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2 1 François Rastier e il progetto di federazione delle scienze della cultura

2.1.1. La diversità delle culture come punto di partenza

François Rastier è uno tra gli studiosi che nell’ultimo decennio hanno riflettuto con maggior accuratezza e profitto sui rapporti tra la semiotica e le altre scienze umane o sociali. In particolare nella sua opera Arti e scienze del testo (2003) e nella raccolta di saggi Un introdution aux sciences de la culture (2002), curata insieme a Simon Bouquet, Rastier ha delineato un progetto intellettuale di federazione delle scienze della cultura, particolarmente interessante per il tema della nostra ricerca per due motivi. I due motivi sono ad un tempo i punti di partenza e di arrivo della sua riflessione.

L’indagine di Rastier muove infatti dallo studio degli effetti delle nuove pratiche di archiviazione informatica e conservazione digitale sulle discipline che hanno come oggetto comune il ‘testo’. Proprio l’avvento dei nuovi media è considerato responsabile a un tempo di un arricchimento e di una complessificazione della nozione di testo; fenomeno che richiede una riflessione aperta ai contributi di differenti discipline e tradizioni di ricerca.

La digitalizzazione è considerata da Rastier come la terza tappa nella storia dell’evoluzione dei supporti delle informazioni: ogni nuovo supporto collegato alle pratiche di archiviazione consente forme di gestione ed elaborazione proprie. La nozione di supporto diventa centrale proprio in quest’epoca di dematerializzazione perché conduce ad interrogarsi su cosa costituisce un testo: di certo Rastier afferma che il supporto è condizione empirica ma la sostanza dell’espressione non definisce il testo. “

Proprio questa nuova frontiera utile all’archiviazione delle informazioni in banche date consente l’accesso e la gestione ad una mole prima impensabile di informazioni registrate, virtualmente disponibile per popolazioni in ogni parte del mondo. E questo tema riguarda anche la conservazione delle tracce relative al patrimonio culturale, dato che

Lo sforzo […] di inventario e di conservazione del patrimonio culturale su scala mondiale necessita oggi di una riflessione teorica in grado di pensare la diversità sia nel tempo che nello spazio. Ecco dunque la sfida: valorizzare la diversità culturale per evitare che si riduca ulteriormente (Rastier 2001; trad. it. 2003: 405).

Attraverso un ripensamento del ruolo di scienze sociali e umane, Rastier intende gettare le fondamenta per una semiotica delle culture basata su quella che definisce una “epistemologia della diversità”. Se le scienze dure mirano a individuare le leggi universali e le norme fisiche (presunte ineludibili) sottese alla natura, la scienza delle culture non potrà che prendere atto della estrema varietà delle manifestazioni e delle forme culturali del suo oggetto di indagine: di conseguenza la linea guida sarà la valorizzazione della diversità culturale.

Si vedrà nella Parte II come i temi della conservazione dei ‘testi’ (intesi in senso ampio come creazioni dell’essere umano) e della valorizzazione della diversità culturale rappresentano due aspetti centrali nel lavoro dell’UNESCO. Si mostrerà infatti come l’impegno dell’UNESCO dal dopoguerra a oggi nel campo della preservazione culturale sia partito dalla difesa e restauro di ‘beni tangibili’ e immobili (come i siti archeologici), si sia allargato progressivamente a ‘beni intangibili’ e proprio negli ultimi anni abbia enfatizzato il valore della ‘diversità culturale’ attraverso l’elaborazione di una Convenzione specifica. Quel che più ci interessa, come vedremo, è che questo processo di allargamento teorico del concetto di patrimonio di interesse dell’UNESCO ha sollevato una serie di problemi di gestione e conservazione di tipo pratico- applicativo inediti e vorremmo dire irrisolti al momento.

Certamente le politiche concrete di “conservazione dei beni culturali”, per dirla all’italiana (denominate heritage policies in inglese e politiques du patrimoine in francese), hanno maturato una esperienza e hanno consentito un’efficacia dei risultati nel modo di trattare le proprietà come interventi su oggetti ben definiti: i siti archeologici, le grandi opere architettoniche ma anche le singole opere d’arte come dipinti, sculture e artefatti antichi. Tale ambito di interesse ha guadagnato nel corso del XX secolo un posto di rilievo in particolare in Europa e nell’America del Nord: esistono nelle università percorsi formativi specifici per questo campo che vantano una tradizione ormai solida e una autorevolezza indiscussa; esistono Ministeri, Sottosegretariati, Assessori e incarichi politici a tutti i livelli che hanno il compito di occuparsi del patrimonio culturale.

È il campo che si è occupato in prevalenza del “restauro” dei beni culturali, rispetto ai quali è difficile stabilire una teoria generale e coerente ma piuttosto si provvede a soluzioni caso per caso a partire da principi teorici validi universalmente. Abbiamo visto come Brandi, che si è occupato in diversi saggi delle problematiche relative al restauro di pitture e manufatti artistici (cfr. in questa Parte capitolo 1 § 1.5), lo concepisca come una critica, una scienza filologica e

storica che deve porsi come obiettivo la rimozione di ogni interferenza rispetto al significato ‘originario’ di un’opera.

Un buon conservatore dei beni culturali, in questa prospettiva, deve mettere in atto un’insieme di strategie volte a prolungare la vita dell’opera d’arte, parzialmente reintegrarne la visione e il godimento del pubblico. Quindi anche la collocazione di un’opera d’arte in un museo, persino la sua illuminazione, il fondale su cui un’opera sarà esposta diventano un campo di intervento ed allestimento utile per garantire una preservazione del senso originario di un dipinto o un’opera plastica.

Gli interventi per “rimettere in efficienza” i prodotti dell’attività umana devono adattarsi e conformarsi alla varietà dei prodotti e delle creazioni dell’ingegno umano: dunque in linea teorica il restauro comprende si le opere d’arte ma anche una serie di oggetti che arrivano fino ai manufatti quotidiani o industriali, rispetto ai quali occorre ristabilire e ripristinare una funzionalità perduta a causa dell’usura22. Così il restauro in senso ampio o meglio la

conservazione dell’efficienza può riguardare anche altri settori delle creazioni umane, come la produzione di testi letterari, riti, credenze, tradizioni, ovvero tutto quel vasto campo definito come “patrimonio culturale intangibile”.

Rispetto allo statuto del patrimonio culturale intangibile, gli interventi e le pratiche di intervento sono tutt’altro che definite e fissate perché il concetto stesso elaborato dall’UNESCO è di difficile interpretazione e apre orizzonti nuovi. Quel che viene meno in questi casi è il discrimine tra ciò che è opera d’arte e ciò che non lo è: “qualsiasi comportamento verso l’opera d’arte, ivi compreso l’intervento del restauro, dipende dall’avvenuto riconoscimento o no dell’opera d’arte come opera d’arte” (Brandi 1977: 5). Quindi se il riconoscimento del valore estetico nell’esperienza individuale è la base e la motivazione profonda dell’attività di conservazione, cosa deve indirizzare l’attività di promozione e difesa di beni immateriali che opere d’arte non sono?

Allo stesso modo è tutt’altro che meditato e sedimentato l’approccio alla diversità culturale per attori istituzionali come i Governi degli stati nazione proprio perché questi temi di dibattito internazionali sono emersi con forza solo nel corso degli ultimi decenni. Gli stati nazione si sono interessati e hanno avuto come priorità per secoli quella di rendere compatto il tessuto sociale interno ai propri confini (programma che hanno perseguito attraverso misure di uniformazione e riduzione delle diversità linguistiche, regionali o etniche): avere a che fare oggi con una inversione di rotta che tende a valorizzare e anzi promuovere la diversità rispetto agli altri ma anche interna si rivela come una sfida non sempre intrapresa con convinzione. Diventa prioritario nelle strategie degli stati nazione, ma anche degli attori singoli e collettivi che operano nella società nel campo culturale, arrestare l’azione strategica di ‘assimilazione’ e imposizione del proprio punto di vista sugli altri a favore di un confronto (non necessariamente integrativo ma consapevole) con le altre specificità.

22 Sull’usura come “prassi che conduce a una valorizzazione dell’oggetto negativa in quanto sospensione delle sue

caratteristiche di identità primarie” cfr. Ceriani (1997). L’usura materiale intacca l’integrità e la riconoscibilità stessa dell’oggetto frequentato.

Come affermano Simona Bodo e Maria Rita Cifarelli (2006) gli stati oggi si trovano alla prova del multiculturalismo, interno ed esterno alle proprie frontiere. Il carattere plurale, o per alcuni meglio dire ibrido delle culture non è un fenomeno recente ma semmai un “lato rimosso della nostra storia”, per cui attori sociali che si sono sempre mossi in direzione di una maggiore coesione sociale attraverso la costruzione di simboli e segni univoci devono imparare oggi a riconfigurare le scelte politiche in favore di una pluralizzazione di pratiche culturali. Ciò comporta una gestione e un controllo su una molteplicità di patrimoni, vuoi per la molteplicità delle comunità sociali vuoi per l’estrema varietà e germinazione di forme espressive da considerare.

Quindi si comprenderà meglio cosa significhi la sfida per la valorizzazione della diversità culturale alla quale alludeva Rastier nel passaggio citato. La sfida riguarda ovviamente non solo le istituzioni governative ma anche gli attori sociali che operano nel campo dei mezzi di comunicazione, nelle arti e nel settore economico della cultura: è necessario superare l’abitudine del passato a stigmatizzare l’altro e ordinare gerarchicamente le culture secondo principi egocentrati. La cultura tende in molti ambiti a articolare gerarchicamente le differenze, riducendole, assimilandole, oppure ingigantendole e dandone un’immagine filtrata attraverso i propri valori.

Più che ricostruire esaustivamente il discorso e i numerosi temi di rilievo semiotico affrontati da Rastier nei suoi lavori, ci limiteremo in questa sede a richiamare alcuni passaggi che citano esplicitamente o riguardano in modo diretto i temi della riflessione sul patrimonio culturale, l’inquadramento espistemologico di un lavoro di ricerca su testi culturali e le strategie di approccio alla diversità culturale. Nel corso dell’analisi dei testi che condurremmo nella Parte II avremo modo di tornare su alcuni punti salienti e rilevare la fruttuosità delle prospettive qui delineate.

2.1.2. Il progetto federativo delle scienze della cultura

Nell’Introduzione al testo (2001), Rastier sostiene che le discipline del testo si collocano tutte sullo stesso piano, nello stesso ambito empirico, mentre divergono tra loro solo per tre dimensioni rilevanti: lo statuto epistemologico, gli obiettivi e le procedure di convalida. La semantica interpretativa, oggetto dell’omonima opera dell’autore del 1987, ha guadagnato nel corso degli ultimi decenni una specificità rispetto alle altre discipline proprio perché ha saputo enfatizzare più di ogni altra la rilevanza del testo come unità significativa di analisi e si è differenziata con forza da un approccio che prendeva in considerazione codici e singole unità segniche.

La linguistica è rimasta troppo a lungo concentrata sull’unita frastica per le sue analisi. In realtà non esistono due linguistiche, una attenta alla morfosintassi e l’altra al testo: i due livelli si completano tra loro. In alcuni studi il livello di pertinenza più utile è quello della singola frase o porzione di testo, in altri è necessario mantenere il focus sull’unità testuale. La cosa rilevante è che l’eterogeneità dei testi, dei generi testuali ma anche delle metodologie su di questi non porti alla conclusione che una scienza dei stesi sia impossibile. Al contrario per Rastier tale scienza è

necessaria; le scienze del linguaggio non potrebbero che riunirsi attorno all’oggetto testo e all’obiettivo dell’interpretazione.

Gli oggetti culturali si caratterizzano per la loro complessità e il carattere problematico della loro interpretazione. Sono prodotti in pratiche e situazioni differenziate, e mettono generalmente in gioco molteplici sistemi di norme: così accade per le danze, i rituali e i giochi. Nell’ambito degli oggetti culturali, i testi sono performance semiotiche fra le più complesse, e a questo titolo svolgono un ruolo esemplare (Rastier 2001; trad. it. 2003: 110).

Mentre nell’approccio cognitivista si parla di “studio dei segni” e la “dottrina della significazione” consiste nell’indagine di una relazione tra parte significante e parte del significato del segno, del rapporto tra soggetto e oggetto che attivano una funzione segnica, la semantica interpretativa si occupa della produzione del senso come risultato di un lavoro di interpretazione. Tale impostazione trova interessanti punti di contatto e dialogo con due tipi di teorie: l’ermeneutica filosofica (che si interessa alle condizioni a priori dell’interpretazione) e l’ermeneutica filologica (che si occupa dell’incidenza di pratiche sociali nell’interpretazione). Il valore critico che Rastier individua nella prospettiva ermeneutica consiste nel fatto che questa inquadra ogni forma di comportamento cognitivo umano come il risultato di una rettificazione interpretativa di se stessa.

Rastier critica l’affannosa ricerca, in seno alla linguistica, di una scientificità newtoniana: parla addirittura di un tentativo caricaturale perché ha portato tale prospettiva ad inseguire, per imitazione le scienze esatte e ad allontanarsi dalla sua sede più consona, ovvero quella delle discipline umanistiche e delle scienze sociali. La semiosi si definisce come relazione tra i due piani dell’espressione e del contenuto dei testi; non è il punto di partenza dell’interpretazione ma il suo punto di arrivo. Tuttavia per pervenire al senso di un testo non si può fare affidamento su regole e norme matematiche (anche come modelli di comprensione questi restituiscono un’immagine troppo riduttiva del fenomeno della comprensione). Il senso non è una codifica preliminare che associa in modo rigido un significante e un significato: si crea lungo percorsi che individuano, isolano e uniscono significati tra loro, passando attraverso dei significanti.

L’analisi dunque non va appiattita né sul soggetto interpretante né sul testo-oggetto: il senso risiede sempre all’interno di una pratica sociale. Questa ci sembra un’indicazione molto importante per uno studio del patrimonio culturale che non si propone di mettere in luce i tratti caratteristici di un particolare caso di tesaurizzazione di beni concreti ma intende pervenire a una comprensione del patrimonio come pratica sociale che produce, articola, sollecita la produzione di testi complessi e attività interpretative complesse. Il patrimonio dunque come matrice e fenomeno di genesi di pratiche significanti.

Anche nello studio dell’attività patrimoniale il problema di preservare il senso di un oggetto culturale sarà centrale. Abbiamo visto sin qui come la conservazione sia qualcosa di più

del semplice trasferimento nel tempo di caratteristiche materiali; si è detto come oltre alle azioni di mantenimento della forma esteriore ciò che deve perdurare nel tempo è un investimento passionale ed una carica semantica originaria. Sostiene Rastier: “il senso effettivo di un testo è il risultato di una decifrazione sempre rinnovata e nasce dalla contrapposizione tra le interpretazioni tramandateci e quelle che oggi noi stessi formuliamo” (Rastier 2001; trad. it. 2003: 188).

Dunque il senso di un testo è sempre l’esito di un continuo lavoro interpretativo, di traduzione e comprensione da parte del soggetto che lo vive, lo legge o lo ascolta: il caso del patrimonio è semplicemente un sedimentarsi di interpretazioni precedenti che devono essere in qualche modo mantenute, alle quali deve essere assicurata continuità intergenerazionale. Ma proprio per assicurargli quella continuità, l’unico modo sarà la re-interpretazione da parte di nuovi interpreti nel solco della tradizione ed entro parametri predefiniti e ‘fedeli’ all’originale. Il fatto che ogni interpretazione sia geograficamente e spazialmente situata, la colloca nella più ampia pratica sociale nella quale prende corpo: obbedisce a determinati obiettivi, risente del nuovo contesto e questi fattori intervengono nella ricreazione del senso.

Quest’ultimo aspetto rende dunque difficile stabilire norme e leggi teoriche valide universalmente per il fenomeno patrimoniale. Nelle scienze sociali lo spazio è mediato dalla cultura e dal contesto specifico di provenienza, il tempo stesso non si configura come dimensione trascendentale ma deve essere studiato come calato in un preciso ritmo del gruppo sociale, scandito da eventi, avvenimenti e da tradizioni. Il fatto che le scienze della cultura non debbano scimmiottare le forme di legittimazione e le regole disciplinari delle scienze esatte non significa in ogni caso che non debbano aspirare al rigore teorico e metodologico.

Il punto è che le discipline del testo, per Rastier, sono da considerarsi “arti” in quanto accolgono nel loro fare, nella metodologia, in ogni ambito delle loro ricerche giudizi soggettivi di valutazione estetica e sono basate su categorie valutative per le quali non esiste una possibilità di una misurazione esatta. Rastier procede quindi a interrogare ciascuna delle discipline del testo su una problematica comune, per far risaltare le specificità e gli aspetti di possibile innesto reciproco. A partire dal problema del testo e della sua interpretazione, egli riafferma l’autonomia della sfera culturale e, proseguendo nella direzione indicata da Ernst Cassirer (1944) con la filosofia delle forme simboliche, giunge a delineare un progetto di rifondazione per le scienze umane.

Cassirer, massimo esponente della scuola di Marburg, si propose di determinare le diverse forme fondamentali della comprensione del mondo. Tra queste incluse tutte quelle sfere della cultura (linguaggio, mito, religione, arte) i cui fenomeni non potevano in alcun modo essere ricondotti a leggi. Per Cassirer la filosofia doveva essere la critica della cultura poiché in ognuna

delle diverse forme si attua “un determinato processo formativo, di cui il mondo non è materia ma risultato”.

Nel linguaggio, nel mito, nella religione, nell’arte si manifesta, non meno che nella conoscenza scientifica, “l’autoesplicazione dello spirito, che è l’unico modo onde possa sussistere una realtà”, almeno in quanto oggetto di contemplazione spirituale. La conclusione generale della critica della cultura è che l’essere umano ha come essenza vera e principale quella di essere animal symbolicum. Più ancora che animale razionale, come aveva dogmaticamente enfatizzato Aristotele, Cassirer individua nella capacità umana di creare e manipolare i simboli il carattere comune a tutte le attività umane.

L’impresa di Rastier di una federazione delle “scienze della cultura”23 si basa su questo orizzonte concettuale, questo riconoscimento del carattere fondamentalmente semiotico dell’universo umano: a partire a questo traccia le basi di un progetto di studio non nazionalmente localizzato ma cosmopolita o interculturale che possa dimostrare la fecondità attraverso una efficacia di analisi. Tale insistenza sull’inevitabilità dell’approccio cosmopolita alla scienze dell’essere umano appare come una accettazione del fatto che la storia ha costretto le popolazioni alla rimozione, alla negazione del caratteri unitario delle forme simboliche, caratteristiche a tutte le attività umane. Se lo spirito umanista tendeva a porre l’anthropos al centro del proprio interesse (senza una qualificazione nazionale o di parte), il modello occidentale moderno sembra aver imposto una distanza rispetto alle varianti delle culture: l’opposizione noi vs. loro ha prevalso sul senso di appartenenza ad un’unica storia mondiale.

In questo senso il momento storico che stiamo vivendo mette in crisi, problematizza quantomeno il concetto di altro, che fonda il senso di identità storica, culturale, individuale. I flussi migratori, la frantumazione dei gruppi sociali, le appartenenze multiple a comunità reali o virtuali rompe l’immagine del mondo come territorio in cui ciascuno ha una propria collocazione precisa dentro la quale sono assicurate unità di linguaggio, identità, conoscenza.

Per quanto riguarda la necessità di pervenire a una concezione comune di oggettività nelle scienze sociali, argomento sul quale Rastier torna in diverse circostanze, le modalità non potranno che essere distinte da quelle delle scienze naturali. Anche in queste ultime la situazione dell’osservatore entra a far parte dell’osservazione sperimentale ma è determinata da coordinate fisiche e individuabili nello spazio tempo. Quel che avviene nelle scienze sociali è che persino lo spazio diventa mediato dalla cultura, mentre il tempo fisico, come detto, sarà influenzato dalla storia e dalla tradizione di quella comunità specifica.

23 L’espressione “scienze della cultura” per Cassirer si opponeva implicitamente a “scienze della natura”; tale

contrapposizione si sovrappone a quella delineata da Dilthey fra “scienze dello spirito” (Geisteswissenschaften) e “scienze della natura” (Naturwissenschaften).

Peculiarità delle scienze della cultura è quella di assommare alla situazione storico- temporale dell’osservatore anche quella dell’interprete ovvero dello studioso o del critico che si propone di analizzare un dato fenomeno culturale: ciò comporta un evidente incremento di complessità nelle dinamiche di formazione del senso e una rafforzata incidenza della (già presente) soggettività. Negare l’incidenza della valutazione e del giudizio dello studioso è quindi negarne in realtà il presupposto di base, fondamentale. Al contrario, dice Rastier, le scienze della cultura devono mostrare e palesare fino in fondo il carattere costruito di un giudizio, di un’istituzione proprio per chiarire come il senso sia dato nell’interpretazione di una pluralità di soggetti.

L’oggettività delle scienze della cultura si costituisce pertanto grazie al riconoscimento