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Rapporti interculturali e stereotipi

Nel documento Lingua e società. La lingua e i parlanti (pagine 80-82)

3.5. La comunicazione interculturale: identità e differenze come costrutti simbolici

3.5.1. Rapporti interculturali e stereotipi

In questo senso e in qualsiasi modo si considerino le culture in ordine epistemologico (essenza, processo, discorso, accidente) risulta innegabile il loro rapporto simbiotico con la comunicazione. Ne discende, quale naturale corollario, la necessità di stereotipi e di quadri interpretativi (frame) per agevolare la lettura complessa e ridurre il disagio comunicativo di cui si fa ogni giorno esperienza. Il discorso pubblico, e i suoi veicolatori - in altre parole il circuito politico e quello dei media - ripropongono tout court le stesse posizioni asimmetriche di potere dei differenti gruppi sociali coinvolti nel processo. La forza comunicativa espressa nel pregiudizio annulla, nelle rigide forme dello stereotipo, l’insorgenza delle incomprensioni sperimentate dagli attori degli incontri/scontri sociali. La precomprensione della realtà è un tratto ineliminabile così come la costruzione

di preconcetti come anticipazione di concetti più adeguati a descrivere la realtà. Del resto, il pregiudizio è costitutivo della realtà storica dell’individuo in maniera superiore rispetto al giudizio a sua volta condizionato dal tempo e dal contesto che abita. Lo stereotipo, in quanto standardizzazione di alcuni tratti, attributi o comportamenti presenti nell’esperienza, non può dirsi falso ma parziale, rigido e deindividualizzante (cf. pf. 3.4). La singolarità, infatti, rappresenta un elemento di disturbo poiché indebolisce lo stereotipo e con esso anche molte nostre sicurezze. Infatti, come ricorda Lippmann (2004[1922]:73) oltre ‘all’economia di sforzo’ lo stereotipo ci consente la difesa della nostra tradizione e il mantenimento del nostro posto all’interno di una società e di una realtà che, sebbene non possa dirsi realtà-realtà, è pur sempre un’immagine di un mondo possibile al quale ci siamo abituati e nel quale sappiamo muoverci. In quest’ottica, lo stereotipo non rappresenta soltanto una scorciatoia cognitiva che ci consente di organizzare l’enorme quota informativa della quale facciamo costante esperienza ma anche la ‘garanzia del rispetto di noi stessi’ e della nostra ipotesi di mondo (ivi:74).

Molte informazioni inscritte nello stereotipo sono implicite e per questo motivo difficilmente modificabili nel loro potenziale induttivo; infatti, l’atteggiamento ostile verso la persona tipizzata raramente viene ricomposto da informazioni che vanno nel senso contrario e che di solito vengono classificate come eccezioni alla regola. Il semplice fatto di appartenere a categorie differenti dà luogo, una volta che a queste categorie siano stati attribuiti significati di valore, a incomprensioni e conflitti. Questo per dire come lo schema interpretativo alteri, falsandola, l’operazione deduttiva per cui attraverso una sorta di automatismo retorico/ cognitivo si considera una parte per il tutto. In una prospettiva che intuitivamente può apparire paradossale e contraddittoria la comunicazione si alimenta proprio delle differenze culturali ovvero del carattere ideologico del concetto di cultura riducendo a questa diversità la complessità della questione.

I viaggi di Gulliver scritto da Jonathan Swift nel 1726 racconta di Lilliput un paese violentemente scosso dal

confronto tra i Tacchi alti e i Tacchi bassi e dei rancori che impediscono ai due gruppi anche di mangiare, bere o conversare insieme. Ma, oltre a questi contrasti interni, i lillipuziani devono fronteggiare anche le minacce esterne provenienti dai nemici di Blefuscu i quali, spalleggiati da alcuni traditori interni, attentano alla sicurezza del paese di Lilliput. I motivi del contendere riguardano questioni banali - gli uni mangiano le uova sode rompendole dall’estremità più piccola, gli altri, i ‘big endians’ (rompidallapartegrossa), si sono intestarditi a romperle da quella più grossa – e così il sanguinoso conflitto va avanti per ‘trentasei lune’. ‘Swift scrive in un’Inghilterra che aveva ben viva memoria delle guerre di religione e sembra riprendere, in chiave narrativa ed allegorica, le idee di John Locke sulla tolleranza. Lilliput è divisa e minacciata da questioni inesistenti che si dovrebbero comporre con il buon senso; esattamente come, secondo Locke, il principio della tolleranza dovrebbe indurre le diverse comunità religiose a cercare una forma civile e proficua di convivenza’ (Naso 2004:82). ‘Un papista [scrive Locke 1999(1685):38] se crede che sia veramente il corpo di Cristo ciò che un altro chiamerebbe pane, non arreca nessun torto al suo concittadino. Un ebreo, se non crede che il Nuovo Testamento sia la parola di Dio, non altera i diritti civili. Un pagano, se ha dubbi sull’uno e sull’altro testamento, non per questo deve essere punito come un cittadino disonesto’. L’identità appare, in questa prospettiva, il presupposto ideologico per alimentare il conflitto e la divisione tanto da indurre Naso (2004:82) a parlare di una vera e propria ‘patologia sociale’ nella realtà odierna (cf. De Vita 2003).

Kymlicka (1995) immagina una ‘cittadinanza multiculturale’ in grado di superare il riduzionismo identitario proprio del comunitarismo e di salvaguardare, al contempo, i diritti rivendicati dalle minoranze etniche nei confronti delle maggioranze nazionali. Il riconoscimento della cittadinanza, della libertà e dell’uguaglianza tra gruppi – minoritario e maggioritario – rispondono all’esigenza di mantenere le peculiarità e i tratti caratterizzanti i gruppi ma incontrano il limite di una visione statica e chiusa del gruppo al pari di altre chiusure e limitazioni delle singole identità. Il comunitarismo appare, infatti, come una risposta forte ad una società che si oppone alle rivendicazioni identitarie. In altri termini, pur simpatizzando con la volontà espressa da Kymlicka (1995) di tutelare oltre all’individuo anche il gruppo che abita occorre osservare come, di fatto, questa prospettiva allarghi l’omologazione dei diversi individui all’omologazione tra gruppi.

CoNtENUtI IDENtItArI E IDEoLoGICI DEL LINGUAGGIo 79

Benhabib (2005) argomenta in favore di un universalismo interattivo per il quale si arriva a conoscere l’identità dell’altro esclusivamente attraverso il racconto che l’altro fa di sé. La piena coscienza di sé passa, del resto, attraverso il riconoscimento dell’altro e del diritto alla differenza, quella stessa differenza che per Todorov (1995:97) ha ‘di buono, che ci apre all’universalità’.

Il carattere riduzionistico dell’identità impone la necessità di spostare l’attenzione da questa verso la diversità intesa come tale e non come un qualcosa che si relaziona con l’identità. In altre parole, occorre imparare a leggere la complessità contemporanea in una prospettiva diversa rispetto al concetto di identità. Assumere la propria diversità rispetto a una o all’altra delle appartenenze, vivere la propria identità come la confluenza di queste appartenenze in una sola induce, infatti, a considerarla come unica e pertanto come strumento di esclusione e conflitto con le diversità. Su questo punto, Morin (2000[1999]:75) osserva:

[d]obbiamo contribuire all’auto-formazione del cittadino italiano (o francese, tedesco) e fornire la conoscenza e la coscienza di ciò che significa una nazione. Ma dobbiamo anche estendere la nozione di cittadino a entità che non dispongono ancora di istituzioni politiche compiute, come l’Europa per un Europeo, o che non dispongono per niente di un’istituzione politica comune, come il pianeta Terra. Una tale formazione deve favorire il radicamento all’interno di sé dell’identità nazionale, dell’identità europea, dell’identità planetaria.

In altre parole, né da una rinuncia all’identità (come propone il mito di Eco), né dalla sua assolutizzazione (come nel mito di Narciso) si potrà ottenere come risultato quello del dialogo tra diverse culture all’interno di una cornice pluralistica.

Nel documento Lingua e società. La lingua e i parlanti (pagine 80-82)