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Si è prestata, durante la visione dei film, molta attenzione a quello che i personaggi e soprattutto i protagonisti consumavano.

Un primo elemento che spicca in tutti è il mezzo di trasporto: nessuno dei personaggi principali dei quattro film ha la macchina.

Questo è comprensibile nel caso di Li, di Kawaku e di Vesna, poiché tutti e tre sono molto poveri, ma non nel caso di Irina che ha tanti soldi.

Si vede una scena dove gli cascano pacchi e pacchi di banconote dal controsoffitto ed un’altra dove apre un conto in banca di 8.000€. Tra l’altro si capisce nel film che vuole lavorare dagli Adecher solo perché pensa di ricongiungersi con sua figlia, gli altri lavori che le vengono offerti li rifiuta.

Eppure, anche se ovviamente potrebbe permettersela, Irena non ha la macchina e nemmeno la patente. La seconda è costretta a prenderla solo per poter lavorare dagli Adecher.

Dato il forte valore della macchina come bene status symbol, questo elemento ha sicuramente un significato. Ancora una volta si vuole far capire la condizione disagiata della persona straniera e quindi, anche se in alcuni casi si vuole dare l’idea della ricchezza, comunque non si arriva mai a far possedere alla persona straniera una macchina, perché altrimenti si potrebbe pensare che la sua condizione non sia tanto male infondo e si rischierebbe che lo spettatore non colga la gravità della situazione.

È più o meno lo stesso motivo per cui nessuna delle quattro storie ha un lieto fine. Anche in Vesna va veloce il tema della macchina è ben esposto dal confronto tra Vesna ed Antonio. Vesna prende il pullman o fa l’autostop; arriva tuttalpiù a prendere un taxi nel momento in cui il suo lavoro da prostituta le incomincia a fruttare soldi, ma non le viene mai nemmeno in mente di comprarsi una macchina.

Antonio invece ce l’ha e molte scene vengono girate proprio in quella macchina. Eppure lui fa il muratore, quindi un lavoro che in quanto a remunerazione è molto probabilmente paragonabile a quello di Vesna.

Il punto è proprio che l’automobile non si addice allo status di persona immigrata, anche perché implica tutta una serie di adempimenti burocratici che la persona immigrata non in regola non può compiere.

Questo non significa che in Italia le persone immigrate non possiedano macchine, significa piuttosto che i registi per inquadrare un personaggio in una certa situazione di disagio hanno ritenuto che non gli si addicesse il possesso della macchina e questo è avvenuto in tutti e quattro i film.

L’abbigliamento

In un film il vestiario è un elemento fondamentale che serve a descrivere il personaggio e a dare un’idea dello stesso allo spettatore. È opportuno dunque analizzare questo aspetto nei film presi in considerazione.

In Vesna va veloce l’abbigliamento è uno dei primi acquisti su cui Vesna punta non appena mette da parte un po’ di soldi. Cosa compra però? Una gonna nera e delle scarpe rosse col tacco.

Stesse scarpe rosse, anche se stavolta di vernice, verranno regalate a Irena dal suo “magnaccia” ed anche lei, nelle scene del passato, porta delle gonne corte.

C’è una specie di codice di abbigliamento che identifica la figura della prostituta e sicuramente gonna corta e scarpe rosse ne fanno parte.

Anche in Io sono li c’è il tema della prostituzione, seppur velato: la compagna di stanza di Li lavora di notte e ad un certo punto sarà in grado di scappare lasciando dietro di sé abbastanza soldi perché il figlio di Li possa venire in Italia.

Mentre Li ha i capelli corti, Lian li porta lunghi e sempre ben pettinati. Cura il suo aspetto, a differenza di Li.

Stessa dicotomia si riscontra nel personaggio di Irena. Prima, quando faceva la prostituta, era bionda e sempre ben vestita, mentre adesso è mora e va in giro con un lungo cappotto nero ed occhiali da sole altrettanto scuri. I capelli riccissimi contenuti da una semplice coda.

Per quanto riguarda Vesna questa dicotomia è più legata al quotidiano. Quando Antonio la ospita a casa sua, nel periodo in cui deve riprendersi dalla ferita, Vesna porta abiti larghi, una t-shirt grigia con dei calzoni beige ad esempio. In quel periodo non va mai a lavorare. Una sera però va a ballare con Antonio e poi gli chiede di fermarsi nella strada dove di solito si prostituiva. Solo a questo punto si vede che porta un tubino nero con le

scarpe rosse col tacco. Ed infatti Antonio nel vederla lì a parlare con una sua amica impazzisce. Vederla di nuovo in quei panni gli fa salire il sangue alle tempie.

Ma l’intuizione di Antonio non è completamente sbagliata. Si capirà solo in seguito ma Vesna si sta organizzando con la sua amica per andare a Milano.

Quindi l’abbigliamento più provocante e il tacco rosso compaiono di nuovo proprio quando Vesna passa dal ricoprire i panni della brava fidanzata a quelli della prostituta che ha i soldi e la libertà per fare quello che vuole. Questo ricorda molto il meccanismo del pendolo descritto da Askegaard, Arnould e Kjeldgaard (2005) e discusso nel paragrafo 1.4.. Vesna oscilla tra due idee di donna attraverso gli abiti, come le donne rumene intervistate da Chytkova (2011) facevano attraverso l’alimentazione.

In Pummarò il protagonista è un uomo e pertanto il suo abbigliamento spicca di meno, se non per il fatto che man mano che sale la penisola italiana Kawaku è costretto a vestirsi sempre di più per non soffrire il freddo al quale non è abituato.

Il tema della prostituzione però ritorna anche in questo film. Nanù, colei che porta in grembo il figlio di suo fratello, fa la prostituta a Roma con altre due ragazze africane. A un certo punto Kawaku le chiede perché fa quel lavoro, perché non cerca qualcos’altro. La risposta di Nanù? Le mani. Dice di avere delle mani bellissime, non come quelle di sua madre e sua sorella.

Come è noto mani sciupate sono sintomo di lavori faticosi, mentre fare la prostituta secondo Nanù non lo è, non fisicamente. Ed è un lavoro che paga bene.

C’è un punto di contatto in questo caso tra Nanù e Vesna. Entrambe si prostituiscono per loro scelta. Accettano quel lavoro, nonostante non lo gradiscano (soprattutto Vesna) perché gli frutta tanti soldi e con “poca fatica”. In effetti non si parla di una fatica fisica ma di una psicologica; purtroppo spesso si tendono a considerare i pesi dell’animo come minori rispetto a quelli del corpo, come qualcosa di sopportabile. Eppure a lungo andare sono quelli che fanno più male: “forse io un giorno riuscirò a dimenticare i miei incubi, sono i miei è più facile… ma tu?” (Irena al suo fidanzato, La sconosciuta, G. Tornatore, Italia/Francia 2006). Ma per adesso a Nanù e a Vesna non interessa. “Io penso invece che soltanto la malattia e la morte devono far soffrire. E la miseria.” (Vesna va veloce, C. Mazzacurati, Italia 1996).