• Non ci sono risultati.

La creazione di un nuovo sistema semantico

Nel documento Lingua e società. La lingua e i parlanti (pagine 72-75)

3.4. Identità, stereotipi e mezzi di comunicazione di massa: un universo simbolico coercitivo

3.4.1. La creazione di un nuovo sistema semantico

Un aspetto della diffusione di una semantica e una pragmatica uniformi nel quadro dei processi di globalizzazione, discusso da Bourdieu e Wacquant (2004), è l’affermarsi nelle classi emergenti dei paesi avanzati di una sorta di imperialismo simbolico tramite un lessico, come ‘globalizzazione, flessibilità, governance, nuova economia, multiculturalismo, etnicità, identità, etc.’, che ha scalzato termini come capitalismo, sfruttamento, classe, dominio, disuguaglianza. Secondo Bourdieu e Wacquant (2004) questo cambiamento semantico implica una nuova categorizzazione della società, contrapposta alle conquiste sociali del Novecento, e dà luogo ad ‘una violenza simbolica’, ad un rapporto di comunicazione ‘coercitivo’, mirante a universalizzare il particolarismo di un’unica esperienza storica. Ad esempio la nozione di ‘multiculturale’ nasconderebbe l’effettiva discriminazione esistente nella società americana e l’assenza di un vero pluralismo culturale, a beneficio di un’imprecisata etnicità. Anche la nozione di globalizzazione è polisemica e viene generalmente usata per ‘rivestire’ di ecumenismo culturale e fatalismo economico ‘gli effetti dell’imperialismo americano, facendo apparire un rapporto di forza transnazionale come una necessità culturale’. Sartori (2000) propone considerazioni analoghe sulla nozione di ‘pluralismo’, di cui richiama i nuovi significati, sfuggenti e imprecisi:

Da mezzo secolo a questa parte il ‘novitismo’ si è dedicato a ‘sciupare parole’ e a sgangherare il linguaggio sul quale si fonda il procedere delle idee chiare e distinte. E pluralismo è sicuramente tra le parole sciupate, e anzi una delle più sciupate. Oggi ‘pluralismo’ è parola di moda; e per ciò stesso è diventata parola abusata e trivializzata. (Sartori 2000:18,19)

Clifford (2004:111) critica certe riserve sulla nozione di multiculturalismo, dato che per quanto questa nozione sia stata ‘fuorviante’, tuttavia anche nozioni come ‘identità, sovranità, cultura, comunità’ non possono essere trattate in termini assolutistici. Oggi la questione dell’identità rinvia a significati molto diversi visto che ormai lo stesso gruppo etnico può essere deterritorializzato e comunicare ugualmente: ‘[l]e esperienze di cittadinanza e di identità sono spesso in modo complesso spartite tra i luoghi’, mancando ormai un legame immediato tra liberazione e identità etnica e nazionale. Bernard Cassen su Le Monde diplomatique (gennaio

2005) ricorda che ‘la globalizzazione neoliberista non riposa solo su fattori materiali’ come la ‘produzione di beni e servizi, ma incorpora anche e soprattutto il dominio delle menti, e quindi dei riferimenti e segni culturali, e più particolarmente dei segni linguistici’.

Un punto cruciale, sul quale è opportuno soffermarci riguarda il fatto che i media operano una rappresentazione della realtà che condiziona i repertori cognitivi del pubblico in misura maggiore o minore a seconda dell’esperienza diretta con il fenomeno che descrivono e della capacità di interpretazione (dei media e dei lettori). In questo senso, la scelta lessicale operata dai media connota, attraverso un processo di attribuzione di significato, la semiotica del potere riproducendo i significati prevalenti dei blocchi sociali e dei loro universi simbolici che vi si identificano. In questa prospettiva è possibile comprendere le sostituzioni lessicali che costellano l’esperienza delle diverse società. Il clandestino in Italia è il sans papier in Francia e l’undocumented negli Stati Uniti; l’apparente equivalenza dei termini nasconde una scelta che i diversi paesi hanno adottato per individuare un’irregolarità ponendo l’accento sulla posizione dell’individuo o sull’assenza dei documenti. Le realtà rappresentate dai media, e legittimate dalla presenza stessa sul mezzo, costruiscono un quadro simbolico di riferimento che privilegia il fattore della notiziabilità, legata alle pulsioni prevalenti nella società, sopra quello della rappresentazione oggettiva.

Ad esempio, molto spesso il termine ‘extracomunitario’ è preferito dai media al termine ‘straniero’ perché connota l’individuo per qualcosa che non è (extra) e rimanda ad un’associazione di significato che rivendica la proprietà di un territorio. Anche la scelta di impiegare il termine ‘immigrato’, risponde all’esigenza dei media di attirare l’attenzione sul fatto che chi arriva modifica, in qualche misura, la realtà di chi in un luogo c’è già. Faloppa (2006) osserva che la designazione degli immigrati extracomunitari è passata dai termini ‘straniero’ e ‘immigrato’ fissati negli anni ‘80, al termine ‘extracomunitario’ per arrivare a ‘clandestino’. Quest’ultimo termine si attesta sul significato di ‘irregolare/illegale’ e quindi ‘abusivo’, perdendo l’accezione originaria di segretezza. Il risultato è che ‘clandestino’ include comunque una valutazione negativa dell’immigrato, identificato con chi compie atti illegali e abusivi, rispecchiando e suggerendo un atteggiamento pregiudiziale condiviso dall’ordine conformistico del pensiero, che i media diffondono e fanno proprio. Clandestini finisce per denotare gli immigrati come tutti coloro che vivono ai margini della società, dagli zingari ai venditori ambulanti, identificando la categoria della diversità. La produzione di questo senso è primaria, tanto che i media parlano di clandestini anziché di emigranti o fuggitivi ancora prima che queste persone arrivino sul territorio italiano, col risultato di trasmettere una realtà solo immaginata, ma corrispondente ai valori simbolici di riferimento.

La scelta lessicale, al di là delle apparenze, è ben lontana dal dirsi neutra poiché mette in essere campi semantici e associazioni di senso completamente differenti. Si è visto, infatti, che i termini straniero e extracomunitario privilegiano la dimensione legata al territorio mentre i termini immigrato e, ancora in modo più evidente, clandestino rimandano agli effetti prodotti su chi un territorio lo abita stabilmente. Il fatto di ignorare il motivo della scelta di mobilità dà conto della volontà di insistere sulle ricadute sociali che investono le società di destinazione. La Scuola di Chicago ha individuato nella ‘teoria dell’etichettamento’ il meccanismo attraverso il quale, molto spesso, il soggetto tipizzato finisce per indirizzare il proprio comportamento nella direzione tracciata dalla rappresentazione stereotipica. A questo proposito Gallissot, Kilani e Rivera (2001:206) ricordano come in un primo momento gli immigrati in Italia fossero indistintamente etichettati come ‘marocchini’, appellativo carico di connotazioni negative, e come il ‘vù cumprà’ sia stato in tutto e per tutto un’invenzione dei media per dare un nome e appropriarsi simbolicamente di una nuova figura sociale. In seguito, (ivi:26,27), ‘nel linguaggio comune ma anche in quello mediatico e istituzionale, immigrati, profughi, rifugiati diventeranno in blocco immigrati […] In Italia, al pari che in Francia, a essere identificati come immigrati sono anche coloro che non lo sono affatto: i cittadini italiani non autoctoni, i sinti e i rom con cittadinanza italiana, i figli di genitori stranieri, i figli di coppie miste. A decidere della differenza tra

CoNtENUtI IDENtItArI E IDEoLoGICI DEL LINGUAGGIo 71

proposito (ivi:26), l’idea del movimento e della scelta che risiede dietro a questa mobilità, al di là delle cause, è meglio rappresentata nel termine immigrante o migrante dal momento che il termine straniero richiama uno status giuridico e quello di immigrato una condizione sociale.

Tali considerazioni non implicano che questa sorta di neolingua derivi direttamente, e in ogni caso, dai media i quali generalmente la utilizzano o per aderire ad una linea politico-culturale o, più semplicemente, per informare nei tempi ridotti a loro disposizione. Le scelte degli organi politici spesso hanno la responsabilità in questa sistematica revisione dei significati, come nel caso della recente proposta di introdurre per i bambini immigrati ‘classi di inserimento’, eufemismo per indicare la reintroduzione di classi differenziali, anche se in questo caso i diversi sarebbero gli immigrati. Un’interessante discussione su questo punto è fornita da Stefano Bartezzaghi il quale, in un articolo su La Repubblica (2.10.2008:1-47), individua nella questione di questi usi lessicali due facce, quella del linguaggio politicamente corretto, eufemistico, e quella del politicamente scorretto, delle scelte lessicali forti, immaginifiche. Il primo tipo di adattamenti lessicali ha l’effetto di produrre una rappresentazione ipocrita, di comodo, degli eventi sociali:

I linguisti hanno incominciato a studiare il linguaggio ‘politicamente corretto’ (PC), ed è senso comune che il PC sia la malattia principale della comunicazione italiana odierna. Il PC imporrebbe di usare caute perifrasi, di chiamare le cose non con il loro nome ma con eufemismi codificati e aggiornati in continuazione (‘handicappato’, poi ‘disabile’, poi ‘diversamente abile’, poi chissà) […] In Italia il PC non ha mai prodotto norme, penalizzazioni, censure giudiziarie, amministrative, pecuniarie e neanche sociali, come invece è accaduto negli Stati Uniti […] Per PC, in Italia, si intende una cosa diversa: il linguaggio che si sforza di distinguere, frequentare sfumature anziché raggruppare e pensare per categorie già formattate altrove, magari offensive per gli interessati. […] I divertiti censori del PC di sinistra dovrebbero prima o poi farci sapere cosa ne pensano delle missioni di ‘peace keeping’ che richiedono l’uso di bombardieri, dei licenziamenti chiamati ‘esuberi’, dei tagli ai servizi sociali chiamati ‘riforme’, dei reati chiamati ‘errori’, […] dei repubblichini chiamati ‘ragazzi’ […].

Gli usi lessicali che Bartezzaghi classifica come politicamente scorretti si associano tipicamente al pensiero di destra, volto a individuare nella società divisioni associate agli impulsi della dotazione biologica delle persone, come noi/ altri, simile/ diverso, amico/ nemico, normale/ anormale, etc.

Chi definisce ‘comunista’ oggi la ben più consistente opposizione di centrosinistra (a cui vengono sommati giornalisti, magistrati, showmen e a volte anche allenatori di calcio) sta usando la parola come se fosse uno sberleffo. Da ‘fannulloni’ a ‘froci’, passando però anche per termini compassionevoli come ‘poveri’ o apparentemente neutri come ‘gente’, il vocabolario oramai egemone della destra e della maggioranza dei massmedia non si dà preoccupazioni di esattezza tassonomica, ma divide la società secondo linee di forza, e fronti di scontro tra un ‘noi’ sempre mutevole […] e un ‘quegli altri’ sempre generico.

Il punto cruciale è che gli usi linguistici introdotti dai media, sia tramite la carta stampata sia tramite la televisione e i personaggi che vi compaiono, riflettono e producono i significati convenienti ai poteri politico ed economico. Il ricorso dei media a scelte lessicali eufemistiche o identitarie ha l’effetto di denotare eventi, situazioni, persone tramite i significati codificati dai sistemi di pensiero dei poteri economico, creando consenso e, in ultima analisi, consolidando il conformismo di un pensiero unico e acritico. Così, nel caso della recente proposta di introdurre per i bambini immigrati ‘classi di inserimento’ o ‘classi ponte’, (La Repubblica, 15.10.2008:14-15), la formula ‘di inserimento/ ponte’ è un eufemismo che nasconde un significato socio-culturale e una portata emotiva di contenuto xenofobo. Infatti, tale etichetta rinvia ad una funzione pedagogica, cioè l’acquisizione dell’italiano, che implica comunque una concezione vetusta e insieme identitaria della lingua, per la quale è la scuola (della nazione) che certifica la lingua ‘autentica’ e normalizza, con l’assimilazione o con la separazione, chi appartiene ad altri mondi culturali e linguistici

(cf. pf. 7.3.2). Sappiamo invece che è nell’interazione con i parlanti, in particolare i coetanei, e quindi nelle naturali condizioni di vita all’interno della società che si sviluppa la competenza linguistica.

Se i media comunicano nel rispetto di una logica di mercato (cf. Zolo 2004; Bauman 2005a,b) e se, come sottolinea Bourdieu (2001:86), ‘l’intrusione della logica commerciale’ interessa ‘tutte le fasi della produzione e della circolazione dei beni culturali’, ci possiamo chiedere fino a che punto abbia senso parlare di democrati- cità dell’informazione in riferimento alla molteplicità dei soggetti (emittenti, testate, etc.) e dei mezzi. Non a caso Giddens (2000) individua nel rapporto tra democrazia e media una delle questioni centrali nel processo di globalizzazione. Infatti, la concentrazione nelle mani di pochi dei principali gruppi mediatici e l’appiattimento della dimensione sociale collettiva determinano un deficit nella reale diffusione dell’informazione.

[…] i media […], in particolare la televisione hanno un rapporto duplice con la democrazia. Da una parte […] l’emergere di una società dell’informazione globale è una grande forza democratizzante; d’altra parte, la televisione e gli altri media tendono a distruggere lo stesso spazio pubblico di dialogo che aprono, attraverso un’incessante banalizzazione e personalizzazione delle questioni politiche. Inoltre la crescita di giganteschi gruppi mediatici multinazionali fa sì che certi uomini d’affari finiscano per detenere un enorme potere. (Giddens 2000:95,96)

In questo quadro, Chomsky (2004a) offre un’analisi relativa nello specifico alla società americana che associa al sistema dei media come ruolo fondamentale quello di vendere non programmi agli spettatori ma presenza d’utenti agli acquirenti di spazi pubblicitari. Il pubblico è identificato direttamente col prodotto dei giornali e in generale dei media, di cui la pubblicità rappresenta il mercato. Chomsky (2004a) nota che i media sono funzionali ad un sistema di potere che correla alle grandi corporation le istituzioni educative e in particolare universitarie, che sono sede di un processo di interiorizzazione ‘dello schema di convinzioni e di orientamenti del sistema di potere’ (ivi:26). All’interno di una ‘cornice dottrinaria’ di questo tipo le corporation private vendono ‘pubblico ad altre grandi imprese private’ (ivi:28).

Questa analisi mette in luce un aspetto di un processo più generale per cui i ‘sistemi di indottrinamento’ delle società democratiche occidentali passano attraverso meccanismi, come il controllo del dibattito politico sui mezzi di comunicazione di massa, che per quanto indiretti non appaiono meno efficaci del controllo esercitato nei sistemi totalitari (Chomsky 1986;1994). Chomsky (1994;1996) attribuisce la costruzione del consenso alla classe degli intellettuali indottrinati all’ideologia degli interessi comuni, in ultima istanza i grandi interessi economici. Compito degli intellettuali è guidare tramite i media e la scuola il branco

confuso, nel quale devono essere instillati i giusti valori, come l’americanismo, il lavorare insieme, l’armonia,

la famiglia, i comportamenti attesi dal singolo, etc. In questa concezione di democrazia si deve impedire all’opinione pubblica di determinare autonomamente e criticamente i propri interessi, tramite un rigido controllo dei mezzi di informazione. La teoria liberal-democratica e marxista-leninista sono, sotto questo aspetto, molto vicine nello loro premesse ideologiche: non appena le società diventano libere sorge il problema di controllare l’opinione pubblica, dato che non si può più controllare la gente con la forza. Il significato reale del termine democrazia si contrappone quindi al suo significato ideologico (Chomsky 1994).

Nel documento Lingua e società. La lingua e i parlanti (pagine 72-75)