• Non ci sono risultati.

Il contenuto dei testi scritti

Nel documento Lingua e società. La lingua e i parlanti (pagine 191-194)

Vi sono interessanti differenze tra i vari tipi di testi scritti. Ad esempio, le insegne sono generalmente sintagmi nominali che si riferiscono a individui, oggetti rilevanti oppure sono nomi propri. I manuali così come i testi narrativi (romanzi) sono generalmente dotati di un titolo ed eventualmente di più titoli relativi a parti individuabili del testo stesso. I titoli corrispondono ad aspetti rilevanti dell’argomento trattato o degli eventi riportati. In particolare i manuali presentano generalmente un inquadramento o un’introduzione degli argomenti, che preparano allo sviluppo delle materie presentate, etc. Il contesto di riferimento, nel caso di manuali o saggi scientifici, è creato da riferimenti bibliografici e note, ma tipicamente i testi scritti lo individuano rispetto a una sorta di ‘situazione immaginaria’, determinata da convenzioni sociali e da regole e tradizioni culturali. In generale, in effetti, i testi scritti fanno riferimento a particolari domini (scuola, mondo del lavoro) o a particolari tipi di lettore, definito dal suo grado di scolarizzazione, dalla capacità di comprendere i testi scritti, dai suoi interessi e altro ancora.

Secondo Halliday (1992[1985]), la lingua scritta, presenta i fenomeni (gli stati di cose e gli eventi cui si riferisce) come ‘prodotti’, cioè come oggetti di conoscenza non riferiti alla situazione particolare e alle particolari e occasionali conoscenze degli interlocutori. Possiamo considerare questo effetto come una conseguenza della separazione del testo scritto tra chi lo produce e chi lo legge. In effetti, i lettori tendono istintivamente a trattare il linguaggio scritto come qualche cosa di ‘dato’, cioè di ‘generalmente oggettivo, vero’, come sanno bene coloro che pubblicizzano un prodotto o che preparano la propaganda di un politico. Il mezzo scritto incute così una sorta di rispetto che è derivato dalla sua natura di linguaggio non disponibile ad essere discusso e costruito insieme dagli interlocutori in particolari situazioni.

LEttUrA E SCrIttUrA 189

A differenza della lingua scritta, l’interpretazione di frasi prodotte in una situazione dai parlanti è suscettibile di essere continuamente ristabilita, potremmo dire ‘rinegoziata’, via via che vengono introdotti nuovi elementi e a seconda delle condizioni stesse della conversazione. D’altra parte, tutte le volte che un interlocutore non è ugualmente noto o familiare agli altri, il linguaggio orale diventa meno ellittico e informale, nel senso che il parlante è costretto a inserire più informazione nei suoi enunciati, tramite una maggiore densità lessicale e una struttura di frase più articolata. Questo modo di parlare non è raro ma si correla a situazioni più formali, in cui gli interlocutori non si conoscono, o sono in una relazione di potere asimmetrica (cf. pff. 2.1, 2.2), o dipende dall’argomento. Tipicamente quando si vuole spiegare un fatto, oppure si tiene una lezione, si ricorre a un linguaggio orale con caratteristiche di maggiore informatività, basato su frasi subordinate e sull’inserimento di congiunzioni/preposizioni che esprimono i rapporti di tempo e di causa tra le frasi.

Interpretare un testo scritto vuol dire saper capire i diversi aspetti del significato di un testo che, come si è appena notato, è generalmente sganciato dal contesto del discorso o dalle conoscenze implicate dall’interazione diretta tra parlante e ascoltatore. Questa operazione richiede generalmente una particolare abilità interpretativa, che mette in gioco anche la capacità di riconoscere e capire un vocabolario molto più ampio e specializzato per particolari nozioni, rispetto a quello generalmente utilizzato nel linguaggio parlato o nei testi parlati. Questo aspetto spiega il fenomeno altrimenti osservato in particolare in recenti lavori da De Mauro (De Mauro 2004a,b), sul cosiddetto ‘analfabetismo di ritorno’. Cioè sulla possibilità che la disabitudine alla lettura porti molti parlanti, pur regolarmente scolarizzati e alfabetizzati, ad avere difficoltà non nel senso di incapacità a riconoscere le lettere ma a comprendere i testi scritti, appunto a causa della loro particolare organizzazione sintattica e lessicale.

A questo proposito risultano rilevanti i risultati forniti da un’inchiesta dello IALS (International Adult Literacy Survey) promossa dall’OCSE relativa alla capacità di capire e utilizzare l’informazione scritta, svolta in diversi paesi del mondo (Pedrazzini-Pesce e Tozzini Paglia 2003) nel periodo 1994-1998. L’inchiesta non riguarda la differenza tra analfabeti e alfabetizzati quanto piuttosto la capacità di interpretare le informazioni scritte (literacy ‘letteratezza’), e distingue 4 livelli: 1 = situazione di quasi analfabetismo; 2 = competenze limitate; 3 = competenze sufficienti per soddisfare le esigenze della vita quotidiana e del lavoro; 4 = grande capacità di comprensione ed elaborazione delle informazioni scritte. I risultati percentuali generali nel grafico in (23) (Pedrazzini-Pesce e Tozzini Paglia 2003) mostrano l’incidenza di ogni livello nei diversi paesi. Come si vede, i dati relativi all’Italia mostrano che il livello 1, cioè la scarsa capacità di comprensione dell’informazione scritta, riguarda più del 20% di parlanti.

[…] Percentuale di persone per livello di competenza nella comprensione dei testi in prosa, 1994- 1998.

In realtà le difficoltà nell’interpretazione del testo scritto (svantaggio linguistico) emergono già durante la formazione scolastica. Sobrero (2001) presenta i dati di un’indagine svolta in 16 regioni italiane alla fine degli anni ‘90 riguardanti scolari di 5a elementare. La ricerca mira a verificare le competenze ‘linguistiche e comunicative dei bambini’ in compiti di lettura/scrittura e di elaborazione di testi scritti, e distingue quattro variabili, cioè competenza semantico-lessicale, morfosintattica, testuale e pragmatico-comunicativa. Alle prove richieste sono assegnati i seguenti punteggi: 0-4 decimi per prestazioni insufficienti (situazione di ‘svantaggio’), 4-6 per un rischio di svantaggio, 6-8 e 8-10 per prestazioni via via più soddisfacenti. Il quadro generale mostra la distribuzione dei punteggi in (24):

(24) 0-6 = 3,1%, 4-6 = 15,9%, 6-8 = 46,2 %, 8-10 = 34, 8% (Sobrero 2001: 32).

Il punto interessante è che nella competenza testuale ben il 14,2% dei bambini mostra qualche grado di difficoltà di comprensione (punteggi da 0 a 6). Questo valore aumenta al 25,7% dei bambini in un sotto- insieme di prove che Sobrero (2001) chiama ‘competenza di lavoro sul testo’, e sale ulteriormente nelle prove relative alla capacità di muoversi nel testo, raggiungendo il 53,3%. Le difficoltà morfosintattiche e lessicali, che nei dati di Sobrero (2001) raggiungono percentuali rilevanti, suggeriscono ugualmente difficoltà interpretative del linguaggio scritto.

Il processo di apprendimento scolastico può ampliare l’esposizione linguistica del bambino, ad esempio in ambienti con lingua non standard, richiedendo l’acquisizione di una seconda lingua, con funzioni sociali diverse e comunque richiedendo il linguaggio scritto. Il punto è che spesso la scuola tende a trattare le differenze sociostilistiche legate all’uso orale, tradizionalmente viste come errori, in termini di categorie cognitive. In realtà, se ogni lingua è ugualmente formata sulla base della Grammatica Universale, gli ‘errori’ linguistici non possono essere interpretati come indizi di una formazione linguistica ancora parziale o di grado inferiore poiché corrispondono semplicemente a una varietà linguistica diversa rispetto a quella della scuola, di tipo standard e basata sul modello scritto. In effetti, gli studiosi del ragionamento hanno notato che l’alfabetizzazione non comporta effetti apprezzabili né sui processi deduttivi né sull’organizzazione lessicale o sintattica del bambino (cf. Olson 1995[1991]). Goody e Watt (1973[1962/63]:379) a loro volta sottolineano che:

[d]obbiamo rigettare ogni dicotomia basata sull’assunzione di radicali differenze tra gli attributi mentali dei popoli alfabeti e di quelli analfabeti e accettare l’opinione che le precedenti formulazioni della distinzione erano basate su premesse difettose e prove inadeguate.

191

la differenziazione linguistica

in italia

Torniamo, a questo punto, a esaminare le nozioni di lingua utilizzate. Nel loro uso corrente i termini lingua/ dialetto (varietà non standard) designano collezioni di espressioni linguistiche, cioè di ‘azioni, enunciati o forme linguistiche (parole, frasi)’ definite da Chomsky (1986) Lingua esterna. In questa prospettiva la lingua coincide con un insieme di espressioni linguistiche (enunciati, testi letterari o meno) collegate ad un determinato momento storico, di cui esprimono le caratteristiche sociali e culturali: ad esempio il lessico, i testi narrativi, poetici, filosofici, etc. rivelano i modi di pensare e aspetti dell’organizzazione sociale di comunità lontane nel tempo e nello spazio. È su questa base che viene stabilita una differenza tra mezzi linguistici che rispondono a criteri comunicativi più generali, chiamati lingue, e mezzi linguistici limitati a un uso ristretto, locale, di classe o di registro, chiamati dialetti/vernacoli. Infatti, la nozione tradizionale di dialetto implica una classificazione dei dati linguistici (enunciati, parole, morfemi, fonemi) basata sul loro ruolo dal punto di vista storico-culturale, stilistico, testuale e sociale. Il repertorio linguistico, cioè l’arrangiamento gerarchico delle diverse lingue ‘esterne’ in livelli (alto, medio, basso) corrispondenti ai contesti sociali che ne governano l’uso rispecchia questo approccio, col rischio di tradurre l’atteggiamento dei parlanti di una comunità in una concezione della lingua.

Presso i grammatici antichi la parola greca διάλεκτος poteva designare una parlata locale. E in effetti il termine dialetto designa il modo di parlare di una comunità linguistica geograficamente determinata; si parla inoltre di dialetti sociali per quelle varietà che si associano regolarmente a specifici strati sociali in società complesse. Infatti, processi come l’inurbamento della popolazione rurale, in particolare nella seconda metà del ‘900, e i cambiamenti sociali legati all’industrializzazione e allo sviluppo di ampi strati piccolo e medio-borghesi hanno fatto sì che la variazione dialettale e la commutazione tra dialetto e lingua standard assumessero un significato sociale e pragmatico (cf. De Mauro 1976). Ad esempio in molte città italiane l’uso del dialetto rappresenta una delle scelte del repertorio verbale e si collega a particolari situazioni comunicative, esattamente come il passaggio a varietà regionali e in generale a varietà di registro come suggerito dall’esame dei dati ISTAT riportati al pf. successivo.

Nel documento Lingua e società. La lingua e i parlanti (pagine 191-194)