente innovativa sia per mezzi tecnologici coinvolti sia per la risposta collaborativa di numerosi paesi del mondo.
Grazie al lavoro di una folta squadra di professionisti diretti da archeologi di fama mondiale, i templi di Abu Simbel e Philae vennero smantellati completamente dalla posizione originaria, per essere trasportati in un territorio sicuro e lì assemblati nuovamente nella loro forma di partenza. La campagna costò più di 80 milioni di dollari, la metà dei quali venne donata da quasi una cinquantina di paesi, i cui governi e popolazioni erano preoccupati per le sorti dei tesori archeologici come se si trattasse di beni propri. Oltre alla spettacolarità ed alla mole straordinaria di competenze messe in gioco, questo evento testimoniò in modo inappuntabile l’importanza e la fruttuosità della responsabilità condivisa tra le nazioni nella conservazione di siti culturali in pericolo.
Questa evidenza si ripresentò in numerose occasioni nel corso degli anni Sessanta, quando l’UNESCO si impegnò in campagne internazionali per la protezione di siti e aree storiche come ad esempio il centro storico di Firenze a seguito dell’alluvione del 1966 o alcuni settori urbani di Venezia messi a rischio dal problema dell’acqua alta (per citare solo due casi più conosciuti in Italia). Interessante notare un filo rosso in queste campagne: quello dell’elemento naturale, nella fattispecie l’acqua, che minaccia il bene culturale, vuoi per responsabilità diretta delle decisioni umane, vuoi come evento catastrofico-metereologico.
Già dall’esame delle comunicazioni e dei documenti dai toni altisonanti che accompagnarono queste iniziative dell’UNESCO nel campo dei beni culturali, emergono uno stile e una retorica decisamente coerenti e uniformi, che ritroveremo in parte manifestati nel documento della WHC. L’isotopia figurativa fondante di questa retorica è quella che definisce i luoghi culturali come “tesori e ricchezze” che sono “proprietà e beni” degli stati che li ospitavano ma la cui protezione deve diventare una missione per tutti i paesi del mondo. L’isotopia tematica e figurativa incentrata sul possesso e la stringente logica economica sono alla base dei testi di quegli anni: in quest’ottica esiste un soggetto che può vantare diritti esclusivi su qualcosa di materiale, ma tale visione convive con l’isotopia della condivisione di segno opposto, ovvero con il nobile proposito di costruire un progetto di associazione tra diversi soggetti sia per le responsabilità che per i benefici derivati dai differenti oggetti di valore. La categoria semantica fondamentale in questi testi sembra essere quella di /esclusività vs. partecipazione/, ovvero una volontà di godimento egoistico e tesaurizzazione opposta a quella di fare partecipi anche gli altri.
È dunque all’interno di questo quadro di riferimento che l’UNESCO cominciò a riflettere sull’opportunità di assicurare una continuità e dare una forma maggiormente strutturata alle politiche di conservazione dei beni culturali46. Nella seconda metà degli anni Sessanta, con
l’apporto decisivo dell’organizzazione non governativa ICOMOS (International Council on Monuments and Sites) fondata nel 1965, presero avvio i lavori per la preparazione di una bozza di convenzione che riguardasse la protezione del patrimonio culturale. Nello stesso periodo e con un percorso parallelo (non direttamente collegato a queste attività), maturò l’idea di creare una convenzione per la salvaguardia di alcuni parchi naturali tra i più importanti, che contenevano specie in via di estinzione o fenomeni geomorfologici di interesse collettivo. Anche questi luoghi venivano percepiti come risorse, tesori per tutto il mondo e non solo per gli stati entro i cui confini si trovarono. A promuovere lo sforzo per una simile impresa era in particolare un'altra organizzazione non governativa nata nel 1948, l’IUCN (International Council for Conservation of Nature).
In una conferenza tenutasi alla Casa Bianca del 1965 il presidente del Consiglio sulla Qualità ambientale di Washington, Russell E. Train propose di creare un “World Heritage Trust”, un fondo finanziario che avrebbe dovuto stimolare la cooperazione internazionale per proteggere “the word’s superb natural and scenic areas and historic sites for the present and the future of the entire world citizenry”. Fu così che anche all’interno delle riflessioni dell’UNESCO
venne a palesarsi la possibilità di pervenire ad un unico testo che combinasse la protezione di siti culturali e siti naturali proprio mentre nel corso del 1970 due differenti bozze di convenzioni erano state presentate: “International Protection of Monuments, Groups of Buildings and Sites of Universal Value” e “Convention for the Conservation of the World’s Heritage” che riguardava le aree naturali.
In occasione della Conferenza Generale del 1972 il testo della Convention Concerning the Protection of the World Cultural and Natural Heritage venne approvato come strumento giuridico che in modo innovativo concepiva la protezione del patrimonio mondiale come equilibrio tra la conservazione di elementi naturali e culturali. La Convenzione è composta da 38 articoli preceduti dai preamboli, molto importanti perché contengono i rimandi al quadro politico-filosofico, ne valorizzano la legittimità e le motivazioni profonde. Ecco in breve la struttura della Convenzione:
- i primi tre articoli riguardano le definizioni del patrimonio culturale e naturale;
- dall’articolo 4 all’articolo 7 sono delineate le politiche di protezione del patrimonio sia a livello nazionale sia a livello internazionale;
- dall’articolo 8 al 14 sono raccolte le indicazioni sui compiti e il funzionamento del Comitato intergovernativo;
- dall’articolo 15 al 18 viene specificata la natura del Fondo per la protezione;
- dall’articolo 19 al 26 sono presentate delle delucidazioni sulle condizioni e disposizioni per l’assistenza internazionale;
- gli articoli 27 e 28 sono dedicati ai programmi educativi;
- l’articolo 29 riguarda lo strumento dei report, rapporti periodici sullo stato delle leggi nazionali;
- i restanti articoli dal 30 al 38 riguardano dettagli sulla ratifica della Convenzione. Come già indicato questa analisi non vuole dar conto del funzionamento di uno strumento giuridico così complesso e articolato. Il nostro focus di attenzione è stato necessariamente limitato alla concezione di patrimonio e beni culturali che WHC propone. Prima di passare all’analisi si cercherà di riassumerne brevemente e senza pretese di esaustività i principali aspetti organizzativi.
La Convenzione definisce il tipo di siti naturali o culturali che possono essere iscritti nella World Heritage List e stabilisce i doveri degli stati membri, ovvero le nazioni che hanno firmato e accettato la convenzione: identificare potenziali siti di valore all’interno del loro territorio e impegnarsi nella protezione di tutti i siti nazionali. Ciascuno stato è incoraggiato a integrare la protezione del proprio patrimonio in programmi regionali, all’interno dei quali il patrimonio si avvicini il più possibile alla vita quotidiana della comunità. Ogni due anni l’Assemblea Generale degli stati membri elegge i componenti del Comitato, organo principale responsabile dell’intero processo di scelta e di aspetti decisionali riguardanti l’implementazione della Convenzione.
Il Comitato è composto da 21 membri e svolge tre funzioni principali: a) esame dei report sullo stato di conservazione dei beni presenti nella Lista ed eventualmente richiesta agli stati
membri di azioni sulla gestione degli stessi; b) esame e selezione delle nuove proprietà da includere nella Lista, beneficiando dell’assistenza degli organi consultivi (IUCN per le proprietà naturali, ICOMOS e ICCROM ovvero International Centre for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property per quelle culturali); c) gestione delle finanze del Fondo per le proprietà che necessitino restauri, per piani di azione tempestivi su proprietà in pericolo, per richieste di assistenza tecnica specifiche e attività educative e promozionali.
Il processo di inclusione di un bene nella Lista del Patrimonio dell’Umanità avviene per gradi: la domanda di iscrizione deve essere avanzata dallo stato entro i cui confini si trova il sito, e deve essere accompagnata da un piano dettagliato su come il sito è gestito e protetto. Ciascuno stato prepara una lista provvisoria (un inventario dei siti giudicati di straordinario valore universale) dalla quale ogni anno seleziona dei possibili siti candidati ad entrare nella Lista. Il World Heritage Centre offre assistenza nella preparazione della corretta documentazione che deve accompagnare le proposte di inclusione (le nominations) e funziona da filtro dato che una volta espresso parere favorevole sul formato del dossier degli stati, li trasmette all’organo consultivo competente. Il Comitato esamina le nominations sulla base di criteri fissati delle Linee Operative stabilite e a partire dall’esame delle valutazioni espresse dagli organi consultivi. Il Comitato può decidere di includere una proprietà, chiedere allo stato di riferimento di fornire maggiori informazioni o modificare qualche punto della strategia di protezione oppure rigettare la domanda.
La Lista è un catalizzatore di attenzione che viene usato come strumento per accrescere la consapevolezza riguardante la protezione del patrimonio sia tra i governi coinvolti sia all’interno della popolazione. Nel 1979 inoltre venne istituita la List of World Heritage in Danger: nei casi in cui un sito già incluso nella Lista del Patrimonio dell’Umanità subiva dei cambiamenti di stato di conservazione o veniva minacciato nella sua incolumità da conflitti armati, cataclismi o intervento illegittimo di esseri umani questa ulteriore Lista si configurava come strumento di emergenza che richiama l’attenzione del mondo intero su un numero limitato di casi rispetto ai quali l’intervento risultava prioritario.