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Il principio di uniformità: variazione e Grammatica Universale

Nel documento Lingua e società. La lingua e i parlanti (pagine 133-140)

Vi sono autori che ipotizzano che le lingue naturali e il linguaggio abbiano continuato ad evolversi. Di conseguenza, i fenomeni di cambiamento generalmente trattati come processi di variazione avrebbero la natura di processi evolutivi di natura adattiva. Questi autori contestano naturalmente la tesi dell’uniformità sostenuta da Chomsky e da altri studiosi, secondo la quale la base fisiobiologica del linguaggio è la stessa sia per le lingue antiche che per le lingue attualmente parlate (Labov 1994, Chomsky 2004b). Ad esempio Bichakjian (1992) sostiene che il passaggio dall’indoeuropeo, identificato con un protolinguaggio, alle lingue conosciute antiche e poi moderne corrisponde ad un vero processo evolutivo, nel senso darwiniano. In questa luce possono essere visti sia il passaggio dai sistemi fonetici con consonanti occlusive glottalizzate e aspirate a sistemi con occlusive semplici e fricative delle lingue indoeuropee moderne sia il passaggio da sistemi vocalici basati sulla durata (quantità) a sistemi basati sulla qualità delle vocali. Analogamente secondo Bichakjian i primitivi sistemi verbali si sarebbero basati sul contrasto tra verbi attivi e non attivi, mentre la comparsa della voce grammaticale sarebbe tardiva. Inoltre il protolinguaggio avrebbe avuto distinzioni di aspetto piuttosto che di tempo.

In sintassi una delle caratteristiche più rilevanti del protolinguaggio sarebbe la mancanza della ricorsività (cf. la discussione in Baldi e Savoia 2009, cap. 1), cioè dell’inserimento di una frase dipendente in una frase matrice per mezzo di una congiunzione (complementatore). È noto ad esempio che nella ricostruzione del proto-indoeuropeo non è identificabile una congiunzione subordinante comune, da cui sarebbero discese quelle presenti nelle lingue storiche (Watkins 1998, Comrie 1993). Sono ricostruibili le forme per elementi relativi, quella per ‘se’, ma non un unico complementatore di tipo ‘che’. Questo sembrerebbe suffragare l’idea che effettivamente c’è stato un cambiamento tra la lingua originaria e quelle più tardive, per cui la subordinazione proto-indoeuropea poteva essere basata solo su forme participiali o altre forme nominali

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del verbo, come in frasi latine del tipo ‘occisus est a cena rediens’ ‘fu ucciso mentre tornava da cena’, etc. In realtà l’impostazione che collega in maniera schematica proprietà strutturali e stadi evolutivi come appunto quella di Bichakjian (1992), appare fortemente ideologica da una parte, ed inadeguata dall’altra. È ideologica perché risponde chiaramente all’obiettivo di negare non solo l’innatismo chomskyano ma più in generale le concezioni dei paleoantropologi ormai concordi nel sostenere l’origine unica degli esseri umani e del linguaggio, affermando invece ipotesi legate al policentrismo evolutivo e linguistico, facilmente trasferibili a sostegno di concezioni razziste. L’ingenuità risiede nel fatto che questi approcci attribuiscono ad un tempo assoluto meccanismi che invece riaffiorano sistematicamente e ciclicamente nella storia delle lingue.

Consideriamo per esempio la mancanza di introduttori di frase o complementatori nel proto- indoeuropeo. In primo luogo dovremmo avere una chiara teoria del complementatore (che cos’è, che natura ha, etc.) e della subordinazione. Solo su questa base potremo pensare di ricostruire la storia dei complementatori in una famiglia linguistica. Potremmo arrivare a concludere eventualmente che i complementatori originari non si sono semplicemente continuati senza che per questo la capacità ricorsiva e inclusiva delle diverse lingue si sia modificata. Ad esempio, Manzini e Savoia (in stampa-b) identificano i complementatori con elementi nominali che incassano una frase; questa proposta è motivata in particolare dalla tipologia lessicale degli introduttori di frase, che possono essere etimologicamente collegati con elementi dimostrativi, come that dell’inglese, o dass del tedesco, o con altri elementi nominali, come che dell’italiano, che coincide con il pronome interrogativo che. Se questa proposta è corretta, l’introduttore di frase non corrisponde ad una categoria sintattica specializzata ma corrisponde semplicemente ad un elemento nominale, del tipo quello (che), il fatto (che), che cosa; di conseguenza ci possiamo aspettare che i complementatori siano stati sostituiti o ricostruiti nel corso della storia di una comunità linguistica. In secondo luogo la subordinazione di una frase all’altra non richiede necessariamente un complementatore esplicito, come nel caso di costrutti dell’italiano parlato/regionale del tipo ‘mi hanno detto (che) viene domani’, ‘penso (che) venga domani’, ‘chiudesse la finestra, sarebbe meno freddo’, etc. D’altra parte anche l’interrogativa indiretta e la relativa rappresentano forme di incassamento di una frase in un’altra, e, analogamente, l’incassamento riguarda anche l’inserimento di un complemento o di un aggettivo in un sintagma nominale; la stessa combinazione di elementi morfologici all’interno di parola comporta un’organizzazione strutturale, che ricalca quella della frase. In ultima analisi non sembra essere propriamente l’incassamento di una frase esplicita in un’altra per mezzo di una formativo specializzato la caratteristica fondamentale della sintassi della ricorsività e della subordinazione nelle lingue naturali, quanto la capacità di formare strutture complesse a partire da strutture più semplici (cf. Baldi e Savoia 2009, cap. 1).

Analogamente, nel caso del componente fonologico, sistemi vocalici complessi, sensibili alla struttura sillabica e alla durata, caratterizzano molte lingue naturali moderne, e, quel che è più importante, sono emersi come evoluzione di sistemi organizzati diversamente, come nel caso di alcune varietà romanze. Ad esempio il sistema vocalico della varietà di Venosa (Matera) separa le vocali toniche che ricorrono in sillaba aperta [e: ai ə: au o:] comprendenti vocali lunghe o dittonghi, da quelle che ricorrono in sillaba chiusa *o in una sequenza con accento sulla terzultima (proparossitona) [i ɛ a ɔ u], comprendenti vocali brevi; l’inventario delle atone comprende [ə a u] in protonia e la sola [ə] in postonia (cf. Savoia e Carpitelli 2008). Il sistema quindi include vocali lunghe e non lunghe; inoltre un risultato della distribuzione rispetto alla struttura sillabica e all’accento è che le forme lessicali hanno più alternanti a seconda della loro struttura flessiva, riproducendo condizioni confrontabili con quelle delle alternanze vocaliche delle lingue antiche. La grammatica di questa varietà prevede quindi un meccanismo di alternanze connesse alla struttura sillabica e alla struttura prosodica della parola del tipo illustrato in (8a), a cui si aggiungono le alternanze dovute alla metafonia originaria (cf. pf. 7.1, 7.1.1), in (8b).

(8) Venosa

a. [rairə] ‘(lui) ride’/[rirənə] ‘ridono’/[rərimmə] ‘ridiamo’, [kausə] ‘(io) cucio’/[kusənə] ‘cuciono’/[kusimmə] ‘cuciamo’, [lə:və] ‘(io) lavo’ vs. [lavənə] ‘lavano’

b. [mo:rə] ‘muore’/[mu:rə] ‘muori’ /[mɔrənə] ‘muoiono’.

È interessante osservare che in molte varietà settentrionali italiane, a seguito della cancellazione della vocale finale, il contrasto tra vocali lunghe o dittonghi (da sillabe aperte originarie) e vocali brevi (da sillabe chiuse originarie) presenta una distribuzione non predicibile, come nelle varietà friulane esemplificate qui dai dati di Cordovado. Come si vede, i contesti di vocale lunga o dittongo in (9a) non sono più distinguibili da quelli di vocale breve in (9b) dato che in entrambi i casi il nucleo tonico è seguito da un’unica consonante. Si è costituito quindi un sistema che separa vocali lunghe da vocali non lunghe, come rappresentato in (9a’, b’). In (9a’) la rima R del nucleo tonico include anche una posizione di coda, qui riempita dalla seconda parte del dittongo; in (9b’) la rima è semplice e contiene il solo nucleo tonico.

(9) Cordovado

a. in contesto originario * _ CV# b. in contesto originario * _CCV

na:s ‘naso’ lat ‘latte’

sɛit ‘sete’ dʒat ‘gatto’

mɛis ‘mese’ gras ‘grasso’

vɔus ‘voce’ sɛk ‘secco’

nɔuf ‘nuovo fɔr ‘forno’

a’. A R A R b’. A R A R | | | | | | | | | N | N | N | N | | | | | | | | | x x x x x x x x x n [ɔ u] f Ø f ɔ r Ø

Analogamente l’organizzazione del sistema verbale sulla base dell’aspetto non sembra affatto un tratto arcaico. Anzi, le lingue romanze hanno costruito almeno in parte un sistema in cui i costrutti con ausiliare denotano proprietà aspettuali come il risultato di un evento o la sua non completezza/irrealtà (progressivo/ imperfettivo), piuttosto che temporali.

Occorre tener presente a questo proposito che i diversi approcci all’evoluzione cognitiva dell’uomo, all’emergere del linguaggio e alla variazione linguistica (Hauser, Chomsky e Fitch 2002, Jackendoff 2002, Pinker e Jackendoff 2005, Nichols 1992, Myers-Scotton 1992) implicano che le lingue antiche e le lingue attualmente parlate dipendano da uno stesso insieme di principi e di dispositivi. Tutte le lingue naturali sono cioè spiegabili sulla base dello stesso insieme di proprietà strutturali. In una prospettiva di tipologia comparativa, Nichols (1992) conclude che

No evidence of anything like speciation has been found in this or any other typological work […] Languages from typologically very different areas have the same latent structural potential […] In summary, this survey has uncovered no evidence that human language in general has changed since the earliest stage recoverable by the method used here There is simply diversity, distributed geographically. (Nichols 1992: 277)

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Ciò vale sia per le lingue più antiche anche solo approssimativamente ricostruibili tramite l’analisi comparativa, sia per le lingue non più parlate ma documentate, sia per quelle contemporanee con parlanti nativi viventi. Se ammettiamo, come è ragionevole, che la base fisiobiologica del linguaggio è la stessa sia per le lingue antiche che per le lingue attualmente parlate, ne deriva la conclusione che i fenomeni di cambiamento e differenziazione del passato debbano essere spiegati negli stessi termini validi per la differenziazione attualmente osservabile. La tesi dell’uniformità è già riconosciuta come uno strumento euristico fondamentale nella ricerca e nella ricostruzione linguistica da uno dei testi fondamentali della linguistica ottocentesca, le Morphologische Untersuchungen di Osthoff e Brugmann (cf. pf. 5.1). Come nota Labov (1994), questo presupposto è alla base di qualsiasi tentativo di comprendere i meccanismi di cambiamento; nel passato cioè le cose non andavano diversamente da oggi, e i parlanti erano soggetti agli stessi processi oggi osservabili. L’approccio mentalista, al quale ci richiamiamo in questo libro, permette di rendere conto della variazione in maniera interessante, assumendo che al di sotto di differenze superficiali tutte le lingue riflettono uno stesso insieme di principi corrispondenti ad una stessa base cognitiva. Ogni lingua naturale corrisponde a un sistema mentale di conoscenza dello stesso tipo, che immagazzina informazioni riguardo al suono, al significato e all’organizzazione strutturale (Chomsky 2000a,b, 2004b) (cf. pf. 1.1). Assumere una facoltà di linguaggio geneticamente determinata suggerisce che

[…] the diversity and complexity can be no more than superficial appearance […] the search for explanatory adequacy requires that language structure must be invariant. (Chomsky 2000b:7)

Come discusso al pf. 4.3, è naturale vedere nella variazione linguistica il risultato dell’interazione di un sistema grammaticale/concettuale universale e innato con le proprietà semantiche degli elementi lessicali, apprese dal parlante per ciascuna lingua (Chomsky 1995, 2000a,b).

Abbiamo discusso ai pff. precedenti la possibilità che la variazione si correli a fenomeni rilevabili nel processo di acquisizione. Poiché non accede che parzialmente all’informazione strutturata nella lingua a cui è esposto, il bambino può applicare soluzioni diverse da quelle della grammatica adulta anche se ugualmente previste/ammesse dalla facoltà di linguaggio. Il lessico della fase di acquisizione e quello di L1 risulteranno perciò almeno in parte differenti, nei termini usuali della variazione linguistica (Savoia e Manzini 2007, Manzini e Savoia 2008, in stampa-a,b). Naturalmente, dobbiamo pensare che il cambiamento e la variazione linguistica si associno anche all’uso linguistico dei parlanti adulti. I vari tipi di mescolanza linguistica (cf. capp. 4, 7) mettono in luce le particolari condizioni nelle quali i processi interpretativi degli enunciati e il riconoscimento e la produzione dei suoni possono forzare la rideterminazione delle proprietà semantiche o fonologiche degli elementi lessicali. Un ruolo cruciale può dipendere dai prestiti e dalle neoformazioni lessicali, introdotte dai parlanti quando sostituiscono il lessico di L1 con le forme di L2 (Matras 2000). In particolare, se sono gli elementi lessicali di una lingua a registrare le proprietà morfosintattiche rilevanti per l’interpretazione, la maniera in cui i prestiti lessicalizzano le categorie grammaticali e semantiche avrà effetto sulla computazione di frase. Analogamente, i fenomeni interpretativi che abbiamo rapidamente esaminato al cap. 4 possono avere l’effetto di favorire o fissare nuove letture lessicali, come suggerisce Slobin (2002; cf. cap. 4). In un quadro così ristretto, la variazione morfosintattica dipende da quali componenti concettuali il lessico rende accessibili alla sintassi. Il meccanismo di acquisizione rappresenta quindi la cerniera che correla le proprietà linguistiche universali alla variazione lessicale. In sintesi, una lingua comprende parole con certe caratteristiche morfolessicali che corrispondono a un determinato tipo di organizzazione lessicale e hanno la conseguenza di determinare un certo tipo di organizzazione sintattica. Da questo possono derivare le differenze superficiali da sempre osservate nelle lingue.

Il concentrarsi di forti differenze linguistiche in un particolare territorio pone questioni interessanti sia dal punto di vista storico-ricostruttivo sia dal punto di vista descrittivo e teorico. Nichols (1992) ritiene

che le ‘zone residuali’, cioè aree ad alta concentrazione di differenze linguistiche, almeno in parte non influenzate o non imparentate con le lingue di ampia diffusione, come l’area del Caucaso o la penisola balcanica, rappresentino un ‘microcosmo’ della differenziazione linguistica possibile. Queste situazioni, come anche il quadro della variazione dialettale italiana che esamineremo al cap. 7, richiamano alcuni dei tratti tipici che Nichols (1992: 21) attribuisce alle ‘zone residuali’, come l’‘alta diversità strutturale’, la mancanza di processi apprezzabili di ‘diffusione’ e di ‘chiari centri di innovazione’ pur in presenza di ‘chiari tratti areali’, bilinguismo e multilinguismo come strumento di comunicazione tra comunità diverse:

[…] the existence of internal diversity and its actual profile are stable and obviously vary natural situations. Diversity of a particular kind may even be regarded as the state to which a group of languages will naturally revert if left undisturbed, […] Spread zones, in contrast, are typically highly divergent from one another, but each is internally quite homogeneous […] Just which language spreads in a spread zone is a matter of historical accident, and this historical accident can distort the statistical distribution of linguistic types in an area […]. (Nichols 1992: 23)

Anche lo spazio fonetico risulta ristretto dalla facoltà di linguaggio, e la variazione che lo interessa corrisponde alla maniera in cui i lessici attuano le restrizioni e i meccanismi prosodici in esso contenuti. Ad esempio, l’evoluzione dei sistemi fonologici ha dato origine ad una micro-variazione relativa al modo in cui le differenze di struttura metrico-sillabica sono registrate dalle proprietà fonologiche dei nuclei vocalici. La micro-variazione fonologica caratterizza in effetti molte situazioni dialettali italiane, come nel caso analizzato nel lavoro esemplare di Carpitelli (2007) sull’organizzazione sillabica e sulle proprietà timbriche del nucleo tonico nei sistemi vocalici di varietà parlate in alcuni villaggi di una piccolissima zona della Lunigiana (Toscana nord-occidentale). Carpitelli (2007) mostra in particolare che le differenze tra varietà e varietà pur riflettendo uno schema distribuzionale analogo basato sul contrasto tra sillaba aperta e sillaba chiusa, corrispondono a sottili differenze qualitative e strutturali nel contenuto delle vocali e a un diverso modo di occupare lo spazio vocalico. I dati in (10), relativi a Cargalla in (a), Montelungo Superiore in (b), Bratto in (c), mostrano infatti differenze qualitative e una diversa organizzazione dei sistemi. Come si vede i sistemi vocalici di sillaba chiusa distinguono in tutte le varietà sette timbri vocalici, anche se con distribuzione diversa nello spazio fonologico; in sillaba aperta il sistema a cinque vocali di (10a) contrasta con quello a sei vocali di (10b) e con quello a sette vocali di (c).

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(10) (da Carpitelli 2007: 331, 337-338, 339)

a.

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Condizioni di micro-variazione come quelle appena considerate, generalmente attestate dalla distribuzione dei fenomeni dialettali confermano l’idea che la variazione linguistica spontanea riflette non restrizioni di tipo funzionale, ma restrizioni e proprietà di tipo strutturale, cioè intrinseche alla Grammatica Universale. In altre parole, la variazione linguistica non è che la naturale maniera di attuarsi dei dispositivi cognitivi che costituiscono la facoltà umana di linguaggio.

5.4. la ricostruzione dei processi di cambiamento in rapporto alle condizioni concrete di vita

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